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di Carlo Rapicavoli –

Sono state depositate le motivazioni della sentenza della Corte Costituzionale n. 220/2013, dopo l’udienza del 2 e 3 luglio, con la quele ha dichiarato l’illegittimità costituzionale:

– dell’art. 23, commi 4, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 20 bis del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214;
– degli artt. 17 e 18 del decreto-legge 6 luglio 2012 n. 95, convertito con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135
per violazione dell’art. 77 Cost., in relazione agli artt. 117, 2° comma lett. p) e 133, 1° comma Cost., in quanto il decreto-legge, atto destinato a fronteggiare casi straordinari di necessità e urgenza, è strumento normativo non utilizzabile per realizzare una riforma organica e di sistema quale quella prevista dalle norme censurate nel presente giudizio.

Queste in sintesi le motivazioni della sentenza.

In via preliminare la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibili gli interventi nel procedimento esperiti: dall’Unione delle Province d’Italia, nel giudizio promosso dalla Regione Lazio nei confronti dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011; dalle Province di Isernia, Latina, Frosinone e Viterbo, nei giudizi promossi, rispettivamente, dalle Regioni Molise e Lazio nei confronti dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011; dalle Province di Isernia e Avellino, nei giudizi promossi, rispettivamente, dalle Regioni Molise e Campania nei confronti degli artt. 17 e 18 del d.l. n. 95 del 2012; dal Comune di Mantova, nel giudizio promosso dalla Regione Lombardia avverso l’art. 17 del d.l. n. 95 del 2012.

La Corte ha ricordato che il giudizio di costituzionalità delle leggi, promosso in via d’azione ai sensi dell’art. 127 Cost. e degli artt. 31 e seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), si svolge esclusivamente tra soggetti titolari di potestà legislativa, fermi restando, per i soggetti privi di tale potestà, i mezzi di tutela delle rispettive posizioni soggettive, anche costituzionali, di fronte ad altre istanze giurisdizionali ed eventualmente innanzi a questa Corte in via incidentale.

Nel merito la Corte procede innanzitutto alla ricostruzione della disciplina in materia.

1. Con l’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011, il legislatore ha, tra l’altro, modificato la normativa in tema di funzioni delle Province (limitandole al solo indirizzo e coordinamento delle attività dei Comuni) e in tema di organi delle stesse (eliminando la Giunta, prevedendo che il Consiglio sia composto da non più di dieci membri eletti dagli organi elettivi dei Comuni e disponendo che il Presidente della Provincia sia eletto dal Consiglio provinciale).

2. Con l’art. 17 del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 135 del 2012, il legislatore ha disposto il cosiddetto riordino delle Province, ha nuovamente modificato la normativa in tema di funzioni delle Province (ripristinandone un nucleo essenziale) ed ha tenuto ferma la disciplina sugli organi delle stesse, introdotta dall’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011.

3. L’art. 18 del d.l. n. 95 del 2012, poi, prevede la soppressione delle Province di Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria, disponendo la contestuale istituzione delle relative Città metropolitane a partire dal 1° gennaio 2014. Lo stesso art. 18 disciplina, inoltre, gli organi e le funzioni delle Città metropolitane.

4. Con la delibera del Consiglio dei ministri 20 luglio 2012 sono stati dettati i criteri per il riordino delle Province a norma dell’art. 17, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012.

5. Il riordino delle Province nelle Regioni a statuto ordinario, ai sensi dell’art. 17, commi 3 e 4, del d.l. n. 95 del 2012, è stato disposto dal decreto-legge 5 novembre 2012, n. 188 (Disposizioni urgenti in materia di Province e Città metropolitane), che però non è stato convertito in legge. Il predetto decreto recava anche modifiche all’art. 18 del d.l. n. 95 del 2012.

6. Da ultimo, l’art. 1, comma 115, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge di stabilità 2013) ha sospeso per un anno l’attuazione delle norme sopra indicate. In particolare, è stata disposta: la sospensione, fino al 31 dicembre 2013, dell’applicazione delle disposizioni di cui ai commi 18 e 19 dell’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011; la sostituzione, al citato art. 23, comma 16, delle parole «31 dicembre 2012» con le seguenti «31 dicembre 2013»; la sostituzione, all’art. 17, comma 4, del d.l. n. 95 del 2012, delle parole «entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto» con le seguenti «entro il 31 dicembre 2013»; la sostituzione, all’art. 17, comma 10, del d.l. n. 95 del 2012, delle parole «all’esito della procedura di riordino» con le seguenti «in attesa del riordino, in via transitoria»; la sospensione, fino al 31 dicembre 2013, dell’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 18 del d.l. n. 95 del 2012.
Si è previsto inoltre che «Nei casi in cui in una data compresa tra il 5 novembre 2012 e il 31 dicembre 2013 si verifichino la scadenza naturale del mandato degli organi delle province, oppure la scadenza dell’incarico di Commissario straordinario delle province nominato ai sensi delle vigenti disposizioni di cui al testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, o in altri casi di cessazione anticipata del mandato degli organi provinciali ai sensi della legislazione vigente, è nominato un commissario straordinario, ai sensi dell’articolo 141 del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000 per la provvisoria gestione dell’ente fino al 31 dicembre 2013».

Così ricostruito il quadro normativo di riferimento, la Corte osserva che la questione di legittimità costituzionale promossa per violazione dell’art. 77 Cost. nei confronti dell’art. 23, commi 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20 e 20-bis, del d.l. n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 214 del 2011, e degli artt. 17 e 18 del d.l. n. 95 del 2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 135 del 2012, precede logicamente le altre e deve essere pertanto esaminata per prima.

Nei casi oggetto del giudizio, risulta evidente che le norme censurate incidono notevolmente sulle attribuzioni delle Province, sui modi di elezione degli amministratori, sulla composizione degli organi di governo e sui rapporti dei predetti enti con i Comuni e con le stesse Regioni. Si tratta di una riforma complessiva di una parte del sistema delle autonomie locali, destinata a ripercuotersi sull’intero assetto degli enti esponenziali delle comunità territoriali, riconosciuti e garantiti dalla Costituzione.

La Corte ha quindi valutato la compatibilità dello strumento normativo del decreto-legge, quale delineato e disciplinato dall’art. 77 Cost., con le norme costituzionali (in specie con gli artt. 117, secondo comma, lettera p, e 133, primo comma) che prescrivono modalità e procedure per incidere, in senso modificativo, sia sull’ordinamento delle autonomie locali, sia sulla conformazione territoriale dei singoli enti, considerati dall’art. 114, primo e secondo comma, Cost., insieme allo Stato e alle Regioni, elementi costitutivi della Repubblica, «con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione».

Si deve osservare innanzitutto che l’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. attribuisce alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la disciplina dei seguenti ambiti: «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane».

La citata norma costituzionale indica le componenti essenziali dell’intelaiatura dell’ordinamento degli enti locali, per loro natura disciplinate da leggi destinate a durare nel tempo e rispondenti ad esigenze sociali ed istituzionali di lungo periodo, secondo le linee di svolgimento dei princìpi costituzionali nel processo attuativo delineato dal legislatore statale ed integrato da quelli regionali. È appena il caso di rilevare che si tratta di norme ordinamentali, che non possono essere interamente condizionate dalla contingenza, sino al punto da costringere il dibattito parlamentare sulle stesse nei ristretti limiti tracciati dal secondo e terzo comma dell’art. 77 Cost., concepiti dal legislatore costituente per interventi specifici e puntuali, resi necessari e improcrastinabili dall’insorgere di «casi straordinari di necessità e d’urgenza».

Da quanto detto si ricava una prima conseguenza sul piano della legittimità costituzionale: ben potrebbe essere adottata la decretazione di urgenza per incidere su singole funzioni degli enti locali, su singoli aspetti della legislazione elettorale o su specifici profili della struttura e composizione degli organi di governo, secondo valutazioni di opportunità politica del Governo sottoposte al vaglio successivo del Parlamento.

Si ricava altresì, in senso contrario, che la trasformazione per decreto-legge dell’intera disciplina ordinamentale di un ente locale territoriale, previsto e garantito dalla Costituzione, è incompatibile, sul piano logico e giuridico, con il dettato costituzionale, trattandosi di una trasformazione radicale dell’intero sistema, su cui da tempo è aperto un ampio dibattito nelle sedi politiche e dottrinali, e che certo non nasce, nella sua interezza e complessità, da un «caso straordinario di necessità e d’urgenza».

I decreti-legge traggono la loro legittimazione generale da casi straordinari e sono destinati ad operare immediatamente, allo scopo di dare risposte normative rapide a situazioni bisognose di essere regolate in modo adatto a fronteggiare le sopravvenute e urgenti necessità. Per questo motivo, il legislatore ordinario, con una norma di portata generale, ha previsto che il decreto-legge debba contenere «misure di immediata applicazione» (art. 15, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400 «Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri»). La norma citata, pur non avendo, sul piano formale, rango costituzionale, esprime ed esplicita ciò che deve ritenersi intrinseco alla natura stessa del decreto-legge (sentenza n. 22 del 2012), che entrerebbe in contraddizione con le sue stesse premesse, se contenesse disposizioni destinate ad avere effetti pratici differiti nel tempo, in quanto recanti, come nel caso di specie, discipline mirate alla costruzione di nuove strutture istituzionali, senza peraltro che i perseguiti risparmi di spesa siano, allo stato, concretamente valutabili né quantificabili, seppur in via approssimativa.

Del resto, lo stesso legislatore ha implicitamente confermato la contraddizione sopra rilevata quando, con l’art. 1, comma 115, della legge n. 228 del 2012, ha sospeso per un anno – fino al 31 dicembre 2013 – l’efficacia delle norme del d.l. n. 201 del 2011, con la seguente formula: «Al fine di consentire la riforma organica della rappresentanza locale ed al fine di garantire il conseguimento dei risparmi previsti dal decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, nonché quelli derivanti dal processo di riorganizzazione dell’Amministrazione periferica dello Stato, fino al 31 dicembre 2013 è sospesa l’applicazione delle disposizioni di cui ai commi 18 e 19 dell’art. 23 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214».

Dalla disposizione sopra riportata non risulta chiaro se l’urgenza del provvedere – anche e soprattutto in relazione alla finalità di risparmio, esplicitamente posta a base del decreto-legge, come pure del rinvio – sia meglio soddisfatta dall’immediata applicazione delle norme dello stesso decreto oppure, al contrario, dal differimento nel tempo della loro efficacia operativa. Tale ambiguità conferma la palese inadeguatezza dello strumento del decreto-legge a realizzare una riforma organica e di sistema, che non solo trova le sue motivazioni in esigenze manifestatesi da non breve periodo, ma richiede processi attuativi necessariamente protratti nel tempo, tali da poter rendere indispensabili sospensioni di efficacia, rinvii e sistematizzazioni progressive, che mal si conciliano con l’immediatezza di effetti connaturata al decreto-legge, secondo il disegno costituzionale.

Le considerazioni che precedono non entrano nel merito delle scelte compiute dal legislatore e non portano alla conclusione che sull’ordinamento degli enti locali si possa intervenire solo con legge costituzionale – indispensabile solo se si intenda sopprimere uno degli enti previsti dall’art. 114 Cost., o comunque si voglia togliere allo stesso la garanzia costituzionale – ma, più limitatamente, che non sia utilizzabile un atto normativo, come il decreto-legge, per introdurre nuovi assetti ordinamentali che superino i limiti di misure meramente organizzative.

Si deve ancora osservare che la modificazione delle singole circoscrizioni provinciali richiede, a norma
dell’art. 133, primo comma, Cost., l’iniziativa dei Comuni interessati – che deve necessariamente precedere l’iniziativa legislativa in senso stretto – ed il parere, non vincolante, della Regione.

Sin dal dibattito in Assemblea costituente è emersa l’esigenza che l’iniziativa di modificare le circoscrizioni provinciali – con introduzione di nuovi enti, soppressione di quelli esistenti o semplice ridefinizione dei confini dei rispettivi territori – fosse il frutto di iniziative nascenti dalle popolazioni interessate, tramite i loro più immediati enti esponenziali, i Comuni, non il portato di decisioni politiche imposte dall’alto.

Emerge dalle precedenti considerazioni che esiste una incompatibilità logica e giuridica – che va al di là dello specifico oggetto dell’odierno scrutinio di costituzionalità – tra il decreto-legge, che presuppone che si verifichino casi straordinari di necessità e urgenza, e la necessaria iniziativa dei Comuni, che certamente non può identificarsi con le suddette situazioni di fatto, se non altro perché l’iniziativa non può che essere frutto di una maturazione e di una concertazione tra enti non suscettibile di assumere la veste della straordinarietà, ma piuttosto quella dell’esercizio ordinario di una facoltà prevista dalla Costituzione, in relazione a bisogni e interessi già manifestatisi nelle popolazioni locali.

La Corte ha ammesso che l’istituzione di una nuova Provincia possa essere effettuata mediante lo strumento della delega legislativa, purché «gli adempimenti procedurali destinati a “rinforzare” il procedimento (e consistenti nell’iniziativa dei Comuni e nel parere della Regione) possano intervenire, oltre che in relazione alla fase di formazione della legge di delegazione, anche successivamente alla stessa, con riferimento alla fase di formazione della legge delegata» (sentenza n. 347 del 1994).

In sostanza, secondo la pronuncia citata, l’iniziativa dei Comuni ed il parere della Regione si pongono, in caso di delega legislativa, come presupposti necessari perché possa essere emanato da parte del Governo il decreto di adempimento della delega. La stessa inversione cronologica non è possibile nel caso di un decreto-legge, giacché, a norma dell’art. 77, secondo comma, Cost., il Governo deve presentare alle Camere «il giorno stesso» dell’emanazione il disegno di legge di conversione. Non vi è spazio quindi perché si possa inserire l’iniziativa dei Comuni. Né quest’ultima potrebbe intervenire nel corso dell’iter parlamentare di conversione; non si tratterebbe più di una iniziativa, ma di un parere, mentre la norma costituzionale ben distingue il ruolo dei Comuni e della Regione nel prescritto procedimento “rinforzato”.

La Corte ha riaffermato implicitamente l’indefettibilità del procedimento previsto dall’art. 133, primo comma, Cost., riconoscendo ad una norma dello statuto speciale della Regione Sardegna, in quanto avente rango costituzionale, «capacità derogatoria rispetto alla generale disciplina in tema di istituzione di nuove province contenuta nell’art. 133, primo comma, della Costituzione» (sentenza n. 230 del 2001).

L’Avvocatura generale dello Stato sostiene che il riordino complessivo delle Province italiane non rientrerebbe nella previsione dell’art. 133, primo comma, Cost.: quest’ultimo limiterebbe la sua portata normativa soltanto alle singole modificazioni circoscrizionali. Sarebbe impossibile, secondo la difesa statale, un riassetto generale delle circoscrizioni provinciali, per l’estrema difficoltà di coordinare le iniziative, per loro natura libere, di tutti o di gran parte dei Comuni italiani.

A prescindere da ogni valutazione sulla fondatezza nel merito di tale argomentazione con riferimento alla legge ordinaria, occorre ribadire che a fortiori si deve ritenere non utilizzabile lo strumento del decreto-legge quando si intende procedere ad un riordino circoscrizionale globale, giacché all’incompatibilità dell’atto normativo urgente con la prescritta iniziativa dei Comuni si aggiunge la natura di riforma ordinamentale delle disposizioni censurate, che introducono una disciplina a carattere generale dei criteri che devono presiedere alla formazione delle Province. Per quest’ultimo profilo valgono le considerazioni già sviluppate nel paragrafo 12.1.

Restano assorbiti gli altri profili di illegittimità costituzionale prospettati dalle ricorrenti.

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