“FECONDAZIONE ASSISTITA: LO SPIRAGLIO DELLA CORTE”
Stefano Rodotà
La decisione della Corte costituzionale sulla legge in materia di procreazione assistita lascia aperta la questione della legittimità del divieto della fecondazione eterologa. Infatti, invitando i tribunali che avevano sollevato la questione a riesaminarla tenendo conto di una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, i giudici della Consulta hanno ritenuto necessario un ulteriore approfondimento, così mostrando di considerare insufficienti gli argomenti di chi aveva chiesto una sentenza che riaffermasse senz’altro la costituzionalità di quel divieto.
Come si sa, il divieto di ricorrere alla procreazione assistita è all’origine di un consistente «turismo procreativo», che obbliga ogni anno migliaia di donne italiane a recarsi in altri paesi per ricorrere ad una tecnica ormai accettata quasi ovunque. Non volendo continuare a subire questo stato delle cose, alcune coppie si sono rivolte ai tribunali che, non ritenendo infondata la questione di illegittimità riguardante quella norma, hanno investito del problema la Corte costituzionale. L’ulteriore approfondimento richiesto ieri è basato su una sentenza della Corte di Strasburgo che, modificando un suo precedente orientamento, in un caso riguardante l’Austria ha riconosciuto agli Stati la possibilità di vietare la fecondazione eterologa. Molte sono le ragioni che inducono a ritenere che questo rinvio non possa essere inteso come il segno di un orientamento comunque negativo della Corte costituzionale di fronte alla richiesta di rimuovere quel divieto dal nostro ordinamento. Nella sentenza europea, tecnicamente assai complessa e che si è attirata critiche ben argomentate, si trova infatti più di un elemento che consente di darle una lettura non necessariamente preclusiva della possibilità di allineare il nostro agli altri sistemi giuridici, con una decisione rispettosa dei diritti fondamentali delle persone.
Interpretando quella sentenza, e chiedendosi fino a che punto possa essere ritenuta vincolante in Italia, non si può dimenticare che, «laddove una aspetto particolarmente importante dell’esistenza e dell’identità dell’individuo sia in gioco, il margine consentito ad uno Stato sarà di norma limitato». Queste sono parole contenute in altre sentenze della Corte europea, che i giudici di Strasburgo questa volta sembrano aver dimenticato e che, tuttavia, consentono di utilizzare brani dell’ultima sentenza in modo da poter giungere alla conclusione che essa non debba essere intesa come un via libera a qualsiasi divieto che il legislatore italiano voglia imporre. Pur non potendo qui analizzare nei dettagli tecnici quella decisione, si può ricordare che proprio la Corte di Strasburgo ha riconosciuto che le scelte procreative sono espressione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, affermato dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. E che, in materie caratterizzate da forti dinamiche determinate dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche, è indispensabile tener conto del contesto e delle sue variazioni. Argomento non trascurabile in via generale, e che appare particolarmente rilevante in questo caso, visto che la legge austriaca era del 1999 e che in questi anni molte cose sono radicalmente cambiate nel mondo della procreazione assistita.
Ma vi è un altro punto, davvero essenziale, che non può essere trascurato. Il riferimento alla sentenza di Strasburgo e il suo necessario approfondimento non cancellano il fatto che la legittimità del divieto impugnato deve essere valutata alla luce dei principi fondamentali della Costituzione italiana. Principi che, questa volta, riguardano in particolare l’eguaglianza e il diritto fondamentale alla salute. L’eguaglianza è violata perché il divieto della fecondazione eterologa discrimina le coppie alla cui infertilità può essere posto rimedio solo con questa particolare tecnica, che offre loro la possibilità di rendere concrete le loro scelte procreative al pari di ogni altra coppia.
La legge 40 sulla procreazione assistita, peraltro, è concepita come strumento per la «soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità e dalla infertilità umana», ed è dunque collocata nel quadro della tutela della salute. Poiché l’articolo 32 della Costituzione qualifica la salute come diritto «fondamentale», il divieto di accesso a determinate tecniche viola proprio questo diritto. Si deve aggiungere che, con la sentenza n. 151 del 2010, che ha dichiarato illegittime altre norme della stessa legge 40, la Corte ha ricordato che «la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente posto l’accento sui limiti che alla discrezionalità legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l’arte medica; sicché, in materia di pratica terapeutica la regola di fondo deve essere l’autonomia e la responsabilità del medico che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali». Le pretese del legislatore-scienziato, che vuol definire che cosa sia un trattamento terapeutico, e del legislatore-medico, che vuol stabilire se e come curare, vengono esplicitamente dichiarate illegittime. La Corte non ha deciso di non decidere, ma di avviare una fase di ulteriore riflessione, durante la quale le questioni qui accennate potranno essere meglio approfondite. Ma un Parlamento degno di questo nome, consapevole della continua delegittimazione che gli deriva dal fatto che una sua legge obbliga le persone ad aggirarla per far valere i propri diritti, dovrebbe esso stesso porre fino a questo stato delle cose. Che mortifica le persone e fa rinascere la cittadinanza «censitaria», perché solo chi è fornito di adeguate risorse finanziarie può recarsi all’estero e rendere effettivo un proprio diritto.