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DISVELAMENTI PANDEMICI

Sergio Benedetto Sabetta

Nelle guerre di logoramento nessuna singola battaglia è decisiva; ciò che conta è l’eliminazione di qualcuno dei vantaggi del nemico e l’indebolimento della sua capacità di combattere” (J.J. Sheehan, L’età post-eroica, Guerra e pace nell’Europa contemporanea, 144, Laterza Ed., 2009)

Come in tutti i momenti di crisi anche nell’attuale pandemia si manifestano la forza e le debolezze di sistema, ma anche gli aspetti culturali dei singoli attori e degli spettatori.

Si è già più volte sostenuto che la pandemia è l’occasione per una ridefinizione degli equilibri geostrategici locali e mondiali, ancor più in teatri delicati quali il Mediterraneo, area di congiunzione delle spinte di tre continenti e ventre d’Europa.

Emerge sempre più chiaramente dal succedersi degli avvenimenti un aspetto etico, che qualsiasi crisi porta con sé, infatti a fronte di coloro che si battono vi sono coloro che ne vedono i risvolti economici di un profitto più o meno lecito e coloro che subiscono passivamente gli eventi.

In questo scontro e confronto una figura particolare è ricoperta dall’U.E., la quale nel momento decisivo ha manifestato una notevole fragilità e si è ridotta al puro seppure forte ruolo di finanziatrice, senza peraltro essere in grado di assumere il ruolo politico di coordinamento degli sforzi comuni, imponendo la propria personalità in ambito internazionale nei confronti sia degli attori pubblici che privati, circostanza che ha avuto riflessi pesanti all’interno della stessa U.E., basti pensare all’affare dei vaccini.

Non si tratta di una questione normativa, questa anzi è molte volte inflattiva e non adatta a fornire una struttura coesa, ma piuttosto manifestazione del prevalere di interessi di aree geografiche forti interne all’Unione, si tratta al contrario di un aspetto etico su cui poggiare l’azione, di un sentire comune che rendono vitali i principi contenuti nella Carta costituente e nei Trattati.

Come afferma Sheehan “la cittadinanza europea è una questione di diritti e privilegi, non di obblighi e impegni” (245, Cap. IX – Perché l’Europa non diventerà una superpotenza, cit.), purtroppo è in un contesto internazionale di conflitti permanenti.

Questo vagare ognuno per proprio conto, non è che il riflesso di uno sbandamento globale di una leadership mondiale ripiegata su se stessa, priva di progetti sul futuro se non puramente ripetitivi.

La stessa complessità del sistema globale ne rende difficile la gestione con l’abbandono al fluttuare dell’iniziativa privata, infatti è stato giustamente osservato che a fronte di una compressione delle libertà private, da regime di guerra, è mancata la capacità di gestire i rapporti con i potentati privati e le nuove potenze politiche emergenti globali.

La debolezza di una struttura frammentata che, come nell’Alto Medio Evo, può assorbire ma non reagire alle crisi indotte dall’esterno, si è evidenziata anche all’interno della Nazione.

Strutture apparentemente forti hanno manifestato debolezze nei momenti di crisi generalizzata, mentre è cresciuta una conflittualità istituzionale, manifestazione di una debolezza di sistema, in cui interessi individuali hanno trovato e curato i loro spazi particolari.

Sostanzialmente un vuoto etico della classe politica, specchio della Nazione, causa di una debacle economica e sociale, a cui si è reagito con un sostanziale “senato consulto ultimo”.

Dobbiamo considerare che la flessibilità può facilmente scivolare nella caoticità, nella perdita della capacità di una reazione coesa, propria di una liquidità estrema.

Si sente infatti nei comportamenti una incapacità di autodisciplina molto diffusa, conseguenza ultima dell’incapacità di realizzare un serio rapporto bilanciato tra diritti e doveri, che a cascata passa e si aggrava tra il succedersi delle generazioni.

La classe politica non fa quindi che riflettere lo stato attuale della popolazione e delle possibili manipolazioni informative che gli attuali mezzi tecnici possiedono, d’altronde l’informazione è già di per sé un elemento essenziale di qualsiasi guerra, se non guerra essa stessa.

Dalla fine della Seconda Guerra mondiale e ancor più dalla successiva fine della Guerra fredda vi è stata in Europa quella che Ole Waever ha chiamato la “desecuritization”, ovvero la perdita della centralità nella vita delle Nazioni europee circa il problema della sicurezza, nell’illusione che il modello di una pacifica convivenza, favorito ed esaltato dallo sviluppo del commercio internazionale, si diffondesse in tutto il mondo. Lasciando agli USA il compito di una sorte di polizia internazionale, in questo facilitati dal superiore potenziale tecnologico, con tutti i rischi di errori che la mancanza dell’alterità e del confronto comporta.

La pandemia non ha fatto che infrangere questa illusione di un superamento epocale della centralità della sicurezza, ponendo il sorgere di nuovi pericoli con cui raffrontarsi e la necessità di una riorganizzazione del modello nazione, non essendo delegabile la sicurezza, che da strettamente militare viene a comprendere altri aspetti, con gli inevitabili costi sia materiali che psicologici.

“Ogni Stato moderno costituisce una comunità immaginata, in quanto uno Stato è un’entità troppo vasta e complessa per poterne avere esperienza diretta”. (J.J.Sheehan, 8 cap. 1- Vivere in pace preparando la guerra, cit.).

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