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IL CASO TARANTO. Ambiente e diritti umani nella sentenza Cordella e altri c. Italia: un’occasione mancata. – QUOTIDIANO LEGALE
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IL CASO TARANTO. Ambiente e diritti umani nella sentenza Cordella e altri c. Italia: un’occasione mancata.

AMBIENTE E DIRITTI UMANI NELLA SENTENZA CORDELLA E ALTRI C. ITALIA: UN’OCCASIONE MANCATA.

Flavia Albano – Laura Cimaglia – Luca Occhionero – Edmondo Ruggiero

Abstract

Il contributo analizza la decisione della Corte nella sentenza Cordella e altri c. Italia, evidenziando le criticità connesse all’esatto inquadramento delle qualifiche di vittima in relazione ai reati ambientali, tradizionalmente intesi come victimless crimes”, alla mancata adozione delle forme della c.d. decisione pilota, e infine alla scelta di inquadrare le doglianze nell’ambito del perimetro dei soli artt. 8 e 13 Cedu, escludendo la violazione del diritto alla vita. Viene proposta una lettura ispirata al criterio della tutela più intensa del bene primario dell’esistenza, in linea con l’ermeneusi costante della Corte di Strasburgo e, non da ultimo, si auspica il riconoscimento di un autonomo diritto ad ambiente salubre.

The paper analyse the ruling Cordella e altri c. Italia of the ECHR, trying to draw the attention on the issues arising on the qualification of the victim in enviromental crimes, usually perceived as “victimless crimes”, on the non implementation of the so called “pilot judgement” procedure, and finally with the sole recognition of the crimes as violations under articles 8 and 13 of the European Convention on Human Rights not extending them to the scope of the right to life under article 2. The authors aim to propose a stronger enforcement of the right to life in enviromental crimes, as already seen in the previous case-law of the Court, hoping the ECHR will assert in the future a conventional environmental right for the protection of the individual.

1._Premessa 2. La qualità di “vittima” nella sentenza Cordella e altri c. Italia 3. Il problema del mancato riconoscimento della “causa pilota” 4. Le statuizioni di merito e la scelta di non riconoscere la violazione del diritto alla vita: un’occasione mancata.

  1. Premessa

Con la sentenza Cordella e altri c. Italia del 24 gennaio 2019, la Corte europea dei diritti dell’uomo torna ad affrontare la “questione Ilva”, già in precedenza portata alla sua attenzione con il ricorso Smaltini c. Italia del 20151.

Invero, la Seconda sezione della Corte E.D.U. nel caso Smaltini aveva dichiarato irricevibile il ricorso – proposto da un’abitante di Taranto ammalata di leucemia e nelle more deceduta – non per inapplicabilità dell’art. 2 Cedu, ma per manifesta infondatezza della doglianza, evidenziando nello specifico che le autorità giudiziarie nazionali avevano fornito adeguate risposte in ordine al difetto del nesso eziologico, in assenza di attendibili evidenze epidemiologiche.

Con la sentenza in epigrafe, al contrario, la Corte statuisce nel merito, riconoscendo la violazione nei termini che di seguito si specificheranno, degli artt. 8 e 13 CEDU.

Invocando gli 2 e 8 della Convenzione i ricorrenti hanno lamentato la violazione del loro diritto alla vita e al rispetto della vita privata contestando allo Stato Italiano di non aver adottato le misure giuridiche e regolamentari volte a proteggere la loro salute e l’ambiente, e di aver omesso di fornire le informazioni sull’inquinamento provocato dallo stabilimento siderurgico e sui rischi correlati per la loro salute.

Sotto il profilo procedurale i ricorrenti hanno inoltre sostenuto di avere subito una violazione del loro diritto a un ricorso effettivo così come sancito dall’art. 13 della Convenzione.

Come si vedrà meglio nel prosieguo, sebbene la Corte non abbia ritenuto sufficientemente rilevanti le posizioni dei ricorrenti sotto il profilo della lesione al diritto alla vita tutelato dall’art. 2 affrontando il grave problema sanitario del territorio tarantino, accertato dalla stessa Corte, come una questione di “benessere” e “qualità della vita” secondo quanto sancito dall’art. 8 della Convenzione, un risultato molto importante è stato accertare, in capo allo Stato italiano, una grave responsabilità nel non aver saputo introdurre, nel corso degli anni, normative adeguate e capaci di ristabilire il giusto equilibrio in quello che sinora è stato percepito e, finalmente riconosciuto, come un irragionevole rapporto costi-benefici2.

2. La qualità di “vittima” nella sentenza Cordella e altri c/ Italia

A causa della loro complessa natura, spesso spesso collegata a profili di criminalità organizzata, lesioni contro la vita e l’integrità personale, e persino di corruzione ed evasione fiscale, per un lungo tempo i reati ambientali sono stati percepiti come “victimless crimes”, fattispecie nelle quali non è semplice individuare con precisione le vittime che, a seconda dei casi, possono identificarsi in individui specifici, gruppi di persone, la collettività o, addirittura, nell’ambiente come valore oggetto di per se tutelabile.

Complessità che certamente si riscontra nel caso Cordella e altri c. Italia, nel quale una diffusione su vasta scala di molteplici patologie eziologicamente connesse all’inquinamento ambientale dell’impianto siderurgico di Taranto viene portato innanzi alla Corte EDU, al fine di sanzionare il comportamento omissivo dello Stato italiano.

Dalla lettura della sentenza Cordella e altri c. Italia appare evidente che il primo ostacolo per i 180 ricorrenti (ricorsi nn. 54414/13 e 54264/15 successivamente riuniti dalla Corte) sia stato il riconoscimento della loro qualità di “vittime” di fattispecie criminose lesive dei diritti fondamentali alla vita (art. 2 della Convenzione) al rispetto della vita privata, familiare e del domicilio (art. 8) nonché del diritto a un ricorso effettivo (art. 13) contestata dal Governo italiano nelle eccezioni preliminari.

Preliminarmente lo Stato italiano aveva eccepito, infatti, che nessuno dei 180 ricorrenti potesse effettivamente qualificarsi come vittima nel caso di specie basandosi su tre principali motivi di censura:

  1. lo status di vittima si sarebbe potuto accertare solo all’esito dei procedimenti interni proposti e che sostanzialmente vertevano sui motivi di ricorso poi sollevati innanzi alla Corte;

  2. l’astrattezza e l’eccessiva genericità delle istanze dei ricorrenti che, stando alla tesi governativa, non avrebbero fornito alcun elemento fattuale a supporto delle loro doglianze di aver subito un danno concreto, qualificandosi, pertanto, come mere actio popularis;

  3. la circostanza che la maggior parte dei ricorrenti non vivesse nel comune di Taranto, luogo direttamente interessato dall’inquinamento ambientale.

A tali drastiche eccezioni la Corte risponde riconoscendo la legittimazione attiva, ovvero la possibilità che chi propone ricorso possa effettivamente essere qualificato come “vittima” del reato contestato, a ben 161 dei 180 ricorrenti escludendo dalle proprie valutazioni solo 19 soggetti.

La Corte, pur confermando la propria giurisprudenza in punto di inammissibilità dell’actio popularis (§99), estranea alla sua competenza di Giudice delle violazioni dei diritti fondamentali individuali3, ha tuttavia respinto tali eccezioni e, nell’affermare, alla luce degli studi epidemiologici a disposizione che “l’inquinamento ha inevitabilmente reso le persone che vi erano sottoposte più vulnerabili a varie malattie” (§ 104) e che, soprattutto in base al Rapporto SENTIERI4l’inquinamento ha avuto senza dubbio conseguenze nefaste sul benessere dei ricorrenti interessati” (§ 106) ha di fatto riconosciuto l’esistenza di un nesso causale tra l’attività produttiva dello stabilimento siderurgico e la compromissione della situazione sanitaria nei comuni interessati.

A questo proposito, tuttavia, secondo il giudizio della Corte, a 19 dei 180 ricorrenti non può essere riconosciuta la qualità di “vittima” in quanto l’elemento essenziale per determinare se il danno ambientale abbia determinato una lesione dei diritti fondamentali garantiti dall’art. 8 della Convenzione è l’esistenza di un effetto nefasto sulla sfera privata o familiare di una persona e non semplicemente il degrado generale dell’ambiente (§100). E, nel caso di specie, se l’elemento criminoso viene individuato, e pacificamente accertato dalla Corte, nelle emissioni nocive dello stabilimento Ilva di Taranto, d’altro canto la qualità di vittima, stando alla tesi della Corte, spetta unicamente a quei soggetti che risiedono nei cosiddetti comuni “a rischio” individuati con deliberazione del Consiglio dei Ministri già nel lontano novembre del 1990. I comuni interessati, sono, quindi: Taranto, Crispiano, Massafra, Montemesola e Statte, quest’ultima, insieme a Taranto, inserita anche tra i SIN (Siti di Interesse Nazionale) con Decreto Ministeriale nel 2000.

Non si ritengono vittime delle emissioni dell’Ilva i 19 ricorrenti che risiedono in comuni diversi da quelli citati e che non hanno presentato prove sufficienti ad accertare di essere stati, anche loro, colpiti personalmente dalla situazione denunciata rimettendo in discussione l’estensione dell’area di rischio preventivamente individuata.

In questo caso, come in altri precedentemente trattati, la Corte, quindi, esamina unicamente le posizioni di coloro che possono inequivocabilmente ritenersi lesi dal comportamento dello Stato che ha prodotto effetti dannosi a carico dei ricorrenti e che, secondo la valutazione del Giudice, sono riconosciuti come vittime e legittimati attivamente ad agire contro lo Stato italiano.

Al netto di tale eccezione preliminare, la portata della tutela della Corte EDU avrebbe potuto avere un estensione molto maggiore e, soprattutto diversamente incisiva, se la qualità di vittime fosse stata riconosciuta a quei 161 ricorrenti anche sotto il profilo della violazione del diritto fondamentale alla vita sancito e tutelato, come bene primario, dall’art. 2 della Convenzione.

Avendo affermato, infatti, senza la minima incertezza, che sussiste un nesso causale tra le emissioni nocive dell’Ilva e la compromissione della situazione sanitaria dei comuni interessati, sarebbe stato legittimo aspettarsi un pieno accoglimento delle istanze dei ricorrenti sotto tutti i profili lamentati dal momento che, nelle fattispecie basate sulla diffusione epidemiologica di patologie connesse all’inquinamento ambientale, è proprio la dimostrazione del nesso causale a rappresentare, per la complessità probatoria, il principale ostacolo5.

Purtroppo sul punto la Corte di Strasburgo delude le aspettative sin qui alimentate quando, in applicazione del principio iura novit curia, sceglie di far ricadere le istanze dei ricorrenti esclusivamente tra le più larghe maglie dell’art. 8 della Convenzione senza, peraltro, motivare tale scelta ma richiamando la sua prerogativa di riqualificare giuridicamente i fatti che le sono sottoposti. Ma di ciò si dirà più diffusamente nel seguito.

In proposito, tuttavia, sarebbe semplicistico affermare che la decisione della Corte sia basata esclusivamente sulla circostanza che la tutela dell’ambiente non sia sancita expressis verbis nella Convenzione, sebbene il diritto ad un ambiente salubre sia specificatamente riconosciuto come diritto individuale a livello europeo6 e introdotto già da tempo all’interno degli ordinamenti nazionali, incluso quello italiano attraverso un sistema sanzionatorio molto più rigido rispetto al passato.

Ciò che sorprende, invero, è che il diritto inviolabile ad un ambiente salubre, privo di inquinamento e rispettoso della salute, era già stato sancito in diverse sentenze della CEDU nell’ambito delle quali, il tema della tutela penale delle vittime dai danni ambientali – qualificate come tali secondo i canoni sopra enunciati – si era tradotto in pesanti sanzioni a carico degli Stati membri.

Sebbene, quindi, manchi, all’interno della Convenzione, una misura esplicita di tutela dell’ambiente come diritto individuale e collettivo autonomamente sancito, è innegabile che la Corte di Strasburgo ha evidenziato una connessione diretta tra ambiente e tutela dei diritti umani attraverso il meccanismo di protezione par ricochet7, riconoscendo gradualmente dapprima la violazione di diritto al domicilio, poi della vita privata e, infine, della vita attuando una vera e propria green jurisprudence in grado di rendere la stessa Convenzione strumento di interpretazione attuale e rispondente alle sempre diverse esigenze della società8.

A partire dalla sentenza Lopez-Ostra c. Spagna9 del 6 dicembre 1994, i cui principi sono stati successivamente ripresi in Guerra e altri c. Italia del 19 febbraio 1998, la Corte ha riconosciuto, sotto l’alveo dell’art. 8 della Convenzione, un diritto inviolabile ad un ambiente salubre privo di inquinamento e rispettoso della salute.

In tali giudicati la Corte afferma per la prima volta l’esistenza in capo allo Stato, di un obbligo non solo di azioni positive mirate a far cessare le fonti di inquinamento, ma altresì di un obbligo di informazione, nei confronti della collettività, in merito ai gravi rischi connessi alla vicinanza alla fonte di pericolo. Lo Stato deve quindi attuare misure ragionevoli ed efficaci atte a garantire il diritto delle parti al rispetto della propria vita privata, del proprio domicilio e, più in generale al godimento di un ambiente sano e protetto10.

Sebbene nel c.d. caso ILVA la Corte non abbia riconosciuto ai ricorrenti legittimati lo status di vittima di una lesione del diritto alla vita, tutelato dall’art. 2, la sentenza Cordella e altri c. Italia ha una portata fortemente innovativa nell’ambito della giurisprudenza della CEDU in materia di tutela delle vittime da reato ambientale: per la prima volta, infatti, viene riconosciuta una grave responsabilità dello Stato italiano per non aver saputo introdurre, per anni, normative adeguate e capaci di tutelare l’ambiente in relazione, quantomeno, al benessere delle persone e alla possibilità di godimento del proprio domicilio e della vita privata.

Con queste importanti premesse dettate dalla sentenza Cordella e altri c. Italia l’aspettativa è che in futuro sia proprio la Corte EDU a riconoscere un autonomo diritto, individuale o collettivo, ad un ambiente sano.

3. Il problema del mancato riconoscimento della “causa pilota”.

La ‘procedura di sentenza pilota’ è quella tecnica decisoria che consente alla Corte dei Diritti Umani di accertare non solo l’inadempimento nel caso concreto, ma anche il ‘sottostante problema strutturale’, e cioè l’esistenza nell’ordinamento dello Stato responsabile di una legislazione o di una prassi amministrativa o giudiziaria che causino una violazione sistemica e continuativa della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La funzione di tale particolare strumento è tuttavia di ausilio e di supporto per lo Stato ritenuto responsabile al fine di individuare il rimedio più appropriato atto a rimuovere il problema sistemico individuato dalla Corte. Cosi facendo oltretutto si raggiunge l’obiettivo di ridurre il carico giudiziario in capo a quest’ultima e assicurare la sopravvivenza del sistema giurisdizionale.

L’art.46 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo difatti disciplina la “forza vincolante ed esecuzione delle sentenze”. In premessa ricorda l’impegno degli Stati contraenti a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie delle quali sono parti. Descrive una procedura che prevede che la sentenza definitiva sia trasmessa al Comitato dei Ministri che ha a sua volta il compito di controllarne l’esecuzione. Se il Comitato dei Ministri dovesse ritenere che il controllo sulla esecuzione di una sentenza definitiva sia ostacolato da una difficoltà di interpretazione di tale sentenza, esso potrebbe adire la Corte affinché questa si pronunci sulla questione interpretativa. La decisione di adire la Corte sarebbe in questo caso presa con un voto a maggioranza dei due terzi dei rappresentanti che hanno il diritto al seggio in seno al Comitato. Se il Comitato dei Ministri ritenesse che uno Stato contraente abbia omesso di conformarsi ad una sentenza definitiva in una controversia di cui è parte potrebbe, dopo avere messo in mora tale Paese, adire la Corte sulla questione relativa all’adempimento degli obblighi assunti con una decisione adottata con un voto a maggioranza dei due terzi dei rappresentanti aventi diritto ad un seggio internamente al Comitato. Se la Corte dovesse constatare una violazione inerente l’obbligo di esecuzione della sentenza definitiva, potrebbe rinviare il caso al Comitato dei ministri affinché esamini le misure da adottare. Se la Corte dovesse constatare che non vi è violazione in tal senso rinvierebbe il caso al Comitato dei Ministri che chiude definitivamente l’esame.

Nel caso di specie i ricorrenti hanno chiesto l’applicazione dell’art.46 della convenzione tenuto conto del numero di persone potenzialmente colpite dalla situazione per cui vi è stata causa. Essi hanno chiesto in particolare che le autorità italiane potessero adottare misure legislative ed amministrative al fine, da una parte, di porre fine alle attività causa delle violazioni dagli stessi ricorrenti denunciate in giudizio, e dall’altra di eliminare le conseguenze derivanti da queste ultime. I ricorrenti hanno chiesto in particolare che le autorità nazionali procedessero, con la massima urgenza, alla sospensione immediata dell’attività più inquinanti (vale a dire l’attività dell’area a caldo dello stabilimento) e all’attuazione di un piano di decontaminazione della fabbrica e delle aree limitrofe. La Corte, accogliendo parzialmente le difese dell’avvocatura dello Stato italiano ebbe modo di stabilire che una violazione della Convenzione così come rappresentata, poteva comportare per lo stato convenuto non solo l’obbligo risarcitorio commisurato all’equa soddisfazione, ma anche l’obbligo di individuazione, sotto il controllo del comitato dei ministri, le misure generali da adottare nel suo ordinamento giuridico interno al fine di porre fine alla violazione eventualmente sentenziata dalla Corte ed a tutte le conseguenze illecite.

La Corte adita nella motivazione del respingimento della richiesta di applicazione della procedura della “sentenza pilota” ex art. 46 della convenzione ebbe modo di sottolineare la generale urgenza della “prescrizione” (nel senso di obbligo di adottare misure volte alla esecuzione della sentenza), ma anche l’urgenza della “individuazione” in favore dello Stato nazionale degli strumenti atti alla esecuzione della sentenza sotto il controllo, per questo ultimo profilo, del Comitato dei Ministri. Fatte tali premesse, nel caso specifico la Corte ha individuato due ostacoli ai fini della applicazione del meccanismo cosiddetto della “sentenza pilota”: il primo è nella profondità del problema nel suo complesso ( sontuosa legislazione, complessità delle opere programmate, difficoltà tecnica delle misure necessarie al risanamento della zona interessata); il secondo è nella richiesta “abnorme” dei ricorrenti rispetto alle competenze della sessa Corte giudicante: i Giudici aditi difatti hanno ritenuto che non spettasse alla Corte rivolgere al governo delle raccomandazioni dettagliate a contenuto prescrittivo, come quelle indicate dai ricorrenti; e che al contrario fosse di competenza del Consiglio dei Ministri, che agisce ai sensi dell’art.46 della Convenzione indicare al governo convenuto le misure che, in termini pratici, devono essere adottate da quest’ultimo per assicurare l’esecuzione della sentenza. Entrando nel merito la Corte adita ha ricordato che comunque lo Stato convenuto avesse già messo in cantiere progetti ed opere di risanamento ambientale (alcune in via di esecuzione, altre addirittura già eseguite), opere di primaria importanza di cui la Corte ha riconosciuto l’urgenza e la necessità per la messa in sicurezza ambientale e sanitaria della popolazione.

  1. Le statuizioni di merito e la scelta di non riconoscere la violazione del diritto alla vita: un’occasione mancata.

Nel condannare lo Stato italiano per la violazione degli art. 8 e 13 CEDU, escludendo quella dell’art 2 CEDU, la Corte delude le aspettative di quanti speravano che l’annosa querelle tra il mantenimento in esercizio dell’ILVA – il più grande e obsoleto impianto siderurgico d’Europa e la tutela della salute della cittadinanza potesse trovare, finalmente, se non una soluzione immediata, almeno l’input per un’inversione di rotta.

Come visto, i ricorrenti avevano censurato la violazione della Convenzione sotto il triplice profilo dell’art. 2 (diritto alla vita) e dell’art. 8 (diritto alla vita privata) e dell’art. 13 (diritto a un ricorso effettivo).

Veniva rilevata, in primis, la mancata adozione di misure preventive, organizzative e di informazione, a tutela della popolazione interessata, la quale è risultata danneggiata (a vario titolo) dall’esposizione da emissioni nocive derivanti dall’attività industriale dello stabilimento Ilva, attività ad alto impatto e rischio ambientale, protratto nel tempo, le cui conseguenze dannose sulla salute delle persone erano state attestate da numerosi studi scientifici di tipo epidemiologico.

Oltre all’inerzia statale a fronte dei comprovati rischi per la vita e la salute eziologicamente connessi alle emissioni nocive provenienti dallo stabilimento, i ricorrenti denunciavano l’incidenza delle stesse sulle abitudini di vita privata e familiare e sull’assenza di vie di ricorso interne per mezzo delle quali gli abitanti interessati avrebbero potuto lamentare la mancata attuazione del piano di risanamento ambientale previsto dai decreti “salva-Ilva” e, in definitiva, difendersi in modo effettivo a fronte della violazione di un diritto sancito dalla Convenzione.

La Corte di Strasburgo, pur non ignorando gli effetti pregiudizievoli dei fumi tossici sulla salute dei singoli ed anzi riconoscendo che nel caso di specie, dagli elementi di prova di cui dispone la Corte emerge che l’inquinamento ha inevitabilmente reso le persone che vi erano sottoposte più vulnerabili a varie malattie (§ 105) affronta la tematica esclusivamente sotto la lente dell’art. 8 e dell’art 13 CEDU11, scartando l’ipotesi di violazione del diritto alla vita.

Tale scelta, tenuto conto delle peculiarità dei ricorsi presentati alla Corte, della documentazione scientifica allegata, convince solo in parte, appare poco coraggiosa e non conforme ai parametri costantemente ribaditi dalla stessa giurisprudenza europea.

Invero, se correttamente viene rilevata la violazione dell’art. 13 CEDU, stante l’assenza di vie di ricorso interne attraverso le quali gli stessi abitanti avrebbero potuto denunciare l’incompiuta attuazione del piano di risanamento ambientale ed ottenere misure volte alla bonifica delle aree contaminate, non può condividersi come a fronte di un accertato rischio di morte e di insorgenza di malattie letali ed invalidanti, il parametro di riferimento sia stato individuato nell’art. 8 CEDU.

È solo il caso di rimarcare appena che l’ampia serie di evidenze scientifiche esibite alla Corte attestavano l’aumento dell’incidenza della mortalità e della morbilità per patologie oncologiche, cardiovascolari, respiratorie e digestive, sicché, come sottolineato dalla stessa Corte nel § 106 risulta dimostrato il nesso di causalità tra le attività produttive dell’Ilva e la compromissione della situazione sanitaria nei comuni interessati.

A titolo esemplificativo basti citare il rapporto “Sentieri” del 2014, che indica un tasso di mortalità infantile più alto nella regione di Taranto rispetto a quello delle altre regioni12, nonché un rischio oncologico più elevato nella fascia di età compresa tra 0 e 14 anni.

Sorprende quindi, la contraddittorietà insita nel passaggio argomentativo in esame, che pur ritenendo provato il nesso eziologico tra l’aumento di patologie mortali e le attività produttive ILVA, inquadra la condotta nell’alveo delle offese all’integrità psico-fisica che non raggiungono una soglia di gravità tale da essere attratte nell’art. 2 CEDU.

È opportuno evidenziare che la manifestazione di un grave danno alla salute o dell’evento morte non è un elemento costitutivo del pericolo previsto dall’art. 2, bensì un mero elemento di prova della tipologia e della serietà del pericolo stesso: anche in assenza di una patologia conclamata, il rischio di morte non potrà essere automaticamente escluso, ben potendo la relativa prova essere raggiunta in altro modo13.

Richiamando alcuni precedenti in materia, la decisione Cordella ricorda che i danni gravi arrecati all’ambiente possono compromettere il benessere delle persone e privarle del godimento del loro domicilio in modo tale da nuocere alla loro vita privata (così in Lόpez Ostra c. Spagna, 9 dicembre 1994, serie A n. 303-C, § 51, e Guerra e altri c. Italia, 19 febbraio 1998, § 60, Recueil 1998 I).

Sul punto viene evidenziato che, nelle cause in cui la nozione di soglia di gravità è stata specificamente esaminata in materia di ambiente, la Corte ha ritenuto che una doglianza difendibile dal punto di vista dell’articolo 8 può sorgere se un rischio ecologico raggiunge un livello di gravità che riduce notevolmente la capacità del ricorrente di godere del proprio domicilio o della propria vita privata o famigliare. La valutazione di tale livello minimo in questo tipo di cause è relativa e dipende da tutti gli elementi della causa, in particolare dall’intensità e dalla durata delle nocività e dalle conseguenze fisiche o psicologiche di queste ultime sulla salute o sulla qualità di vita dell’interessato (Fadeïeva, sopra citata, §68 e §69, Dubetska e altri c. Ucraina, n. 30499/03, § 105, 10 febbraio 2011, e Grimkovskaya c. Ucraina, n. 38182/03, § 58, 21 luglio 2011).

Tuttavia non può non osservarsi che nel caso in esame vi è innanzitutto la prova di un reale ed effettivo pericolo per la vita dei ricorrenti, cui si aggiunge – in seconda battuta – il pregiudizio alla vita privata o familiare.

Ridurre il grave problema sanitario connesso alle emissioni nocive dello stabilimento ILVA ad una questione di benessere o di riduzione della qualità della vita equivale in sostanza a riconoscere margini di tollerabilità delle emissioni stesse, in prospettiva di un contemperamento tra costi e benefici – solo economici – dell’attività industriale inquinante.

La vita umana riceve dalla Convenzione una tutela tendenzialmente assoluta, secondo l’art. 2 par. 2, infatti, la vita può essere sacrificata soltanto quando il ricorso alla forza (potenzialmente) letale è “assolutamente necessario” in vista di una delle finalità tassativamente elencate (legittima difesa, arresto, impedimento di un’evasione, repressione di una rivolta).

La “vita privata”, al contrario è uno di quei diritti fondamentali caratterizzati da maggiore flessibilità: lo Stato può limitarne l’esercizio entro i margini previsti dall’art. 8 par. 2, ossia quando l’interferenza sia prevista dalla legge e appaia necessaria e proporzionata a perseguire uno degli interessi ivi indicati (tra i quali compare anche il “benessere economico del paese”).

D’altra parte, l’art. 8 consente agli Stati ampia possibilità di definizione delle regole di esercizio delle attività inquinanti e quindi area del “rischio consentito”, individuata mediante autorizzazioni, procedure, ed altri mezzi amministrativi di controllo.

Ma se è evidente che il diritto alla vita non è suscettibile di bilanciamento con altri interessi, mentre il diritto sancito dall’art. 8 CEDU lo è, non può accettarsi che l’incremento territorialmente qualificato di malattie mortali o comunque fortemente invalidanti come quelle di tipo oncologico, venga ricondotto nell’ambito della mera deminutio del proprio benessere e del pieno godimento della propria vita privata e del domicilio.

Il dato desta stupore soprattutto ove si consideri che in diverse occasioni precedenti la Corte ha affrontato la medesima tematica sotto la differente prospettiva della tutela del diritto alla vita ex art 2 CEDU. Nella decisione sul caso Öneryıldız c. Turchia infatti, veniva precisato che lo Stato è tenuto a predisporre, al fine di prevenire le violazioni del diritto alla vita, un quadro legislativo e amministrativo progettato per fornire un deterrente efficace contro le minacce ed, in particolare, deve prevedere (i) la regolamentazione della concessione di licenze, l’istituzione, il funzionamento, la messa in sicurezza ed il controllo delle attività industriali in cui vanno prese in considerazioni le peculiarità dell’attività ed il livello di rischio potenziale causato dalle stesse per la vita; (ii) l’adozione di misure concrete per garantire l’effettiva tutela dei soggetti la cui vita potrebbe essere messa in pericolo dai rischi insiti nello svolgimento delle attività industriali; (iii) la previsione di appropriate procedure per identificare in tempi rapidi le responsabilità dei processi e gli errori commessi; (iv) la necessità di garantire il diritto di informazione del pubblico sui rischi per la propria salute scaturenti dalle attività industriali 14.

Sul piano della teoria generale degli obblighi positivi di tutela del diritto alla vita, la valenza della pronuncia è innegabile, così come risulta palese la distanza dalla decisione Cordella v. Italia, che mostra a ben vedere una chiara contraddittorietà tra premesse e conclusioni

Pronunciandosi sul punto, la Corte di Strasburgo ha ribadito – in linea di principio – che quando vi è «la morte di una persona in circostanze che possono comportare la responsabilità dello Stato, l’articolo 2 della Convenzione implica per quest’ultimo il dovere di assicurare, con tutti i mezzi di cui dispone, una reazione adeguata – giudiziaria o altra – a nché il quadro legislativo e amministrativo instaurato ai ni della protezione della vita sia effettivamente attuato e affinché, eventualmente, le violazioni del diritto in causa siano represse e sanzionate» In particolare, «il sistema giudiziario richiesto dall’articolo 2 deve prevedere un meccanismo di inchiesta ufficiale, indipendente e imparziale, che risponda a certi criteri di effettività e di natura tale da assicurare la repressione penale delle offese alla vita provocate da una attività pericolosa, se e nella misura in cui i risultati delle indagini giusti chino tale repressione».

Nel 2004, condannando la Turchia, la Corte mostra una chiara scelta di campo nell’individuare una forma di responsabilità in capo allo Stato per violazione del diritto alla vita sotto il profilo sostanziale ogni qualvolta non siano adottate misure di prevenzione.

Un simile assunto non può che dimostrare il rilievo di prim’ordine riconosciuto al diritto fondamentale in esame, che impone ai singoli Stati un ampio novero di obblighi attraverso i quali si snoda l’effettiva tutela.

In particolare, lo Stato può essere dichiarato responsabile per violazione del diritto alla vita sotto il profilo sostanziale quando, pur conoscendo o avendo potuto conoscere sulla base degli studi scientifici esistenti il pericolo per l’uomo prodotto da emissioni nocive connesse ad attività pericolose, non ha predisposto misure preventive.

Viene quindi delineato uno specifico obbligo per gli stati membri non solo di avvalersi delle competenze scientifiche già disponibili ma anche di incrementare le proprie conoscenze nell’ottica di una tutela preventiva della salute e del benessere delle persone.

Tale principio è stato ulteriormente ribadito dalla Corte eur. dir. Uomo nella decisione Brincat e altri c. Malta, ric. nn. 60908/11, 62110/11, 62129/11, 62312/11, 62338/11, 24 luglio 2014; in cui la Corte europea ha accertato la violazione del diritto alla vita in merito al decesso di un lavoratore conseguente alla sua pregressa esposizione professionale ad amianto.

La pronuncia di condanna si articola in due parti: dapprima la Corte europea chiarisce che la morte del lavoratore è conseguita all’esposizione ad amianto, e ciò in ragione delle seguenti ragioni: a) non è emersa alcuna contestazione del fatto che il soggetto deceduto abbia lavorato oltre un decennio (1959-1974) in una compagnia navale (pubblica) in cui è stato esposto più volte all’amianto; b) il decesso del lavoratore è una conseguenza accertata di un mesotelioma maligno conosciuto come un raro cancro associato all’esposizione all’asbesto; c) la sua malattia non è stata influenzata da altri fattori. Premessa, dunque, l’esistenza del nesso tra l’esposizione e la morte del lavoratore, la Corte europea si è domandata, nel secondo passaggio argomentativo, se, a partire dall’entrata in vigore della Convenzione per lo Stato maltese (dal 1967), il Governo conosceva o avrebbe dovuto conoscere i pericoli derivanti dall’esposizione ad amianto durante il periodo in questione e, nel rispondere al quesito, ha sostenuto che le autorità governative maltesi, già durante i primi anni Settanta – periodo in cui il lavoratore terminava la propria attività, avrebbero dovuto sapere dei pericoli alla vita connessi all’esposizione ad amianto ed attivare di conseguenza le misure preventive necessarie, cosa che è stata attuata in modo inefficace negli anni Ottanta ed adeguatamente solo ad inizio del nuovo secolo.

Di conseguenza, in mancanza di misure concrete idonee a proteggere il diritto alla vita è stata accertata la violazione dell’art. 2 CEDU.

Per quanto riguarda gli altri ricorrenti con problemi respiratori legati alla passata esposizione professionale ad amianto, è stata ravvisata la violazione dell’art. 8 CEDU sulla base della massima già rievocata secondo cui «nel contesto delle attività pericolose, la portata degli obblighi positivi di cui all’articolo 2 della Convenzione si sovrappone in larga misura con quella di cui all’articolo 8».

Emerge, quindi che a fronte di un effettivo accertamento nel nesso eziologico tra esalazioni nocive e pregiudizio alla salute – che nel caso di specie ha condotto al decesso – l’inerzia “colpevole” dello Stato, configura una violazione dell’art 2 CEDU.

Al contrario, nell’ipotesi in cui le autorità pubbliche non abbiano compiuto studi adeguati per valutare e prevenire gli effetti di una attività pericolosa incidente sui propri di diritti fondamentali, la violazione riguarderà non l’art. 2 ma l’art. 8 CEDU, del diritto al rispetto della vita privata e familiare.

I parametri relativi a tale ultima fattispecie sono stati ampiamente tratteggiati dalla Corte nel caso Tătar c. Romania, ric. n. 67021/01, 5 luglio 200715, che nell’occasione ha ha concluso che «i ricorrenti non sono riusciti a dimostrare l’esistenza di un nesso di causalità sufficiente tra l’esposizione a certe dosi di cianuro di sodio e l’aggravamento dell’asma», ma ha condannato la Romania per violazione dell’art. 8 in quanto i soggetti esposti a rischi seri nel contesto di un’attività pericolosa hanno il diritto di ricevere un’adeguata informazione da parte degli organi statali, altrimenti potendosi configurare una responsabilità dinanzi alla Corte di Strasburgo.

Così descritte le coordinate in cui inserire l’analisi della sentenza Cordella c. Italia, resta l’impressione che nel complesso bilanciamento di interessi contrastanti16, pur in presenza di evidenze epidemiologiche sulla condizione sanitaria delle popolazioni esposte, siano stati valorizzati gli aspetti economici e di utilità sociale, a discapito dei bisogni espressi dalla comunità territoriale, e, ancora una volta, dell’ambiente.

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1 C. edu, dec. 24.3.2015, Smaltini c. Italia in in Dir. pen. cont. Riv. Trim., n. 2/2016, 44 ss. con nota di VOZZA D., Obblighi di tutela penale del diritto alla vita ed accertamento del nesso causale,

2 Sul punto Stefano Ziurlia in “Ambiente e diritti umani nella sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Ilva” pubblicato nel fascicolo 3/2019 di Diritto Penale Contemporaneo.

3 Si richiamano le sentenze Perez c. Francia [CG], n, 47287/99, § 70, CEDU 2004-1, e Di Sarno e altro c. Italia, n. 30765/08, § 80, 10 gennaio 2012.

4 Studio Epidemiologico Nazionale del Territorio e degli Insediamenti Esposti a Rischio Inquinamento redatto a cura dell’Istituto Superiore di Sanità su richiesta del Ministero della Salute.

5 In argomento, si veda l’ampio contributo di S. Ziurlia in “Ambiente e diritti umani nella sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Ilva” in fascicolo 3/2019 di Diritto Penale Contemporaneo.

6 Art. 37 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, rubricato “Tutela dell’ambiente” che così recita: “Un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile”.

7 Meccanismo di derivazione pretoria che ha consentito alla Corte di Strasburgo di estendere la tutela di alcuni diritti riconosciuti dalla Convenzione, ad altri diritti non direttamente contemplati nella stessa. E nel caso dell’ambiente si è assistito ad un graduale crescendo dei diritti enunciati (domicilio, vita privata, vita) per giungere ad un diritto all’ambiente vero e proprio anche in considerazione della sempre crescente sensibilità sociale sul tema. Sul punto V. Esposito “Danni ambientali e diritti umani” in Diritto Penale Contemporaneo.

8 Sul tema si veda il contributo di Veronica Manca pubblicato sulla rivista “Il nuovo diritto penale ambientale” intitolato “La tutela delle vittime da reato ambientale nel sistema CEDU: il caso Ilva”.

9 La vicenda riguardava le emissioni di uno stabilimento industriale per il trattamento dei rifiuti liquidi e solidi provenienti da aziende conciarie costruito poco distante dall’abitazione della famiglia Lopez-Ostra.

10 Di Sarno e altri c. Italia;

11 Come noto, l’art. 8 CEDU stabilisce che: 1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.

12 In particolare viene riportato un tasso superiore del 20% per quanto riguarda i decessi nel primo anno di vita e del 45% per quanto riguarda i decessi in utero, nonché un rischio oncologico più elevato nella fascia di età compresa tra 0 e 14 anni.

13 Nel caso Kolyadenko e altri c. Russia, la Corte ha ritenuto l’art. 2 Cedu non applicabile con riferimento ai ricorrenti che erano lontano da casa al momento dell’inondazione che l’ha colpita; mentre ha ritenuto la stessa disposizione applicabile con riferimento ai ricorrenti che erano in casa, malgrado non avessero riportato lesioni («the fact that they survived and sustained no injuries has no bearing […]» § 155).

14 D. Vozza, Obblighi di tutela penale del diritto alla vita ed accertamento del nesso causale. Rifessioni a margine della decisione della Corte europea dei diritti umani sul caso “Smaltini c. Italia”,

15 Corte eur. dir. uomo, Tătar c. Romania, ric. n. 67021/01, 27 gennaio 2009, trad. it. Unione forense per la tutela dei diritti umani. Cfr. D. L. Shelton, J. Bederman, Tatar c. Roumanie: European Court of Human rights decision on protections against environmental harms and on proof of causation and damages: Human rights–environmental harm–precautionary principle–causation–just satisfaction., in AJIL 104, 2010, pp. 247 ss.

16 In argomento, si rinvia diffusamente a a G.Pino. Conflitto e bilanciamento tra diritti fondamentali. Una mappa dei problemi Etica & Politica/ Ethics & Politics, 2006, 1 http://www.units.it/etica/2006_1/PINO.htm

*  Contributo programmato nel CORSO DI FORMAZIONE DI ALTA SPECIALIZZAZIONE IN DIRITTO AMBIENTALE – Organizzato dall’Anf Taranto.  (Gli altri contributi sono in lavorazione editoriale e saranno pubblicati prossimamente).

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