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I BENI PERSONALI NEL DIRITTO DI FAMIGLIA.

Coppia di fatto famiglia

I BENI PERSONALI NEL DIRITTO DI FAMIGLIA

Sergio Benedetto Sabetta

( Prima parte)

In base ai principi generali del regime patrimoniale della famiglia occorre dare all’art. 179 una interpretazione riduttiva, considerando l’elenco contenuto un elenco di carattere tassativo, senza che questo porti ad eliminare l‘analisi delle singole voci creando aprioristiche barriere.

Fatta questa considerazione preliminare, dobbiamo dire che l’art. 179 fa riferimento a quei beni che rimangono irrilevanti sia per la comunione attuale che per la comunione del residuo e per i quali vale il principio di surrogazione espresso nella lett. f) dello stesso.

La lett. a) fa riferimento ai soli diritti di proprietà e ai diritti reali di godimento appartenenti al coniuge prima del matrimonio, ma una interpretazione puramente letterale è eccessivamente riduttiva e senz’altro è da cogliersi la tesi per cui l’intero patrimonio preesistente al matrimonio rientra tra i beni personali.

Anzi, si può seguire senz’altro l’opinione di Cian e Villani, per cui rientrano in tale categoria quei beni e diritti “preesistenti all’ insorgere del regime di comunione. Se questo è posteriore al matrimonio, come può avvenire per precedente originaria scelta del regime di separazione o per scioglimento di un regime comunitario cui sia seguito un periodo di regime di separazione” (pag. 138).

Nonostante questa linearità è sorta controversia per il denaro di proprietà del singolo, infatti è stato sostenuto da Schlesinger che il denaro personale rimarrà tale finché non venga utilizzato per l’acquisto di beni, anche se individuali.

In questo caso non vi sarà l’applicazione del principio di surrogazione cui alla lett. f), ma si avrà una acquisizione automatica alla comunione legale ai sensi dell’art. 177, lett. a). Il motivo di una così grave interpretazione è da Schlesinger individuato nello stesso tenore della norma, quando nella lett. f) si parla di bene acquistato “con il prezzo del trasferimento dei beni personali” e non genericamente di denaro personale.

Lo stesso autore solleva l’obiezione che si tratterebbe in realtà “di uso di denaro personale” rientrante “nella fattispecie dello scambio di un bene personale”, ma precisa l’autore che altrimenti “non si capirebbe più perché il legislatore avrebbe tenuto distinta l’ipotesi di impiego del prezzo del trasferimento di un bene personale, ed in secondo luogo non si capirebbe l’uso del termine scambio per definire l’acquisto di un bene con denaro”.

Conclude Schlesinger con il richiamarsi all’art. 177 ed alla sua interpretazione estensiva “che pare voler in comunione ogni acquisto, se non si tratta di beni personali, senza distinguere se il denaro impiegato per l’acquisto sia dell’uno o dell’altro coniuge, sia stato guadagnato dopo il matrimonio ed accantonato o conservato da ancor prima delle nozze”.

Per quanto riguarda quest’ultima affermazione essa deriva da una interpretazione talmente generica dell’art. 177, lett. a) da potersi ricavare in argomento qualsiasi affermazione voluta per suffragare la tesi esposta.

D’altronde la stessa lett. a) dell’art. 177 rinvia all’art. 179, così che risulta chiaro che l’interpretazione data alla norma ultima e, quindi, anche alla lett. f), influirà sull’estensione della prima. Si vede bene che è una prova falsa in quanto determinata dalla stessa interpretazione e non per se stessa oggettiva.

Considerando, poi, la prova principale è pienamente valida l’obiezione sollevata da Cian e Villani per cui “la tesi limitativa pecca di incoerenza là ove ammette senz’altro un’interpretazione non letterale della lett. a), e la esige invece per la lett. f) della stessa norma”, anche se si potrebbe essere indotti ad una tale rigidità dallo stesso testo della norma che parla soltanto di proprietà di beni o altri diritti reali sui medesimi.

Anche le conseguenze di una tale interpretazione sono assurde se si pensa alla fine che dovrebbe fare, trasferito ex lege alla comunione, il bene acquistato dal singolo coniuge con il denaro, senza alcuna ombra di dubbio personale, ricavato dal risarcimento per la distruzione di un proprio bene personale, conclusione radicalmente in contrasto con il tenore dell’art. 179, lett. e).

Aveva sfuggevolmente indicato Schlesinger le difficoltà di prova a carico del coniuge per l’appartenenza delle somme di denaro ai beni personali, ma queste difficoltà di prova sussistono in generale per tutto il regime della comunione legale.

Non da ultimo è da riportare l’osservazione dei Finocchiaro, secondo cui l’esclusione dalla categoria dei beni personali di quei beni acquistati con denaro già personale dei coniugi “svuoterebbe di pratico contenuto” la lett. f) della norma, analogamente si pone Corsi.

Il lascito testamentario e la donazione a vantaggio di un coniuge sono sottratti alla comunione, se non è specificato nell’atto che “essi sono attribuiti alla comunione” (art. 179, lett. b). Non sorgono problemi per la prima parte, ma non altrettanto può dirsi per la seconda.

Nonostante il chiaro tenore della norma, i Finocchiaro hanno ritenuto di non individuare in essa la possibilità di imputare alla comunione i beni lasciati nel testamento o donazione quando negli atti è esplicitamente indicato in tal senso. La questione, più che una semplice e diretta interpretazione della norma è la conseguenza di una impostazione generale del regime patrimoniale della famiglia.

Avendo gli autori negato l’autonomia patrimoniale della comunione legale e quindi la sua soggettività con la conseguente possibile imputazione di una serie di diritti e obblighi è conseguenza logica l’impossibilità di imputare alla comunione i medesimi, anche se mediante testamento o comunione. Da quanto detto ne consegue che in ogni caso i beni dovranno essere imputati non alla comunione bensì ai singoli coniugi in parti uguali.

Schlesinger all’opposto considera pienamente ammissibile una donazione o un testamento a favore della comunione purché sia specificato senza ombra di dubbio, altrimenti il termine comunione lo si dovrà intendere in senso generico e i beni saranno imputati ai singoli coniugi.

Corsi accetta sostanzialmente la tesi di Schlesinger, tuttavia introduce un elemento di diversificazione costituito dalla comunione ordinaria che interverrà quando i beni siano attribuiti ad entrambi i coniugi senza esplicita sottoposizione al regime di comunione legale.

La tesi non sembra accettabile se si tiene presente che la comunione legale ha inteso sostituire la comunione ordinaria, introducendo un regolamento del tutto nuovo atto ad animare nella famiglia principi diversi da quelli vigenti anteriormente. Il mantenimento di una tale possibilità è solo una scoria del vecchio regime, che viene a turbare la nuova costruzione in palese contraddizione con la coerenza della nuova disciplina.

Più coerenti sono Cian e Villani che, pur riconoscendo la possibilità di nominare erede o beneficiare la comunione come soggetto autonomo, tuttavia affermano la necessità che questo avvenga in forma esplicita a causa delle gravi conseguenze che ne deriverebbero.

Per quanto riguarda l’accettazione dovrà avvenire congiuntamente da parte di entrambi i coniugi essendo un atto di straordinaria amministrazione, si pensi alla possibilità che l’eredità risulti essere una “damnosa hereditas”.

In caso contrario i beni rientrano nei patrimoni personali dei singoli coniugi, se poi la comunione viene meno al momento dell’apertura della successione o nella donazione, la disposizione testamentaria dovrà “intendersi caducata, salva la dimostrazione di una volontà di istituzione sostitutiva, […], a vantaggio dei due coniugi uti singoli” (Cian e Villani).

Non presenta particolari problemi interpretativi la lett. c) secondo la quale sono personali “i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori”. L’elemento fondamentale è l’avverbio strettamente, che nella sua lapidarietà ben difficilmente può essere interpretato in modo differente dagli intenti restrittivi del legislatore.

La necessità di una tale interpretazione è ben chiara se si pensa alle possibilità a cui una tale norma può dare luogo, favorendo l’arricchimento di uno dei coniugi a danno dell’altro, il tutto nel rispetto formale della comunione legale, infatti la categoria dei beni è completamente svincolata, a differenza delle due precedenti, dal titolo d’acquisto.

Più elastico nelle sue conclusioni risulta essere Corsi per il quale, sebbene l’avverbio “strettamente” deve essere interpretato in forma sufficientemente rigida, possono considerarsi personali “anche oggetti a destinazione naturale meno esclusiva, come una macchina fotografica, una pelliccia o qualche gioiello”.

La valutazione del bene dovrà effettuarsi caso per caso, dal che ne consegue “che là dove la famiglia è più abbiente la cerchia dei beni suscettibili di essere considerati personali si allarga, fino ad abbracciare eventuali beni mobili registrati o addirittura un immobile” (Corsi).

Anche la lett. d) non ha eccessivi problemi di interpretazione se si toglie la distinzione del concetto di professione dall’attività imprenditoriale, attività contemplata nell’art. 177, lett. d) e ultimo comma, o nell’art. 178.

Seppure criticata si deve ammettere che tale distinzione è prevista dal legislatore e quindi dovrà essere applicata non potendosi negare la lettura della legge. E’ tuttavia da tenersi presente che un fondamento sussiste se si considera secondo le osservazioni di Schlesinger la prevalenza nella libera professione dell’elemento soggettivo su quello oggettivo a differenza di quanto accade nell’attività imprenditoriale.

Senz’altro anche in questa ipotesi potrà darsi un’interpretazione restrittiva, al fine di evitare un imboscamento di ricchezza di uno dei coniugi a danno dell’altro, questo a maggior ragione se si tiene presente che anche in questo caso come nella precedente categoria l’individuazione non avviene in base al titolo dell’acquisto ma alla sua funzione.

Tuttavia non sembra da considerarsi l’opinione di Schlesinger secondo cui non sono strettamente indispensabili all’esercizio della professione la proprietà dei locali e gli eventuali accessori di lusso per arredarli, in quanto l’attività professionale potrebbe essere continuata negli stessi termini anche in locali condotti in locazione o privati di alcuni accessori.

In realtà questi elementi in molti casi sono indispensabili per un proficuo svolgimento della propria attività e porli in comunione legale potrebbe menomare il pacifico svolgimento dell’attività.

E’ senz’altro migliore la tesi prospettata da Cian e Villani secondo i quali i beni in questione rientreranno inevitabilmente tra quelli personali, ma nel caso in cui mascherino un investimento destinato a cadere in comunione sorgerà a favore del coniuge, così defraudato un diritto di credito pari all’ammontare del maggiore valore dei beni rispetto a quello normale in rapporto al tipo di attività di cui si tratta.

La soluzione è complessa per i calcoli e le stime necessarie, ma è l’unica possibile se si vuole contemperare i configgenti interessi della comunione.

( Seconda parte)

Più complessa è la disposizione contenuta nella lett. e), la quale stabilisce “che i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa” costituiscono beni personali.

Consideriamo “i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno”, dobbiamo innanzitutto provvedere a distinguere nell’ambito di questa categoria i compensi dovuti per lucro cessante da quelli dovuti per danno emergente.

Per questi ultimi si tratta senz’altro di beni personali in quanto tali somme costituiscono una compensazione per la diminuzione del patrimonio individuale del coniuge, al contrario le somme percepite per il lucro cessante rientrano nella fattispecie prevista dall’art. 11, lett. b). Si tratta di un compenso per la diminuita capacità futura di reddito dei beni stessi e come tale entrerà nella comunione “de residuo”.

Passando alla seconda parte della disposizione dobbiamo trattare della “pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa”.

Occorre considerare della pensione un periodo anteriore allo scioglimento della comunione ed uno successivo al realizzarsi della causa di scioglimento.

Per il primo periodo le somme riscosse, essendo sostitutive dei proventi di un’attività separata, saranno “destinati a cadere in comunione al momento dello scioglimento di questa se non ancora consumate”. Per il periodo successivo allo scioglimento della comunione sulle somme riscosse “dovrà riconoscersi un diritto illimitato del titolare” (Schlesinger).

Può accadere che il danno venga liquidato una tantum con un’unica somma di denaro, sarà necessario quindi imputare alla comunione una parte della somma proporzionale alla somma della comunione ai sensi dell’art. 177, lett. c), lasciando la differenza in piena proprietà del titolare.

Il problema è che non si può sapere preventivamente la durata della comunione, infatti il calcolo si potrà effettuare solo al momento della divisione. Questo non autorizza il titolare della somma ad un uso personale della stessa, senza tenere conto degli obblighi familiari su di lui gravanti e quindi sulla destinazione della somma ricevuta.

E’ stato riportato l’indirizzo prevalente in dottrina che sembra da accogliersi essendo in esso contemperato l’aspetto individuale di questi particolari beni e le esigenze di collaborazione familiare, tuttavia è corretto citare la voce discordante dei Finocchiaro.

Gli autori applicano al riguardo un rigido sistema di tassatività considerando la precedente interpretazione non puramente “restrittiva”, ma addirittura annullante il contenuto della norma, suffragano la propria affermazione con una serie di dimostrazioni.

La prima è data dall’osservazione che in fin dei conti il risarcimento è, anche nel silenzio della legge, una ipotesi di “surrogazione reale” al venire meno di beni personali.

La seconda è costituita dall’osservazione sull’inutilità di una disposizione normativa per escludere dalla comunione, al momento del suo scioglimento, i ratei futuri della pensione quando questa è in ogni caso equiparata ai proventi dell’attività separata.

Infine è evidente per gli autori che l’eventuale liquidazione anticipata del danno da invalidità permanente è in ogni caso, anche in assenza di una norma espressa, esclusa dalla comunione. Da quanto detto per i Finocchiaro consegue che i beni in discorso sono “personali” ad ogni effetto.

Senza volere ribattere puntigliosamente sono sufficienti un paio di bervi considerazioni:

  1. Sono gli stessi autori che in nota ammettono che “tali beni, pur se personali, cioè non oggetto di comunione tra i coniugi, sono pur sempre redditi del singolo coniuge che anche con questi dovrà sovvenire, secondo le regole generali, ai bisogni della famiglia ex art. 143”.

  2. Nella successiva nota si legge “… non si nega, da parte nostra, che in alcuni casi limite la puntuale applicazione di tale disciplina può condurre a vere ingiustizie, come nell’ipotesi in cui uno dei coniugi abbia unicamente un reddito da pensione di invalidità e l’altro un reddito di lavoro autonomo: mentre con le economie realizzate sulla propria pensione il primo potrà acquistare altri beni pur essi personali, con le economie realizzate sul proprio salario il secondo non potrà che acquistare in favore della comunione”.

Sebbene non previsto espressamente dall’art. 179 trattiamo della titolarità delle vincite alle lotterie e simili, questo in quanto alcuni autori hanno ritenuto di individuarvi una categoria di beni personali.

Sia per i Finocchiaro che per i De Paola e Macrì tali vincite sono da ricollegarsi ad una iniziativa personale del coniuge che ha tentato la fortuna, ma più convincente è la tesi di Corsi per cui le vincite rientrano nella comunione per “una forma di parificazione delle fortune economiche dei coniugi in costanza di matrimonio”.

Maggiori perplessità deriverebbero da una giocata con denaro personale, ma anche in questo caso, oltre alla precedente osservazione di Corsi, è da notarsi che non si può parlare in alcun modo di surrogazione reale, così che la vincita rientrerebbe senz’altro nella comunione legale.

L’ultima disposizione dell’art. 179 tratta della surrogazione reale dei beni personali distinguendo tra mobili, considerati nella lett. f), e beni immobili o mobili registrati, rientranti nel 2° comma.

Trattiamo innanzitutto della lett. f) nella quale si stabilisce che sono personali “i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o con il loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato nell’atto d’acquisto”. I problemi interpretativi sono notevoli, in particolare per l’ultimo inciso della disposizione in questione.

La prima interpretazione e generalmente anche quella più favorevolmente accolta dalla dottrina risulta essere quella dello Schlesinger di cui esponiamo le principali affermazioni.

Partendo dall’osservazione che la dichiarazione è richiesta al fine di rendere valida la surrogazione reale sia nei confronti dell’altro coniuge sia dei terzi, l’autore coordina la disposizione di cui trattiamo con l’art. 197, che condiziona l’opponibilità ai terzi dell’esclusione dalla comunione di un bene mobile con l’esistenza di un atto avente data certa.

Dal coordinamento ne deriva la necessità, per una valida surrogazione, di una dichiarazione scritta avente data certa, tuttavia tale formalità non è sufficiente dovendo essere la dichiarazione “in qualsiasi momento suscettibile di controllo e contestazione, sia da parte dell’altro coniuge che da parte dei creditori della comunione” (Schlesinger).

Per soddisfare questa esigenza non resta altro che indicare con precisione la provenienza dei cespiti utilizzati nella surrogazione, se il coniuge acquirente non effettua per qualsiasi motivo tale dichiarazione o la effettua incompleta, il bene acquistato cade in comunione nonostante l’esistenza dei presupposti necessari perché possa esservi la surrogazione reale.

Decisamente contrari a questa ipotesi sono i Finocchiaro i quali sollevano una serie di obiezioni:

a) nel nostro ordinamento la regola generale, anche se non assoluta, è quella della libertà delle forme nei negozi giuridici […] tranne che una esplicita norma la escluda;

b) qualora lo scritto formalizzato all’atto dell’acquista (caso mai con data certa) contenga dichiarazioni non veritiere dell’acquirente […] è indubbio che esista il diritto, dell’altro coniuge, di sentire giudizialmente accertare la reale provenienza di tali somme, ricorrendo a qualsiasi mezzo di prova;

c) l’art. 197, invocato dallo Schlesinger a sostegno della propria tesi, riguarda i rapporti con i terzi e non può, analogicamente, riferirsi anche ai rapporti interni tra coniugi ;

d) … nella vita coniugale il principio ispiratore è quello della reciproca fiducia (almeno finché dura l’accordo) e pare quanto meno irrealizzabile che taluno, […], si precostituisca contro l’altro coniuge, la prova scritta, avente data certa, …”.

Quindi gli autori negano la necessità di un atto scritto, risultando del tutto sufficiente una dichiarazione orale al momento dell’acquisto, e l’indicazione dei cespiti personali utilizzati nell’acquisto stesso.

Una risposta a tali argomentazioni la si può trarre dalle stesse pagine di Schlesinger, quando, sorvolando sull’art. 197, considera del tutto impossibile una semplice dichiarazione orale rivolta ad un terzo (l’alienante) indifferente al problema del patrimonio coniugale e non comunicata al coniuge e ai creditori della comunione.

Inoltre si verrebbe a creare una difficoltà di prova rilevante se un domani i coniugi decidessero di separarsi.

L’autore non disconosce le difficoltà che si presentano con un sistema di dichiarazioni scritte di data certa, ma lo ritiene inevitabile così come il Tanzi che rileva gli intoppi derivanti alla circolazione dei beni e alla vita coniugale da un tale sistema se applicato agli atti di modico valore.

Questa osservazione suggerisce una soluzione di compromesso che tenga presente le esigenze prospettate dai vari autori, senza tuttavia compromettere la tassatività della norma e la sicurezza dei terzi.

De Paola e Macrì ritengono la norma in questione riferibile unicamente ad una ben ristretta categoria di beni mobili di un certo valore, quali possono essere quadri d’autore, mobili d’antiquariato, gioielli ecc., se oltrepassano le possibilità economiche della famiglia.

L’eccessiva rigidità della interpretazione appena menzionata può essere ammorbidita riferendosi a Corsi, ossia la possibilità per il coniuge acquirente “di formalizzare la dichiarazione stessa in modo che possa raggiungere lo scopo, scegliendo, anche in rapporto all’interesse che vi porta, lo strumento più adeguato”, andando quindi dalla semplice lettera alla dichiarazione innanzi al notaio oppure sottoposta a registrazione.

Si può addirittura considerare del tutto inutile una dichiarazione nel caso di atti di modestissimo valore il cui peso patrimoniale risulti molto basso, quindi sproporzionato alle formalità richieste.

Conseguentemente la data certa della dichiarazione non è fondamentale per la sua efficacia nei confronti del coniuge, tuttavia è utile ed anzi indispensabile nei confronti dei terzi per rivendicare il carattere personale del bene.

Anche per il momento della dichiarazione, sebbene sia normalmente contenuta nell’eventuale atto d’acquisto, non è obbligatorio in tal senso, essendo sufficiente ma necessario la contestualità dell’atto.

Infine un’ultima importantissima osservazione relativa alla distinzione tra i casi di surrogazione riguardanti i beni rientranti nelle categorie indicate nelle lettere a), b) ed e) e quelle indicate nelle lettere c) e d).

Mentre per i primi non vi è necessità della funzionalità del bene, che abbia surrogato altro bene personale, purché sia anch’esso considerato personale, per i secondi è necessaria la funzionalità del bene stesso, in altre parole il nuovo bene acquistato o scambiato dal coniuge dovrà essere adatto all’uso personale o all’esercizio della professione.

( Terza e ultima parte)

Dobbiamo concludere analizzando l’ultimo comma dell’art. 179, la funzione principale di questa disposizione è l’applicazione della surrogazione reale ai beni immobili e mobili registrati.

Ulteriore funzione, di minore rilevanza, è data dalla possibilità dell’acquisto a carattere personale di uno dei beni innanzi citati per uso personale (lett. c) o per esercizio della professione (lett. d), tuttavia affinché non rientrino nella comunione ai sensi dell’art. 177, lett. a) dovrà partecipare all’atto d’acquisto anche l’altro coniuge.

Su questa partecipazione è nata una controversa dottrina, infatti ad esclusione di alcune voci discordanti la maggior parte degli autori riconosce la necessità che tutte e due i coniugi partecipino all’atto, tuttavia non vi è accordo sulla natura della partecipazione del coniuge non acquirente.

Per i Finocchiaro la partecipazione del coniuge dovrà essere attiva, ossia egli dovrà manifestare il proprio consenso perché non operi l’effetto comunione, lo stesso dicasi per Atlante che parla di “consenso-approvazione alla esclusione del bene dalla comunione”.

Al contrario per Schlesinger si tratta di un “semplice intervento, senza rilievo negoziale, ed insuscettibile di una autonoma impugnativa, per vizio di volontà o simulazione”, essendo ammissibile soltanto una contestazione dell’esistenza dei presupposti per un acquisto personale.

D’altra parte l’intervento del coniuge, se non esistono elementi che impediscono l’acquisto personale, è un atto dovuto a cui non può sottrarsi, tanto che De Paola e Macrì affermano categoricamente essere la partecipazione dell’altro coniuge “un mero intervento passivo, ossia un atto dovuto”; fino ad arrivare all’estrema conclusione di De Marchi e Fragali, secondo i quali il coniuge è solo un destinatario della dichiarazione dell’altro.

Può accadere che il coniuge si rifiuti di partecipare all’atto, poiché il suo intervento è obbligatorio anche a garanzia della sua posizione nell’ambito della comunione, l’esclusione dalla comunione stessa non può realizzarsi, tanto che la dichiarazione eventualmente inserita in tal senso nella scrittura privata va considerata inesistente ed il notaio dovrà rifiutarsi di riceverla.

E’ stato proposto di superare l’ostacolo ricorrendo ad una interpretazione analogica dell’art. 181, tuttavia Schlesinger ha obiettato che la norma è stata ideata per tutelare il superiore interesse della famiglia compromesso da un ingiustificato rifiuto e non tanto per tutelare interessi individuali.

Un argomento che l’autore ritiene decisivo è quello per cui il giudice non deve autorizzare l’atto, bensì accertare l’illegittimità del rifiuto dell’altro coniuge di intervenire o la sua impossibilità a farlo, accertamento possibile solo nell’ambito di un giudizio contenzioso.

Non resta che promuovere un giudizio contenzioso in base al quale il giudice, dopo aver udito entrambe le parti, possa eventualmente dichiarare il carattere personale dell’acquisto.

Corsi esclude senz’altro il ricorso all’art. 181, ma considera con più attenzione la situazione che verrebbe a crearsi con il rifiuto del coniuge.

Rimarrebbe un’incertezza di attribuzione della proprietà del bene che il coniuge, intenzionato all’acquisto surrogatorio, potrebbe evitare notificando all’altro un atto costituente contemporaneamente un invito a comparire dinnanzi al notaio ed una citazione in giudizio per l’accertamento dei presupposti della surrogazione, nel caso di mancato intervento, provvedendo eventualmente a trascrivere contemporaneamente citazione e contratto.

Un ultimo problema è dato dall’impugnazione da parte del coniuge dell’acquirente della dichiarazione che lui stesso ha resa, l’impugnazione potrà avvenire esclusivamente per simulazione, violenza, errore o dolo (Finocchiaro), del resto lo stesso Corsi dubita della possibilità di rimettere in discussione il carattere personale dell’acquisto uno volta intervenuta una regolare dichiarazione.

Non sembra accettabile l’opposta tesi di Schlesinger che riduce la dichiarazione in un semplice rovesciamento a favore del coniuge acquirente dell’onere della prova che verrebbe a gravare sull’altro coniuge. Questa è tuttavia una tesi che riduce notevolmente il valore della dichiarazione richiesta dalla norma, determinando il riesame di questioni che dovrebbero essere già risolte una volta per tutte al fine di evitare ripensamenti e liti.

Si era precedentemente accennato alle discordanti opinioni di alcuni autori, in particolare alle tesi di Cian e Villani, per questi il 2° comma dell’art. 179 si deve intendere come riferito al caso in cui i due coniugi acquistino congiuntamente un bene legittimamente cointestabile in comunione ordinaria e come condizionante il sorgere di questa forma di comunione a una espressa dichiarazione di entrambi i coniugi. A tale proposta interpretativa dovrebbe conseguire l’assunto che l‘intestazione possa sempre avvenire su dichiarazione unilaterale.

Se poi un coniuge risulti illegittimamente escluso dalla contestazione potrà ottenerla o in virtù di un successivo atto ricognitivo proveniente dal coniuge unico intestatario, oppure in base ad una sentenza di accertamento trascrivibile ex art. 2051 cc.

A supporto di questa tesi gli autori portano le conseguenze derivanti per un regolare funzionamento dell’azienda dell’applicazione all’art.178 di una interpretazione più rigida del 2° comma dell’art. 179.

L’impresa vedrebbe compromesso il proprio funzionamento a causa del necessario consenso del coniuge per l’acquisto dei beni in questione, mentre una interpretazione più elastica che consenta al coniuge l’acquisto singolo senza il consenso dell’altro creerebbe una breccia nel sistema garantistico instaurato dal 2° comma.

Tuttavia è il paragone tra le due norme che non è ammissibile, innanzitutto nei casi previsti dall’art. 179 si hanno dei beni personali per sempre esclusi dalla comunione, al contrario dell’art. 178 in cui i beni rientreranno nella comunione seppure de residuo.

Inoltre la stessa distinzione tra queste due ipotesi è chiaro indice della necessità prevista dal legislatore di una loro diversa disciplina, soprattutto nei confronti dell’impresa individuale che è ben distinta dall’esercizio di una professione (art. 179, lett. d).

D’altronde non necessitando il consenso nell’atto di acquisto, ma essendo sufficiente la semplice contestualità non si vede questa eccessiva difficoltà sollevata dagli autori, né si può escludere al limite il consenso mediante procura.

Anche Tanzi si è schierato a sostegno della tesi qui confutata, portando ulteriori argomentazioni a suo favore. Sono argomenti di carattere linguistico il primo dei quali è dato dalla interpretazione del termine “se”.

L’autore nega che abbia valore di congiunzione coordinante, essendo una congiunzione condizionale, ma comunque la si voglia mettere il risultato non cambia avendo lo stesso Schlesinger interpretato la congiunzione “se” con i termini “sempre che” ,“purché” .

Per quanto riguarda i dubbi derivanti da un utilizzo non corretto del termine “parte” nella norma in questione, non essendo l’altro coniuge parte del negozio giuridico, si può benissimo ammettere un utilizzo a tecnico del termine ad opera del legislatore.

Viene così chiarita la posizione propria del 2° comma rispetto alla lettera f), in questa è consentito “a ciascun coniuge di creare unilateralmente una situazione ufficiale di titolarità separata, salvo all’altro l’iniziativa di una impugnativa a posteriori” (Schlesinger).

All’opposto nel 2° comma vengono invertite le posizioni, “condizionando alla partecipazione dell’altro coniuge la creazione di una simile intestazione separata” (Schlesinger) costringendo il coniuge interessato, in caso di rifiuto di consenso del partner, ad una fastidiosa iniziativa giudiziaria.

Consideriamo per ultimo il problema dei sub acquirenti di un bene illegittimamente considerato personale, occorre preliminarmente distinguere tra beni mobili e beni immobili o mobili registrati.

Si trovano concordi nella risoluzione del problema sia Schlesinger che Corsi, per entrambi dovrà applicarsi, in caso di mancato consenso del coniuge, l’art. 184 e precisamente:

  1. Per i beni mobili non iscritti in pubblici registri il 3° comma dell’art. 184, che esclude “l’opponibilità al terzo del difetto del potere di disposizione esclusivo da parte dell’alienante”(Schlesinger);

  2. Per i beni immobili o mobili registrati si applicheranno i commi 1° e 2° dell’art. 184, che annulla il successo atto di disposizione compiuto dal coniuge presunto unico titolare, infatti il terzo è in grado di rendersi conto attraverso i registri della particolare situazione.

Nel caso, poi, che si tratti di acquisti stipulati con il consenso dell’altro coniuge, l’eventuale successiva impugnazione dell’esclusione da parte dello stesso non sarà configurabile come azione di annullamento dell’atto d’acquisto del terzo, ma come un’azione che tenda ad una automatica acquisizione del bene a favore della comunione, ossia ad un’azione di “accertamento, in contrasto con la situazione apparente creata dalla dichiarazione di esclusione” (Schlesinger).

Si possono, pertanto, ritenere applicabili per analogia gli artt. 1415, comma 1° e 2652, n. 4.

Conclusioni

La crisi dell’Istituto del matrimonio quale comunità economica ha condotto ad una sempre maggiore spinta a considerare gli aspetti individuali del patrimonio.

In questa direzione vi è stata una forte spinta sociale che si è risolta in termini legislativi nella perdita di quei benefici che tendevano a consolidarlo rispetto alle altre forme di unioni, rimanendo gli aggravi e riducendone i benefici.

Da struttura portante della società si è risolta in una cerimonia gioiosa in cui esibire il proprio io, magari da potersi ripetere negli anni a venire.

Il prevalere dei diritti sugli obblighi nella ricerca della tutela dell’individuo si è riflesso in una frammentazione patrimoniale, questo a sua volta non più tutelato dal pubblico secondo la nuova logica di fare circolare sempre più velocemente il denaro, senza accumulo, per sostenere consumi e produzione, superando il concetto di facilitare l’acquisto di beni durevoli riducendone notevolmente la loro durata.

Si inserisce in questa ottica di disincentivazione del risparmio, se non diretto ad un prossimo consumo e non quale riserva per investimenti a lungo termine o riserve per eventuali imprevisti, l’aggressione al patrimonio immobiliare esistente effettuato mediante tassazione da enti locali sempre più famelici.

Questo in un momento in cui necessitano sempre più costosi interventi di manutenzione, in una contraddizione tra incentivi, molte volte cervelloticamente burocratici secondo un’usanza mediterranea, e disincentivi di imposte, il tutto in un momento di caduta delle rendite e difficoltà nel trovare lavori adeguatamente remunerati

Bibliografia

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