DELL’IMPOSSIBILITÀ DEL «LIBERALISMO INCLUSIVO».
Adelina Bisignani
Abstract
La crisi degli Stati nazionali, quali forme di esercizio del potere politico su un determinato territorio, già evidente di fronte alla globalizzazione dell’economia, si è venuta drammaticamente accentuando negli ultimi anni a causa della pandemia e dei mutamenti climatici. Appare evidente che la prima (la pandemia) non può essere debellata senza una iniziativa politica sovranazionale che la contrasti anche nelle zone povere del mondo (l’Africa, innanzitutto). Per quanto riguarda i mutamenti climatici, se è vero – come sostengono alcuni economisti – che solo per la zona euro occorrono 500 miliardi l’anno per fronteggiarli, appare evidente che una tale «emergenza» non può essere fronteggiata con le vecchie politiche economiche liberiste e deflattive. Tali problemi impongono la costituzione di istituzioni sovranazionali che abbiano tutti i poteri necessari per indirizzare l’economia verso forme di cooperazione che non guardino più alla crescita delle singole economie (o al PIL), ma alla formazione di una economia transnazionale solidale.
Parole–chiave:
liberalismo inclusivo, compromesso socialdemocratico, partito politico.
In un recente volume dal titolo Liberalismo inclusivo Michele Salvati e Norberto Dilmore, muovendo dall’analisi dei problemi posti dalla pandemia da Covid e dalla crisi climatica del pianeta, hanno proposto una linea di politica economica, definibile come «liberalismo inclusivo», in grado di coniugare i principi del libero mercato con la lotta alle diseguaglianze sociali. In questa prospettiva, il «liberalismo inclusivo» risulterebbe una riproposizione di quel compromesso socialdemocratico che ha dominato le politiche nazionali negli anni del secondo dopoguerra.
La Grande Crisi Finanziaria degli anni 2008-2009 e l’attuale pandemia hanno, di fatto, messo in discussione l’idea che le regole del libero mercato (o di un capitalismo ormai liberato da ogni condizionamento statale) fossero in grado di garantire da sola il pieno sviluppo delle economie occidentali. E, se ancora dopo la Grande Crisi, sembravano possibili e praticabili soluzioni neo-liberiste, oggi non è più possibile immaginare che il libero mercato possa funzionare senza il supporto dello Stato. Sennonché, questa commistione di libero mercato e statalismo, lungi dal risolvere le diseguaglianze economiche (come immaginano Salvati e Dilmore) e lungi dal dar vita ad un «liberalismo inclusivo», di fatto, si risolve nella formazione di un sistema politico che accresce le proprie funzioni di controllo non per riorganizzare e riclassificare gli obiettivi del sistema produttivo, ma per garantire alle potenze economiche private il pieno controllo della produzione e della finanza. In realtà, non si realizza un nuovo compromesso socialdemocratico, ma una forma politica autoritaria il cui fine ultimo è preservare il libero mercato dal pericolo di una unificazione politica del mondo del lavoro, che oggi appare più che mai frantumato e privo di una rappresentanza politica.
Per comprendere i limiti della prospettiva neo-liberista (proposta da Salvati e Dilmore) è, forse, opportuno ricostruire brevemente la storia economica dal dopoguerra a oggi, per comprendere meglio i caratteri del compromesso socialdemocratico e le ragioni del suo disfarsi.
Occorre, infatti, aver presente che dopo la Seconda guerra mondiale l’egemonia economica e politica degli Usa favorì lo sviluppo, anche nei paesi europei, di un sistema economico centrato sulla produzione di massa, sugli alti salari e sulla crescita dei consumi. In Italia si avviò un processo economico-sociale che favorì la crisi della rendita fondiaria, la crescita del benessere sociale e l’inclusione dei ceti subalterni nella vita sociale. Cresceva la produttività. Crescevano i salari e i consumi.
Una simile dinamica economica e sociale era, certo, sollecitata dalla necessità di ostacolare la diffusione dell’ideologia comunista tra i ceti popolari e di contrastare la organizzazione politica di tali ceti. Il persistere del mito di una società egualitaria e la presa di tale mito tra i ceti più deboli imponeva alle classi dirigenti di contrastare le diseguaglianze sociali, per impedire l’affermarsi. di tendenze rivoluzionarie.
Non a torto, Franco De Felice ha potuto definire un tale modello di sviluppo: un «modello militarizzato» fondato sulla logica amico-nemico. La presenza del pericolo comunista, da un lato, sollecitava i ceti dominanti a svolgere una lotta contro le diseguaglianze sociali, per impedire il coagularsi delle forze di opposizione; da un altro lato, legittimava l’esclusione di settori consistenti della società dal governo dell’economia. Tuttavia, la stessa formazione di una società centrata sulla Grande Fabbrica e sul lavoro di massa comportava il riconoscimento e l’inclusione delle classi produttrici (anche se in funzione subalterna) e richiedeva un patto tra le principali classi sociali che, pur conservando le differenze politiche e ideali, garantisse una crescita unitaria del sistema economico-sociale. La caratteristica fondamentale del compromesso socialdemocratico consisteva nella realizzazione di una crescita economica dell’intera comunità nazionale. Una crescita legittimata dallo stesso svolgersi di un confronto politico (aspro e tuttavia rispettoso delle regole della democrazia costituzionale) intorno alle linee di politica economica e al programma sociale da realizzare. .
Queste politiche di crescita produttiva (e di eutanasia del rentier, come dicono Salvati e Dilmore); questa lotta alle diseguaglianza comincia a venir meno a metà degli anni ’70, quando alla costante crescita dei salari non corrispondeva più una eguale crescita della produttività. Si creava, allora, una situazione di stagnazione e inflazione che rende necessaria e indispensabile una trasformazione del compromesso socialdemocratico. Trasformazione resa possibile dall’indebolirsi della forza contrattuale delle classi lavoratrici.
Tale indebolirsi della forza contrattuale delle classi lavoratrici dipendeva, fondamentalmente, da due fattori: 1) dal formarsi di una interdipendenza tra le economie nazionali che, unita all’assenza di una politica sindacale europea unitaria, accentuava la concorrenza non solo tra le imprese ma soprattutto tra i lavori, rendendo più difficile la loro unificazione politica; 2) dalla trasformazione dei partiti socialdemocratici in partiti che non rappresentavano più le classi lavoratrici, ma i ceti medi benestanti. E il risultato di una tale mutazione dei partiti socialdemocratici aveva come effetto che veniva tralasciata la battaglia per politiche economiche egualitarie, con la conseguenza che la rappresentanza politica dei ceti popolari (che nella formazione di mercati sovranazionali individuavano la principale causa del ridimensionamento del potere d’acquisto dei salari) veniva conquistata dai partiti nazionalisti e populisti.
In realtà, con il nuovo secolo si viene registrando una crisi delle rappresentanze politiche e dei partiti. Crisi di rappresentanza che (anche a causa del terrore diffuso a causa della pandemia) consentirà di derubricare le ragioni dei conflitti sociali e giustificherà l’emergere di un autoritarismo politico sottratto ad ogni forma di controllo. Si realizzerà, così, la vittoria di Carl Schmitt su Hans Kelsen, del decisionismo politico sulla democrazia parlamentare. E tutto questo comporterà lo stravolgimento del ruolo dei partiti e dello stesso Parlamento.
Storicamente la democrazia di massa e dei partiti si era affermata contro una democrazia elitaria (fatta prevalentemente da notabili). Certo! La democrazia dei partiti non aveva mai costituito una situazione idilliaca. Ma nella fase attuale i partiti non assolvono più al loro antico compito di mediare gli interessi e le passioni e di tentare la configurazione di un interesse collettivo. Essi non si preoccupano più di unificano le forze sociali, ma rappresentano solo gli interessi particolari di ristrette élites. Per queste ragioni, il «popolo» immagina di poter esprimere direttamente la propria volontà attraverso una leadership che si fa espressione e portavoce delle sue passioni. Esso cerca un Capo che rappresenti «senza alcuna mediazione» le sue aspirazioni. Senonché, è proprio questa volontà e questo desiderio di «democrazia diretta» a produrre il disfacimento delle istituzioni e dello stesso assetto della società civile. Le decisioni politiche non sono più il risultato trasparente di un pubblico dibattito, ma si attuano nelle «segrete stanze» occupate da elites sempre più ristrette. Ritorna la democrazia dei notabili. La politica si fa strumento di interessi particolaristici e si riduce a un puro calcolo delle possibilità e delle strategie da praticare per raggiungere il successo personale.
Il ruolo dei partiti si è, dunque, intorbidato. Non contribuiscono a connettere società civile e società politica, popolo e istituzioni, ma servono solo per consentire a gruppi limitati di occupare il potere. E invece di riformare e democratizzare gli apparati dello Stato, essi sono risucchiati entro la logica autoritaria di questi stessi apparati. Di fatto, è caduta quella funzione di democratizzazione della vita politica e sociale che Kelsen attribuiva ai partiti. Kelsen, infatti, immaginava che compito dei partiti fosse quello di selezionare classi dirigenti capaci di organizzare, neutralizzare e mediare gli interessi particolari in funzione di un interesse (o di una volontà) universale. «Per Kelsen – ha scritto Filippo Pizzolato –, l’individuo isolato non ha politicamente alcuna esistenza reale e i partiti sono esattamente il rimedio a tale inesistenza, in quanto gli individui, associandosi gli uni con gli altri, vi trovano una qualche chance di influire sulla costruzione della cosa pubblica. I partiti sono pertanto, per Kelsen, la condicio sine qua non della democrazia in quanto integrano i cittadini nella sfera istituzionale. In particolare, i partiti kelseniani devono svolgere questa funzione presidiando la rappresentanza politica. Posta infatti la constatazione della irriducibile diversità degli interessi sociali, Kelsen, decisamente scettico verso la possibilità di perseguire un interesse generale inteso come sintesi superiore, vede nei partiti e nel loro operato entro le sedi istituzionali la possibilità di perseguire compromessi, mediante un uso prudente del principio di maggioranza. Per Kelsen, insomma, grazie alla presenza dei partiti, il parlamento diviene il luogo del confronto e infine del compromesso fra interessi sociali e visioni plurali. Così argomentando, Kelsen consuma una fondamentale rottura (che, in Italia, secondo altri itinerari, produrrà Mortati) con una radicata tradizione giuridica, che vede in Carl Schmitt un autorevole “campione”, che invece imputava al consolidamento dei partiti una irreversibile decadenza dello Stato moderno» [Pizzolato, pp. 25-26].
Queste funzioni, che Kelsen attribuisce ai partiti, oggi si sono decisamente offuscate. Le loro funzioni mediatrici si risolvono in accordi tra potentati economici e capi-partito. Se, a metà del secolo scorso, Schumpeter aveva valorizzato la funzione dei partiti nel selezionare le classi politiche dirigenti, ora questi gruppi dirigenti sono solo e soltanto diretta espressione di oligarchie economiche. Anzi, come direbbe Gaetano Mosca, non sono più gli elettori a scegliere i gruppi dirigenti (gli «eletti»), ma sono gli amici degli stessi eletti a scegliere gli elettori. E i partiti non sono più luoghi di elaborazione di idee e di programmi politici e non offrono più spazi per aggregare i cittadini, ma divengono agenzie elettorali. Di conseguenza, si sviluppa una verticalizzazione dell’azione politica e tutto è rimesso nelle mani di pochi leader.
È, dunque, l’indebolirsi delle organizzazioni e della rappresentanza politica dei ceti popolari (e, più in generale, la riconversione dei cittadini in sudditi) a rendere, oggi, assai improbabile la formazione di un nuovo compromesso socialdemocratico (o di un «liberalismo inclusivo»). L’assenza di uno dei contraenti del compromesso rende impossibile sia la ricostruzione di una politica inclusiva sia la chiara progettazione di una lotta contro le diseguaglianze sociali e civili. Quell’antico compromesso si fondava sull’esistenza di un soggetto politico alternativo, che era interesse delle stesse classi dominanti includere nella vita democratica. Ma, venuto meno tale soggetto e venuta meno l’utopia socialista (e, dopo il crollo del muro di Berlino, anche il pericolo comunista), l’idea stessa di politiche contro le diseguaglianze esce di scena. Il compromesso socialdemocratico diviene inutile.
È, inoltre, l’assenza di un soggetto alternativo a consentire di affrontare la Grande Crisi Finanziaria del 2008-2009 con gli strumenti di una strategia economica ancora una volta deflattiva e liberista. Una tale strategia, però, di fronte all’emergenza-Covid e di fronte alla questione ecologica non può essere riproposta in maniera invariata. La soluzione di tale emergenza e di tale questione non può essere affidata al libero mercato e all’iniziativa individuale, ma richiede il coinvolgimento e la partecipazione dell’intero genere umano, pena il mancato raggiungimento degli obiettivi. Tali questioni, infatti, dovrebbero essere aggredite da politiche solidaristiche che trasformino le tecniche di produzione e rovescino le logiche di redistribuzione delle risorse.
Oggi, l’interesse di una crescita collettiva comporta che lo Stato debba riuscire a indirizzare una gran parte delle risorse economiche in settori strategici per il benessere collettivo (l’istruzione, la sanità, la giustizia). Il che richiede, innanzitutto, una più equa fiscalità e la forza di intervenire nel mercato finanziario e di mutare gli indirizzi produttivi. Tutto ciò non implica né il rovesciamento degli assetti proprietari né la partecipazione dei lavoratori (o dei sindacati) all’amministrazione delle grandi aziende. Richiede, più semplicemente, il ripristino di una dialettica politica e sociale che renda chiaro ai cittadini le questioni della crescita sociale (e della stessa sopravvivenza individuale) che sono in giuoco. In breve, richiede il riconoscimento del fatto che il permanere della dialettica politica tra i partiti è indispensabile per impedire la trasformazione dei cittadini in sudditi. Sennonché, occorre subito aggiungere che, mancando la presenza politica e organizzata di partiti di massa, è appunto tale trasformazione dei cittadini in sudditi ad essere in corso.
Ma, come è possibile il rovesciamento di strategie economiche liberiste se – come abbiamo detto – è scomparso il soggetto portatore di una progettualità alternativa al libero mercato? Ciò che si viene affermando è, in effetti, una strategia politica decisionista che, nel mentre potenzia la capacità di determinazione, di controllo e di intervento degli apparati dello Stato, garantisce e preserva il funzionamento del libero mercato e dell’individualismo acquisitivo. Avviene così che con il libero mercato si coniughi una crescita dei poteri centrali legittimata dalle stesse emergenze (pandemia, questione ecologica) che attraversano il mondo contemporaneo. Senonché, se le questioni indicate non vengono affrontate con il rovesciamento delle strategie liberiste e individualistiche (ovvero, con un mutamento delle forme di produzione), il rischio è che quelle questioni perdurino o tornino a ripresentarsi continuamente.
È indubbio che, nella fase attuale, molti economisti siano disposti a riconoscere la necessità di abbandonare le tradizionali politiche neo-liberiste e di ripristinare politiche neo-keynesane che riprendano la lotta contro le diseguaglianze e propongano una rivisitazione del vecchio compromesso socialdemocratico. Le analisi e gli auspici di Michele Salvati e Norberto Dilmore sembrano auspicare un tale rovesciamento di prospettiva, suggerendo le linee di un «liberalismo inclusivo». Ma tale nuova prospettiva di politica economica è, oggi, resa impraticabile dalla scomparsa di quei «partiti di massa» che riassumevano in sé le competenze tecniche per governare lo sviluppo e le istanze sociali dei ceti più deboli. Senza tali soggetti politici il “liberalismo inclusivo” non ha alcuna forza politica. Un nuovo compromesso socialdemocratico può fondarsi solo su una “democrazia dei partiti”: solo sull’ordinato confronto tra soggetti politici di massa. Senza tale democrazia prevalgono interressi lobbistici. E la stessa lotta alle diseguaglianze finisce con l’essere affidata alla all’arbitrio (più che alla machiavelliana «Virtù») di un qualche nuovo Monarca.
Per combattere le diseguaglianze e il Covid e per affrontare la questione ecologica, occorre sviluppare politiche sociali che intervengano su strutture quali la scuola e la sanità. Occorrono decisioni che scaturiscano da un confronto politico tra tutte le componenti sociali. Ma un tale confronto, a sua volta, ha bisogno della presenza di partiti politici territorialmente strutturati. Solo così si può dire che le decisioni politiche siano democraticamente fondate. E tutto ciò – come ha osservato Massimo Cacciari – «comporta che ci siano soggetti in conflitto tra loro». Oggi, invece, si assiste ad una «neutralizzazione del conflitto». E, in verità, la paura che attraversa le Nazioni a causa della pandemia consente un attacco alla democrazia partecipata e «conflittuale», al diritto al lavoro e alle persone. Un attacco che rimette in discussione anche quella libertà dalla paura e dal bisogno (di cui parlava Roosvelt) che, coniugata alla libertà di religione e di parola, costituiva uno dei principi fondamentali delle democrazie occidentali.
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