di Luca Palladini. Con riferimento ai delitti di cui all’art. 660 c.p., non si rischia una condanna per molestie “telematiche” se si trasmettono all’ex fidanzata delle e-mail poiché il fatto «non è previsto dalla legge come reato». A stabilirlo è la quinta sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza del 16 novembre 2012, n. 44855.
Ad avviso degli Ermellini, infatti, i messaggi inviati dall’uomo attraverso l’utilizzo di posta elettronica sono «privi del carattere di invasività», che, viceversa, è riconosciuto per gli sms e le telefonate. Attraverso questa conclusione (anacronistica, nda), il Supremo Collegio ha accolto parzialmente il ricorso in Cassazione solo sul punto delle molestie via e-mail non potendo, queste, costituire strumento per perpetrare disturbi; le condanne per gli altri illeciti di cui agli artt. 56, 610, 615-ter, 617-quater c.p. sono state, invece, confermate.
Si è precisato, appunto, che «il reato di molestie non si può verificare qualora si tratti di messaggi di posta elettronica privi, in quanto tali, del carattere della invasività».
Infatti, ad avviso dei giudici di legittimità, chi riceve una e-mail può liberamente decidere, senza aprire il messaggio, di eliminarla o applicarne un filtro. Al contrario delle telefonate sul cellulare (che può continuare a squillare) e degli “inevitabili” ed «invasivi» sms.
Ora la parola definitiva spetterà alla Corte d’Appello di Milano, che, dovendosi conformare al principio di diritto sancito dalla sentenza in esame, dovrà riconsiderare il caso.
***
Cassazione Civile, Sez. V feriale, 06 settembre 2012, n. 44855
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE FERIALE PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CASSANO Margherita – Presidente –
Dott. DUBOLINO Pietro – rel. Consigliere –
Dott. CARCANO Domenico – Consigliere –
Dott. ROSI Elisabetta – Consigliere –
Dott. BELTRANI Sergio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
B.G. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 4525/2011 CORTE APPELLO di MILANO, del 01/02/2012;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 06/09/2012 la relazione fatta dal Consigliere Dott. PIETRO DUBOLINO;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Sorrentino che ha concluso per il rigetto;
uditi per la parte civile l’avv. Rivalutate Sivia in sost. dell’avv. Fusci il quale si è associato, e per l’imputato l’avv. Moretto F., il quale ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RILEVATO IN FATTO
– che con l’impugnata sentenza fu confermata la condanna di B.G. alla pena di anni due di reclusione per i reati di tentata violenza privata, molestie, accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico ed intercettazione di comunicazioni informatiche o telematiche (artt. 56, 610, 660, 615 ter e 617 quater c.p.) commessi in danno di A.G. a seguito dell’interruzione, da parte di quest’ultima, di una relazione sentimentale instaurata con esso imputato durante una crociera su di una nave a bordo della quale egli espletava attività di ufficiale addetto alle comunicazioni radio;
– che avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la difesa dell’imputato, denunciando mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, sull’assunto, in sintesi e nell’essenziale, che:
1) quanto ai reati di tentata violenza privata e molestie, indebitamente il confermato giudizio di penale responsabilità dell’imputato sarebbe stato basato sulla sola ritenuta attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa (costituitasi parte civile), non validamente riscontrate da altri elementi, tra i quali, in particolare, quello, richiamato nell’impugnata sentenza, costituito dalla deposizione dell’ispettore di P.S. M. (avendo questi dichiarato di non poter dire a chi appartenessero le voci di una conversazione registrata in un cd. prodotto dalla persona offesa a corredo della propria denuncia-querela), come pure quello, parimenti richiamato nell’impugnata sentenza, costituito da taluni messaggi prodotti dallo stesso imputato a corredo di memorie presentate al pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari (la cui utilizzazione ai fini del giudizio – si sostiene – sarebbe stata da ritenere vietata, non rientrando essi tra i “documenti provenienti dall’imputato” cui si riferisce l’art. 237 c.p.p.); dichiarazioni, quelle anzidette, che, peraltro, nella parte in cui negavano l’esistenza di rapporti intimi tra la persona offesa e l’imputato successivamente al settembre del 2007, sarebbero state smentite dal contenuto di taluni messaggi quali, in particolare, quelli inviati dalla stessa persona offesa il 29 dicembre 2007 ed il 3 gennaio 2008, di tal che, risultando da essi l’assenza di una definitiva rottura tra essa e l’imputato, sarebbe stato anche da escludere la connotazione della “petulanza” o del “biasimevole motivo” nella condotta che, secondo l’accusa, avrebbe dato luogo alla configurabilità del reato di cui all’art. 660 c.p.;
2) quanto, ancora, al reato di molestie, non sarebbe stato in alcun modo preso in considerazione il motivo d’appello con il quale, sulla scorta di un ormai costante orientamento giurisprudenziale, si censurava la ritenuta configurabilità del reato di molestie anche con riguardo alla condotta costituita dall’invio di messaggi di posta elettronica;
3) quanto al reato di cui all’art. 615 ter c.p., la ritenuta ascrivibilità al ricorrente dell’abusivo ingresso nel sistema di posta elettronica della persona offesa, previa “forzatura” della relativa “password”, come pure nel sistema informatico TIM, gestore dell’utenza cellulare intestata alla medesima persona offesa, sarebbe basata solo su supposizioni e presunzioni, essenzialmente correlate al fatto che il ricorrente sarebbe stato in possesso delle cognizioni tecniche necessarie a realizzare le suddette operazioni;
4) quanto al reato di cui all’art. 617 quater c.p.p. (peraltro erroneamente indicato, nel l’impugnata sentenza, come quello di cui all’art. 615 ter) indebitamente sarebbe stata assunta come prova della sua sussistenza quella emergente dalle dichiarazioni della teste Br., secondo cui, avendo essa risposto ad una chiamata telefonica dell’imputato diretta alla persona offesa, per dire, su incarico della medesima, sua collega di lavoro in uno studio legale, che la stessa non era sul posto, si sarebbe sentita rispondere che ciò non era possibile, alla stregua di quanto risultava ad esso imputato, avendo egli preso cognizione del contenuto della sua posta elettronica; risultanza, questa, a fronte della quale sarebbe stato da considerare che la stessa persona offesa aveva riferito, nel corso del suo esame testimoniale, di aver saputo dalla Br. (la quale lo aveva confermato rispondendo ad una domanda della difesa)” soltanto che l’imputato le aveva detto di non credere all’assenza della donna dal momento che gli risultava l’avvenuta apertura, da parte sua, della posta diretta allo studio legale; il che non implicava affatto la conoscenza del suo contenuto;
5) quanto al confermato diniego delle attenuanti generiche, lo stesso sarebbe stato indebitamente ancorato alla rilevata reiterazione dei comportamenti illeciti posti in essere dall’imputato, non considerandosi il carattere necessariamente abituale del reato di cui all’art. 660 e non considerandosi, inoltre, il contesto dell’intera vicenda, nata da un rapporto di natura sentimentale;
6) quanto al pari menti confermato diniego della sospensione condizionale della pena, lo stesso, oltre che viziato per le stesse ragioni indicate al punto che precede, lo sarebbe anche per la mancata considerazione dello stato di incensuratezza dell’imputato come pure del fatto costituito dall’avvenuto esaurimento, fin dall’anno 2009, di ogni residuo rapporto con la persona offesa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
– che il ricorso appare meritevole di accoglimento soltanto limitatamente al secondo motivo, dovendosi in effetti escludere che il reato di molestie possa essere configurato (a differenza di quanto si verifica nel caso dei cd. “s.m.s” inviati su utenze telefoniche mobili), qualora si tratti di messaggi di posta elettronica, privi, in quanto tali, del carattere della invasività (in tal senso: Cass. 1, 17-30 giugno 2010 n. 24510, D’Alessandro, RV 247558; Cass. 1,27 settembre – 12 ottobre 2011 n. 36779, Ballarino ed altro, RV 250807);
– che, pertanto, l’impugnata sentenza dev’essere annullata senza rinvio, nel punto concernente il confermato giudizio di colpevolezza in ordine al reato di molestie, limitatamente alla condotta consistita nell’invio di messaggi di posta elettronica, perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato, disponendosi comunque la trasmissione degli atti ad altra sezione della corte d’appello di Milano per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio;
– che, quanto al resto, le proposte doglianze appaiono al collegio prive di giuridico fondamento, in quanto:
a) con riguardo al primo motivo, le ragioni in esso indicate per le quali sarebbe da ritenere ingiustificata la credibilità attribuita dalla corte territoriale alle dichiarazioni della persona offesa non sembrano tener conto del noto e consolidato principio giurisprudenziale secondo cui le dichiarazioni della persona offesa, purchè sottoposte ad adeguato vaglio critico, possono, anche da sole, costituire prova sufficiente a sostenere il giudizio di colpevolezza dell’imputato, tanto più quando quest’ultimo (come si verifica nel caso di specie, stando alle non contestate affermazioni contenute nell’impugnata sentenza), non abbia neppure contrapposto ad esse una propria diversa versione dei fatti, avendo scelto
di rimanere contumace; e ciò a prescindere dalla pur rilevabile infondatezza delle suddette ragioni, atteso che: – a/1) il teste M., secondo quanto si legge nel ricorso, non è stato in grado di confermare, ma neppure ha smentito che le voci dei protagonisti delle conversazioni registrate dalla persona offesa fossero quelle di quest’ultima e dell’imputato; – a/2) la dedotta violazione dell’art. 237 c.p.p. appare del tutto insussistente, non vedendosi (nè spiegandosi nel ricorso) per quale ragione, data pure per ammessa (secondo quando sostenuto nel ricorso) la non annoverabilità della “memoria” a suo tempo prodotta dall’imputato al pubblico ministero tra i “documenti” provenienti dall’imputato, cui fa riferimento il citato art. 237, dovesse anche escludersi che rientrassero invece in detta categoria i “messaggi” che a detta memoria erano stati allegati; – a/3) il fatto che, secondo quanto affermato nel ricorso, quelli scambiati tra l’imputato e la persona offesa il 29 dicembre 2007 ed il 3 gennaio 2008 fossero “messaggi piuttosto intimi” e che in uno di essi si facesse riferimento “ad un ultimo rapporto sessuale” da cui sarebbe derivata alla persona offesa una malattia, per un verso non vale certamente a dimostrare che quell’ultimo” rapporto fosse “avvenuto sicuramente in data successiva alla presunta interruzione della relazione sentimentale”, come del tutto apoditticamente si afferma nel ricorso; per altro verso non esclude affatto la configurabilità del contestato reato di molestie, non solo perchè la relativa condotta risulta protratta, secondo il testuale tenore del capo d’imputazione, fino ad epoca largamente successiva al 3 gennaio 2008, e cioè fino al 15 ottobre 2008, ma anche perchè, come opportunamente e correttamente osservato nell’impugnata sentenza, una condotta come quella attribuita all’imputato ben poteva risultare “molesta” pur se temporalmente collocata in una fase in cui esso imputato e la persona offesa “ancora intrattenevano rapporti di amicizia e frequentazione,seppure sporadica”; b) con riguardo al terzo motivo, il fatto che nell’impugnata sentenza si indichi, ad un certo punto, come “presumibile” che le condotte ritenute integratrici del reato di cui all’art. 615 ter fossero state poste in essere dall’imputato, come pure il fatto che, a conferma della fondatezza di tale presunzione, si sia fatto riferimento al non contestato possesso, da parte del medesimo imputato, delle necessarie cognizioni tecniche, non possono, di per sè, costituire motivi di censura della decisione adottata, sul punto in questione, dalla corte territoriale, trattandosi di affermazioni da leggere nel contesto di una ben più ampia motivazione, nella quale si pone in luce come le suddette condotte non potessero ragionevolmente attribuirsi ad altri che all’imputato (così come, del resto, dato per certo
dalla persona offesa), attesa la loro evidente inquadrabilità (come si legge a pag. 18 dell’impugnata sentenza), “nell’ambito di una programmata e continuativa attività molesta e “persecutoria” contro la G. stessa, allora intrapresa”; concetto, questo, ribadito alla successiva pag. 19, ove, con specifico riferimento all’intromissione nel sistema telematico TIM, si afferma che l’episodio “venne posto in essere nell’ambito di una sequela “logica” di analoghi comportamenti illeciti realizzati dall’imputato medesimo”; c) con riguardo al quarto motivo” il fatto che, secondo quanto si legge nel ricorso, la persona offesa avesse riferito, in sede di esame testimoniale, di aver appreso dalla Br. che l’imputato, parlando con costei, aveva ammesso di aver solo “aperto la posta dello studio” e che la stessa Br. avesse riposto “sì” alla domanda della difesa se l’imputato avesse appunto fatto una tale affermazione, non implica affatto, in assenza di altre e più penetranti analisi critiche, che debba ritenersi inficiato quanto si legge a pag. 12 dell’impugnata sentenza circa quello che sarebbe stato il più ampio contenuto della deposizione della Br., secondo cui, parlando con lei, l’imputato aveva, sia pur implicitamente, ammesso di “essersi introdotto abusivamente nel sistema di posta elettronica della A. e di aver letto in tale occasione i messaggi e- mail della p.o. stessa” (tanto che essa teste aveva anche, a suo direi” “palesato all’imputato la illegalità del comportamento da questi tenuto”); nè può dirsi che quanto rappresentato nel ricorso implichi la oggettiva inattendibilità delle, suindicate affermazioni della teste, nulla impedendo di pensare (ammesso e non concesso che la persona offesa, nella propria deposizione testimoniale, avesse riferito di aver saputo dalla Br. solo che l’imputato aveva ammesso di aver aperto la posta dello studio legale), che essa teste avesse trascurato o non avesse ritenuto opportuno rendere noto alla A. tutto ciò che ella aveva sentito dire dall’imputato nel corso della precedente conversazione telefonica; e ciò a prescindere dall’ulteriore, non trascurabile, elemento indiziario a carico dello stesso imputato (indicalo nella sentenza ma del tutto ignorato nel ricorso), costituito dal fatto che egli stesso, secondo quanto riferito dalla persona offesa, aveva avvertito quest’ultima “di poter prendere visione delle sue comunicazioni informatiche riservate e di potere in tal modo tenerla sotto costante controllo e sorveglianza”; d) con riguardo al quinto ed al sesto motivo (di cui appare possibile la trattazione unitaria” attesa la sostanziale identità o complementarietà della ragioni di doglianza esposte nell’uno e nell’altro), pur non potendosi negare che sussistessero, in astratto, le condizioni nelle quali si sarebbero potute concedere tanto le attenuanti generiche quanto la sospensione condizionale della pena, la
diversa decisione adottata dai giudici di merito non può certo ritenersi priva di adeguata giustificazione, avendo essi legittimamente ritenuto di dover attribuire valenza ostativa ad elementi quali la non contestata reiterazione, per un non breve periodo di tempo, delle condotte illecite poste in essere in danno della persona offesa (non certo limitate solo a quelle rubricate sotto la previsione dell’art. 660 c.p., cui specificamente si riferisce la critica espressa, al riguardo” nell’atto di gravame)), come pure le peculiari caratteristiche di dette condotte, non illogicamente assunte come indice della ritenuta incapacità del soggetto a contenere “impulsi irrazionali” e “sentimenti di ossessiva gelosia e possessività”, sì da non consentire una tranquillizzante prognosi di futura astensione del medesimo soggetto dalla commissione di reati della stessa indole; valutazioni, i queste, certamente connotate da un ampio margine di opinabilità, ma non per questo suscettibili di censura in questa sede, proprio perchè attinenti a materie nelle quali gli spazi entro i quali può esercitarsi il potere discrezionale del giudice di merito sono particolarmente ampi, con correlativa riduzione al minimo di quelli lasciati al giudice di legittimità.
P.Q.M.
La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata in ordine al reato di cui al capo C limitatamente alle condotte consistite nell’invio di messaggi di posta elettronica perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato. Dispone la trasmissione degli atti ad altra sezione della corte d’appello di Milano per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio. Rigetta nel resto il ricorso. Riserva al definitivo la liquidazione delle spese sostenute dalla parte civile anche nel presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 6 settembre 2012.
Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2012