di Luca Palladini. Il tempo libero non costituisce, di per sé, un diritto fondamentale della persona tutelato a livello costituzionale e sovranazionale, pertanto, l’avvocato non può ottenere il risarcimento del presunto “danno al riposo” per aver dovuto duramente lavorare in condizioni di disagio a causa del sistematico cattivo funzionamento degli uffici dell’amministrazione giudiziaria. Così ha deciso la terza sezione civile della Corte di Cassazione con sentenza n. 21725 depositata il 4 dicembre 2012.
Pronunciandosi sul ricorso proposto da un legale avverso il Ministero della giustizia, la Corte di Cassazione, condividendo quanto già sostenuto dai giudici di merito, ha ritenuto infondata la richiesta di risarcimento dei danni scaturita dal fatto che il professionista era stato indotto a lavorare, anche nei giorni festivi, per l’esecuzione di adempimenti che altri avrebbero dovuto attuare qualora vi fosse stato un regolare andamento degli uffici.
A motivazione della decisione del S.C. – oltre alla questione che gli esborsi che l’avvocato deve sostenere sono “posti, entro i limiti consentiti dalle tabelle professionali, a carico dei clienti” – anche il fatto che il sostenuto danno sia, in realtà, di natura non patrimoniale e come tale, perciò, non risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c.; e proprio in merito alla reintegrazione economica dei pregiudizi non patrimoniali, ad avviso degli Ermellini il pregiudizio non deve consistere in meri disagi, fastidi, “ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita o alla felicità”. Il diritto al riposo e al tempo libero, quale diritto immaginario, quindi, non assurge al livello di possibile fonte di un danno risarcibile. Invero, l’avvocato essendo un libero professionista in grado di autodeterminarsi “può ben scegliere e decidere la quantità di impegni che è in grado di gestire in modo ragionevole” e, quindi, ponderare il giusto equilibrio tra tempo libero e lavoro.