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DANNO AMBIENTALE: inquinamento delle acque e del fondale marino.

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ACQUA – INQUINAMENTO IDRICO – Inquinamento delle acque e del fondale marino – DANNO AMBIENTALE – Danneggiamento aggravato  – Piattaforma continentale e fondo/sottofondo marini – Cose destinate a pubblica utilità – Compromissione delle acque e del biota marino – Fattispecie: inquinamento acque marine, lavaggio inquinante con presenza di metalli pesanti (cromo, nichel, vanadio) e IPA (idrocarburi policiclici aromatici) e immissione nell’atmosfera di polveri di pet-coke – Artt. 137, c.1- 9 e 300, d.lgs.152/2006, nonché 674 cod. pen. e 635 cod. pen – Danneggiamento aggravato (di cose mobili o anche immobili) – Ininfluenza della natura mobiliare o meno del bene – Rilevanza della destinazione del bene – Art 822 cod. civ. – Elemento psicologico del reato di danneggiamento – Configurabilità del reato di danneggiamento – Danno meramente temporaneo – Sufficiente – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Inammissibilità originaria dei ricorsi – Effetti – Esclusione della eventuale prescrizione verificatasi successivamente alla sentenza di secondo grado – Giurisprudenza.

Argomento:

Autorità:

Categoria:

Provvedimento: Sentenza
Numero: 7150
Sez.: 3^
Data deposito: 15/02/2017
Data emissione: 22/09/2016
Presidente: Ramacci
Estensore: Liberati
Titolo completo:
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^ 15/02/2017 (Ud. 22/09/2016), Sentenza n.7150
 
 
 
ACQUA – INQUINAMENTO IDRICO – Inquinamento delle acque e del fondale marino – DANNO AMBIENTALE – Danneggiamento aggravato  – Piattaforma continentale e fondo/sottofondo marini – Cose destinate a pubblica utilità – Fattispecie: inquinamento acque marine, lavaggio inquinante con presenza di metalli pesanti (cromo, nichel, vanadio) e IPA (idrocarburi policiclici aromatici) e immissione nell’atmosfera di polveri di pet-coke – Art. 137, commi 1 e 9, d.lgs.152/2006, nonché 674 cod. pen. e 635 cod. pen.
Anche il fondo e il sottofondo marini, costituenti la c.d. piattaforma continentale, rientrano fra le cose destinate a pubblica utilità, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 625, n. 7 cod. pen., in quanto, pur qualificabili come res communes omnium, sono soggetti, anche sotto il profilo del  diritto internazionale (Convenzione di Ginevra del 1958) alla sovranità dello Stato che è portatore diretto dell’interesse alla loro integrità e salvaguardia, sia per quanto riguarda la conservazione come risorse naturali e la duratura fruizione da parte di tutti, sia per poterne disporre iure imperii nei casi previsti dalla legge (Sez. 2, n. 42119 del 19/11/2002, Iannelli; conf. Sez. 2, n. 28153 del 13/05/2004, Scarpa; Sez. 3, n. 42109 del 12/10/2007, Morelli). Fattispecie: compromissione delle acque e del biota marino (cioè l’insieme della vita vegetale ed animale caratterizzanti una certa area marina, nella specie il fondale prospiciente la banchina in uso alla ltalcave), in conseguenza della presenza in elevata concentrazione di materiali pericolosi sul fondo marino e dell’intorbidamento delle acque, nelle quali è stata rilevata la presenza di sostanze idonee a provocarne alterazioni essenziali, al punto da renderle inservibili per i loro scopi naturali; inquinamento delle acque e del fondale marino, lavaggio inquinato dalla presenza di metalli pesanti (cromo, nichel, vanadio) e IPA (idrocarburi policiclici aromatici) e immissione nell’atmosfera di polveri di pet-coke.
 
DANNO AMBIENTALE – Danneggiamento aggravato (di cose mobili o anche immobili) – Ininfluenza della natura mobiliare o meno del bene – Rilevanza della destinazione del bene – Giurisprudenza – Artt. 635 c.2 n. 1, e 625 n.7, cod. pen. – Art 822 cod. civ..
Il danneggiamento aggravato, ai sensi dell’art. 635, comma 2, n. 1, in relazione all’art. 625, n. 7, cod. pen., può avere per oggetto non solo cose mobili, come per la richiamata norma in tema di furto, ma anche cose immobili, sottolineando che, nello stabilire tale aggravante per il danneggiamento, il legislatore ha avuto riguardo non alla natura mobiliare o immobiliare del bene, ma alla sua destinazione pubblica, meritevole di maggior tutela (Sez. 2, n. 5485 del 10/02/1984, Mento, nella quale è stata affermata la configurabilità del reato di danneggiamento delle acque del mare a seguito dello sversamento di idrocarburi; conf. Sez. 2, n. 5657 del 19/02/1981, Sagona; Sez. 2, n. 13407 del 13/04/1978, Montagner). Inoltre, tra i beni a precipua destinazione pubblica rientrano, espressamente, i fiumi, il lido del mare, la spiaggia e tutti gli altri beni elencati nell’art 822 cod. civ., ed è quindi stata affermata la configurabilità del delitto di danneggiamento su tali beni, con l’aggravante di cui all’art. 635, comma 2, n. 1, cod. pen., in riferimento all’art. 625, n. 7, cod. pen., ribadendo che il legislatore, nello stabilire l’aggravante per il danneggiamento, ha avuto di mira non la natura mobiliare o meno del bene, ma la sua destinazione (Sez. 2, n. 5802 del 15/11/1979, Frigerio, Rv. 145222, relativa all’inquinamento del fiume Lambro, in Lombardia, a seguito di immissioni di scarichi industriali e sostanze di rifiuti).

 

DANNO AMBIENTALE – Elemento psicologico del reato di danneggiamento – Configurabilità del reato di danneggiamento – Danno meramente temporaneo – Sufficiente.
Per la configurabilità del reato non è necessario che il danneggiamento sia irreversibile (Sez. 2, n. 12383 del 28/04/1975, Fratini, relativa a fattispecie di danneggiamento di un corso d’acqua, nella quale è stato ulteriormente precisato che è configurabile un danno di natura patrimoniale ove un corso d’acqua sia durevolmente deteriorato dagli scarichi di uno stabilimento industriale, apportatori di intorbidamento delle acque, di distruzione di microrganismi, di alterazione morfologica e termica e di fenomeni analoghi, giacché in tal caso il danno è configurabile sia sotto il profilo di una ridotta utilizzazione del corso d’acqua in conformità alla sua destinazione, sia sotto il profilo del costo necessario per spese di bonifica e di depurazione per ridare al corso d’acqua la sua condizione normale), essendo sufficiente, per ritenere integrato il reato, anche un danno meramente temporaneo, derivante dall’esistenza di alterazioni che richiedano un intervento ripristinatorio (Sez. 3, n. 32797 del 18/03/2013, Rubegni). L’elemento psicologico del reato di danneggiamento al sistema superficiale delle acque (ma si tratta di principio valido anche per il danneggiamento del fondo del mare) può essere complessivamente desunto dalla consapevolezza degli effetti prodotti dalle sostanze inquinanti in precedenza sversate, dalla reiterazione degli sversamenti stessi e dall’omessa adozione dei necessari interventi riparatori, atteso che il dolo del delitto di danneggiamento richiede la mera coscienza e volontà di danneggiare, senza essere qualificato dal fine specifico di nuocere (Cass.. Sez. 6, n. 35898 del 18/09/2012, Adragna).
 
 
DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Inammissibilità originaria dei ricorsi – Effetti – Esclusione della eventuale prescrizione verificatasi successivamente alla sentenza di secondo grado – Giurisprudenza.
L’inammissibilità originaria dei ricorsi esclude il rilievo della eventuale prescrizione verificatasi successivamente alla sentenza di secondo grado, giacché detta inammissibilità impedisce la costituzione di un valido rapporto processuale innanzi al giudice di legittimità e preclude l’apprezzamento di una eventuale causa di estinzione del reato intervenuta successivamente alla decisione impugnata (Cass. Sez. un., 22/11/2000, n. 32, De Luca; conf., Sez. un., 2/3/2005, n. 23428, Bracale e Sez. un., 28/2/2008, n.19601, Niccoli; Cass. Sez. 2, n. 28848 del 8.5.2013; Sez. 2, n. 53663 del 20/11/2014, Rasizzi Scalora).
(dich. inammiss. il ricorso avverso sentenza del 7/10/2014 CORTE D’APPELLO DI LECCE sez. st. di Taranto) Pres. RAMACCI, Rel. LIBERATI, Ric. Gigante 

 

 

CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^ 15/02/2017 (Ud. 22/09/2016), Sentenza n.7150
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
omissis 
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sui ricorsi proposti da Gigante Clemente Gaetano, nato a Taranto il 2/7/1947;
avverso la sentenza del 7 /10/2014 della Corte d’appello di Lecce sezione staccata di Taranto;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal Consigliere Giovanni Liberati;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Marilia Di Nardo, che ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibili i ricorsi;
udito per l’imputato l’avv. Antonio Raffo, che ha concluso chiedendo l’accoglimento dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 12 gennaio 2010 il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Taranto, in esito a giudizio abbreviato, condannò Clemente Gaetano Gigante alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione in relazione ai reati di cui agli artt. 59, commi 1 e 6 quater, d.lgs. 152/99 e 137, commi 1 e 9, d.lgs.152/2006, nonché 674 cod. pen. e 635 cod. pen. (per avere, quale procuratore e direttore tecnico della S.p.a. Italcave, e responsabile della direzione tecnica e del coordinamento dei lavori di carico e scarico del petcoke sul Molo Polisettoriale di Taranto, realizzato immissioni sul suolo e nelle acque marine delle acque di prima pioggia e di lavaggio, in violazione della disciplina regionale e in assenza di autorizzazione, danneggiando il fondale marino della zona adiacente il piazzale del Molo Polisettoriale in uso al Consorzio Terminale Rinfuse del Porto di Taranto, determinando una concentrazione totale nell’acqua di mare e nei sedimenti di metalli pesanti e IPA tali da comportare l’alterazione del biota marino).
La Corte d’appello di Lecce, sezione staccata di Taranto, provvedendo sulla impugnazione dell’imputato, con sentenza del 7 ottobre 2014, ha dichiarato non doversi procedere per i reati di cui agli artt. 59, commi 1 e 6 quater, d.lgs. 152/99 e 137, commi 1 e 9, d.lgs. 152/2006, e 674 cod. pen. eliminando le relative pene e dando atto che residuava solamente quella di anni uno di reclusione per il reato di cui all’art. 635 cod. pen., confermando nel resto la sentenza impugnata.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l’imputato, mediante il suo difensore, affidato a tre articolati motivi, così enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Con un primo motivo ha denunciato violazione dell’art. 635, comma 3, cod. pen. e vizio di motivazione, sottolineando l’omessa considerazione da parte dei giudici di merito della durata del periodo nel corso del quale la S. p.a. Italcave aveva operato, depositando le merci sull’area (o piazzale) del Molo Polisettoriale che aveva in concessione, compreso tra settembre 2002 ed il 24 aprile 2006, allorquando l’area era stata sottoposta a sequestro, pari a soli tre anni e mezzo, a fronte della presenza nella medesima area del Centro Siderurgico di Taranto, inaugurato nel 1965, e della raffineria ENI, costruita nel 1964.
Ha, inoltre, lamentato l’illogicità della motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui aveva affermato l’inadeguatezza del cordolo di contenimento delle acque presenti nell’area di stoccaggio, solamente sulla base del fatto che lo stesso era stato trovato parzialmente inadeguato al momento del sopralluogo, omettendo di considerarne le condizioni nel corso di tutto il periodo in cui l’area era stata utilizzata per lo stoccaggio.
2.2. Con un secondo motivo ha denunciato ulteriore violazione dell’art. 635, comma 3, cod. pen. e vizio di motivazione, a proposito della riconducibilità alla attività della Italcave, con la conseguente responsabilità dell’imputato, dell’inquinamento delle acque e del fondale marino, a causa della presenza di metalli pesanti ed IPA, che, secondo i giudici di merito, sarebbero da ricondurre alla immissione nel mare delle acque di prima pioggia e di lavaggio inquinate dalla presenza di metalli pesanti e IPA (idrocarburi policiclici aromatici) e dalla immissione nell’atmosfera di polveri di pet-coke provenienti dalla attività della Italcave.
Al riguardo ha ribadito l’illogicità della motivazione, in conseguenza della insufficiente considerazione della presenza nella medesima area della raffineria Eni e del Centro Siderurgico di Taranto, nonché della durata della attività svolta dalla Italcave e della occasionalità delle immissioni in acqua e in atmosfera, in conseguenza della saltuarietà degli scarichi dalle navi di pet-coke, della occasionalità delle rotture dei cordoli di contenimento di tale materiali e della loro pronta riparazione, come pure della dispersione delle polveri di pet-coke.
In particolare ha sottolineato che il piazzale di contenimento del pet-coke era costituito da una superficie impermeabile, ed era racchiuso da un doppio ordine di cordoli in cemento, alti circa 30 o 40 cm., che impedivano lo sversamento delle acque di dilavamento nello specchio di mare antistante il piazzale; le acque piovane, dunque, grazie a tale sistema di contenimento, venivano o lasciate evaporare in loco o utilizzate per bagnare i cumuli di carbone di pet-coke al fine di evitare lo spolvero.
La Italcave, inoltre, proprio allo scopo di evitare lo spolvera, mento (cioè la dispersione delle polveri di pet-coke nell’atmosfera e la loro conseguente dispersione in mare), aveva costruito una vasca per il contenimento di quella parte del pet-coke destinata a rimanere depositata presso il molo polisettoriale per periodi più lunghi di uno o due giorni, aveva prescritto tale materiale con un filmante prescritto dalla ASL come precauzione; aveva predisposto delle barriere di protezione costituite da tre file di containers (misura, quest’ultima, ritenuta sufficiente dalla ASL nel 2002 al fine di evitare la dispersione di polveri nell’aria); ed aveva provveduto ad irrorare costantemente con acqua i cumuli di pet-coke. Ha inoltre lamentato l’omessa considerazione da parte dei giudici di merito della mancanza di chiazze sulla superficie del mare, conseguenti alla presenza del pet- coke, che ha un peso specifico minore rispetto a quello dell’acqua di mare.
Ha sottolineato, inoltre, l’assenza di certezze nella presenza di pet-coke nel fondale marino e la alterazione del biota marino in conseguenza della presenza anomala di IPA (idrocarburi policiclici aromatici) e di metalli pesanti, in quanto lo stesso consulente tecnico del Pubblico Ministero si era espresso al riguardo in termini di possibilità e verosimiglianza, sottolineando anch’egli il dato della presenza nei pressi della raffineria ENI e del Centro Siderurgico.
Ha ribadito l’omessa considerazione dei rilievi svolti a proposito delle modalità di prelevamento dei campioni del fondale marino e di esecuzione delle relative analisi, in contrasto con gli altri elementi probatori acquisiti, tra cui le caratterizzazioni marino-costiere eseguite dai tecnici del Ministero dell’Ambiente nel 2008 e nel 2011, l’influsso delle maree e delle correnti marine e la presenza di navi.
Ha lamentato anche l’omessa considerazione della sospensione disposta dal TAR Lazio del decreto di intervento ai fini della bonifica emesso dal Ministero dell’Ambiente, e l’esclusione della necessità di ulteriori approfondimenti a proposito della esistenza di una immissione delle acque di prima pioggia sul suolo o nella acque marine, benché indicata anche nella sentenza di questa Corte resa a seguito del ricorso proposto con riferimento al sequestro dell’area.
Ha denunciato anche l’erroneità del rilievo attribuito al superamento dei limiti di concentrazione totale nelle acque e nei sedimenti dei metalli pesanti e di IPA stabiliti dal D.M. n. 367 del 2003, in quanto l’art. 1, comma 2, di tale decreto prevedeva l’adeguamento delle acque entro il 31 dicembre 2008, con la conseguente illogicità del rilievo attribuitogli in relazione a condotte asseritamente poste in essere tra il 2004 ed il 2006.
E’ stata, inoltre, denunciata, violazione dell’art. 635 cod. pen., sia per l’irrilevanza del contributo causale della condotta del ricorrente al deterioramento del fondale marino, sia per l’assenza del relativo elemento psicologico, in relazione al quale non erano state considerate le plurime misure di precauzione adottate per evitare possibili emissioni nell’ambiente di polveri di pet-coke.
2.3. Con il terzo motivo ha lamentato violazione dell’art. 603 cod. proc. pen., per l’omessa rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, in particolare attraverso la disposizione di una perizia, richiesta espressamente con i motivi d’appello, in relazione alla quale la Corte d’appello non aveva spiegato in alcun modo le ragioni della mancata disposizione di tale mezzo istruttorio.
3. L’imputato ha proposto altro autonomo ricorso, mediante i medesimi difensori, che lo hanno affidato a otto articolati motivi, enunciati come segue, nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
3.1. Con il primo motivo ha denunciato violazione dell’art. 635, comma 3, cod. pen. e vizio della motivazione, per la contraddittorietà della ricostruzione della condotta produttiva di danno ascrittagli, sottolineando l’insussistenza nella propria condotta dei connotati di abitualità, continuità e volontarietà tipici di uno scarico, al quale detta condotta era stata, impropriamente ed erroneamente, in un primo assimilata, e l’illogicità della successiva esclusione di tale carattere.
3.2. Con il secondo motivo ha prospettato ulteriore violazione di legge penale e vizio della motivazione, con riferimento alla contraddittorietà tra le affermazioni relative alla necessità di ulteriori indagini per accertare l’evento lesivo e quanto al riguardo affermato nella precedente sentenza di questa Corte di legittimità, e per l’omessa considerazione dei provvedimenti dei giudici amministrativi prodotti dalla difesa, fondati su altre indagine tecniche, che avevano evidenziato l’assenza di inquinamento nell’area utilizzata dalla Italcave.
3.3. Con il terzo, il quarto e il quinto motivo ha denunciato violazione di legge penale e vizio di motivazione a proposito della illogicità della stessa, quanto agli argomenti inerenti la fondatezza e decisività dei dati probatori assunti come prova del danneggiamento.
Ha sottolineato, in particolare, che l’ispezione del fondale del 14 luglio 2006 era stata eseguita dai Carabinieri a 13 metri di profondità e a 3 metri dalla banchina, omettendo di considerare l’azione del vento e che quindi una analisi effettuata a distanza così breve non era in grado di evidenziare o quantificare con significativa precisione l’eventuale apporto inquinante delle operazioni movimentazione del pet-coke svolte dalla Italcave. Ha lamentato, in proposito, anche l’omessa considerazione della presenza di navi nel bacino, e della azione delle loro eliche sui sedimenti, e il mancato rispetto delle procedure internazionali per i campionamenti.
Ha ribadito il rilievo della omessa considerazione dei dubbi espressi dal consulente tecnico del Pubblico Ministero (in dipendenza della mancanza del dato della concentrazione di metalli pesanti e IPA prima dei campionamenti e della presenza nell’area della raffineria e del centro siderurgico), alle cui conclusioni la Corte d’appello aveva, in modo illogico, aderito in modo acritico, ed anche dei risultati delle altre indagini svolte, che avevano determinato la sospensiva da parte del TAR Lazio.
3.4. Con il sesto motivo ha denunciato ulteriore vizio di motivazione, a proposito della omessa interpretazione di dati significativi del procedimento e per l’omessa risposta alle deduzioni delle parti, ed in particolare delle tre consulenze tecniche della difesa, che la Corte d’appello non aveva considerato, limitandosi ad affermare che il contributo all’inquinamento dell’area da parte della Italcave era significativo, senza considerare che le operazioni di scavo presso il molo polisettoriale interessavano mediamente quattro navi al mese, il periodo di attività della Italcave e la presenza della raffineria ENI e del Centro Siderurgico di Taranto, sottolineando che uno degli scarichi di quest’ultimo era posto a poche decine di metri dall’area nella quale operava la Italcave.
3.5. Con il settimo motivo ha nuovamente dedotto violazione dell’art. 603 cod. proc. pen. e vizio di motivazione, in ordine alla mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale mediante disposizione di perizia.
3.6. Con l’ottavo motivo ha dedotto ulteriore vizio della motivazione, per la sua illogicità, incompatibilità con atti del processo ed errori nell’applicazione delle regole della logica, ribadendo l’erroneità del riferimento ai parametri stabiliti dal D.M. n. 367 del 2003 e l’omessa considerazione delle perplessità manifestate dal consulente tecnico del Pubblico Ministero.
4. I rilievi sollevati con entrambi i ricorsi sono stati ribaditi con le note depositate dal ricorrente in occasione dell’udienza del 10 febbraio 2016 ed anche con quelle depositate alla successiva udienza del 22 settembre 2016, mediante le quali ha anche prospettato l’avvenuta prescrizione del residuo reato di danneggiamento aggravato in data 30 maggio 2015.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Entrambi i ricorsi sono inammissibili, essendo diretti a conseguire una rivisitazione degli accertamenti di fatto compiuti dai giudici di merito, in quanto sono fondati su una diversa valutazione delle risultanze istruttorie già considerate, sulla base delle quali è stata confermata la condanna dell’imputato, e sono privi della individuazione di specifici vizi della motivazione della sentenza impugnata.
2. La Corte d’appello ha, anzitutto, premesso, in linea di fatto, che la Italcave, di cui l’imputato è procuratore e direttore generale, svolge attività di carico e scarico di carbone da petrolio (pet-coke), proveniente dal mare su navi e smistato ai vari richiedenti della zona, su area in concessione, e che il 26 marzo 2004 venne eseguito un sopralluogo presso il sito Terminal Rinfuse, ubicato sul Molo Polisettoriale nell’area portuale di Taranto, di pertinenza della Italcave, nella quale erano in corso operazioni di carico e scarico di carbone di petrolio (pet-coke), che si presentava composto da particelle finemente granulose o in forma polverulenta; l’analisi dello stato dei luoghi e gli accertamenti eseguiti nei giorni successivi avevano consentito di accertare che il carbone scaricato sul molo vi rimaneva giacente per diversi giorni, fino all’ultimazione delle operazioni di scarico dalle navi, mentre contestualmente giungevano camion che caricavano il carbone per il trasporto; l’area in concessione alla Italcave, della superficie di circa 40.000 mq., di cui circa 20.000 mq. destinati all’accumulo del carbone, risultò impermeabilizzata, circoscritta da un cordolo di cemento alto circa 30/40 cm., e realizzata in maniera tale da consentire il deflusso delle acque piovane verso due pozzetti di dimensioni pari a cm. 50x50x60 (ritenuti insufficienti a contenere le acque riferite a fenomeni meteorologici anche di piccola portata), in parte riutilizzate per irrorare i cumuli di pet-coke; sul lato opposto al mare vi erano due aperture, larghe diversi metri, per l’accesso dei mezzi ai cumuli; sulla sommità del cumulo di carbone, alto più di dieci metri, e su uno dei fianchi di esso, era presente una patina dovuta al filmante apposto per contenere lo spolverio causato dal vento, mentre gli altri fianchi ne erano sprovvisti, per l’erosione causata dall’azione di carico dei mezzi; in occasione del sopralluogo, effettuato in una giornata piovosa, tutta l’area era cosparsa da residui di polveri bagnate, in forma fangosa, con numerose pozzanghere scure che insistevano su una vasta area esterna ai cordoli di contenimento; l’accumulo era presente anche sul ciglio del molo prospiciente il mare, per un tratto lungo oltre un centinaio di metri. In occasione di un secondo sopralluogo, eseguito il 10 aprile 2006, venne accertato che presso il Terminal Rinfuse erano stoccate circa 40.000 tonnellate di pet-coke, con immissione, sia nelle acque del mare, sia su tutte le superfici circostanti, sia in atmosfera, delle polveri derivanti dalle operazioni di scarico delle navi e di carico del minerale sui mezzi pesanti, ed anche dallo spolverio determinato dall’azione del vento.
Sono state, poi, sottolineate le criticità nello svolgimento della attività della Italcave emerse sin dal 2002, allorquando era stato evidenziato, all’esito di un sopralluogo effettuato da tecnici della ASL, che non erano stati adottati i provvedimenti necessari ad impedire o ridurre l’emissione delle polveri rivenienti dalla movimentazione del pet-coke, stoccato in cumuli alti circa 5 metri, cui avevano fatto seguito vari rilievi della Autorità Portuale di Taranto e dell’Ufficio Veterinario presso il porto di Taranto, ed anche del Responsabile della sicurezza della caserma della Guardia di Finanza, posta nei pressi dell’area portuale.
La Corte territoriale ha, poi, dato conto dei risultati della ispezione dei fondali marini eseguita il 14 luglio 2006 dai Carabinieri di Taranto, che ispezionarono i fondali antistanti il piazzale dove era depositato il pet-coke, a tre metri di distanza dalla banchina, riscontrando che gli stessi si presentavano, a circa 13 metri di profondità, di natura fangosa e con scarsa visibilità, procedendo quindi al prelievo di campioni di acqua e fango. Le analisi di tali campioni, eseguite dal Laboratorio chimico dell’Istituto Ambiente Marino Costiero, fece emergere la presenza di IPA (Idrocarburi Policiclici Aromatici) e di alcuni metalli (cromo, nichel, vanadio) inquinanti caratteristici del pet-coke.
In occasione della esecuzione del sequestro preventivo dell’area, disposto dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Taranto con decreto del 27 aprile 2006, venne riscontrato lo spargimento di pet-coke con imbrattamento delle banchine lato mare, oltre i cordoli di contenimento, e l’esondazione del materiale al di là dei cordoli, fino al bordo della banchina.
Infine la Corte d’appello ha sottolineato quanto emerso dalla consulenza tecnica disposta dal Pubblico Ministero, mediante la quale era stato chiarito che il pet-coke (che è l’ultimo prodotto della attività di trasformazione del petrolio) è altamente pericoloso per la presenza di IPA e di metalli pesanti, quali nichel, cromo, vanadio e zolfo, la cui percentuale può raggiungere l’8%, ragion per cui esso va movimentato con estrema cura per evitare di sollevare polveri poco respirabili, e che il prodotto oggetto del campionamento eseguito presso il Terminale Rinfuse corrispondeva esattamente alle caratteristiche del pet-coke; il materiale prelevato dal fondo marino, sulla base degli esiti delle analisi e tenendo conto delle sue caratteristiche fisiche e cromatiche, è stato ritenuto verosimilmente pet-coke misto a materiale inerte del fondo marino, con una concentrazione di IPA nei sedimenti 235 volte superiore ai limiti previsti dal D.M. 367 del 2003, idoneo, a causa di tale concentrazione, ad alterare il biota marino.
3. Sulla base di tale articolato e, invero, univoco complesso di elementi, la Corte d’appello, in accordo con il Tribunale, ha, anzitutto, rilevato l’inadeguatezza del trattamento da parte della Italcave delle acque di prima pioggia, raccolte alla rinfusa nell’area di deposito e, di fatto, abbandonate all’evaporazione o allo sversamento nel mare; l’inadeguatezza del cordolo di contenimento delle acque; l’inidoneità dei pozzetti di raccolta delle acque; la mancanza di trattamenti depurativi delle acque, utilizzate, anzi, per bagnare il pet-coke al fine di evitare il sollevamento delle polveri.
La Corte d’appello ha, quindi, confermato la condanna dell’imputato per il danneggiamento del fondale marino, cagionato consentendo l’immissione delle acque di prima pioggia e di lavaggio e la dispersione e la caduta delle polveri.
Il danneggiamento del fondale marino è stato ritenuto accertato sulla base degli esiti della ispezione del 14 luglio 2006 e dei risultati delle analisi dei campioni prelevati in tale occasione, con la precisazione che il deposito di materiali sul fondo e l’intorbidamento delle acque sono indicativi di una effettiva alterazione delle acque, e che un danno rilevante al sistema delle acque non richiede che esse siano radicalmente inutilizzabili, essendo sufficiente a integrare il reato di danneggiamento l’esistenza di alterazioni che richiedono o richiederebbero un intervento ripristinatorio. Al riguardo la Corte d’appello ha sottolineato la oggettiva pericolosità delle sostanze e la loro elevata idoneità a provocare alterazioni essenziali delle acque, al punto da renderle inservibili per i loro scopi naturali.
Nel disattendere l’impugnazione la Corte d’appello ha anche affermato, quanto alla violazione dei parametri stabiliti dal D.M. 367 del 2003, l’irrilevanza della fissazione del termine del 31 dicembre 2008 per l’adeguamento a tali parametri, in quanto considerati non per la loro violazione in sé, ma quale indice della entità del danneggiamento del fondale marino e del danneggiamento del biota. E’ stata, inoltra, esclusa la rilevanza della presenza nella medesima area della raffineria ENI e del Centro Siderurgico di Taranto, in considerazione della esecuzione dei prelievi a distanza di soli tre metri dalla banchina in uso alla Italcave, della corrispondenza tra quanto rinvenuto nel fondale ed il materiale che la Italcave movimentava in quel tratto di banchina, della distanza esistente con lo stabilimento ILVA e, soprattutto, della esistenza di un significativo apporto causale della Italcave all’inquinamento del fondale marino, desumibile anche dalla assenza o irrilevanza dei tracciati principali del coke di petrolio nella parte restante della zona di mare.
Infine la Corte d’appello ha ritenuto sussistente anche l’elemento psicologico del reato di cui all’art. 635 cod. pen., sottolineando al riguardo l’accettazione da parte dell’imputato dell’evento (cioè dell’inquinamento del fondale marino a causa delle immissione di acqua e polveri) in considerazione della importanza e della efficacia motivante degli obiettivi imprenditoriali perseguiti dall’imputato, della assenza di qualsiasi pregiudizio per gli interessi dell’imputato medesimo, dalla durata e dalla ripetizione della condotta, senza l’adozione di cautele adeguate, nonostante le ripetute sollecitazioni esterne.
4. A fronte di tale ampia ed articolata motivazione il ricorrente si è limitato, in realtà, a prospettare una lettura alternativa delle medesime risultanze istruttorie, ed a censurare le conclusioni che ne hanno tratto i giudici di merito, proponendo, dunque, una rivisitazione della vicenda sul piano del merito, sia quanto alla esistenza dell’inquinamento del fondo del mare, sia quanto alla riconducibilità dello stesso alla attività svolta dalla Italcave, sia quanto alla configurabilità del reato di danneggiamento nei confronti dell’imputato.
5. Giova dunque ricordare, per quanto riguarda le censure relative alla configurabilità del danneggiamento del fondo del mare e la sua riconducibilità, sul piano della imputazione soggettiva, al ricorrente, che da tempo, ed in modo uniforme e costante, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che il danneggiamento aggravato, ai sensi dell’art. 635, comma 2, n. 1, in relazione all’art. 625, n. 7, cod. pen., può avere per oggetto non solo cose mobili, come per la richiamata norma in tema di furto, ma anche cose immobili, sottolineando che, nello stabilire tale aggravante per il danneggiamento, il legislatore ha avuto riguardo non alla natura mobiliare o immobiliare del bene, ma alla sua destinazione pubblica, meritevole di maggior tutela (Sez. 2, n. 5485 del 10/02/1984, Mento, Rv. 164777, nella quale è stata affermata la configurabilità del reato di danneggiamento delle acque del mare a seguito dello sversamento di idrocarburi; conf. Sez. 2, n. 5657 del 19/02/1981, Sagona, Rv. 149250; Sez. 2, n. 13407 del 13/04/1978, Montagner, Rv. 140292).
Tra i beni a precipua destinazione pubblica rientrano i fiumi, il lido del mare, la spiaggia e tutti gli altri beni elencati nell’art 822 cod. civ., ed è quindi stata affermata la configurabilità del delitto di danneggiamento su tali beni, con l’aggravante di cui all’art. 635, comma 2, n. 1, cod. pen., in riferimento all’art. 625, n. 7, cod. pen., ribadendo che il legislatore, nello stabilire l’aggravante per il danneggiamento, ha avuto di mira non la natura mobiliare o meno del bene, ma la sua destinazione (Sez. 2, n. 5802 del 15/11/1979, Frigerio, Rv. 145222, relativa all’inquinamento del fiume Lambro, in Lombardia, a seguito di immissioni di scarichi industriali e sostanze di rifiuti).
Anche il fondo e il sottofondo marini, costituenti la c.d. piattaforma continentale, sono stati ritenuti rientranti fra le cose destinate a pubblica utilità, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 625, n. 7 cod. pen., in quanto, pur qualificabili come res communes omnium, sono soggetti, anche sotto il profilo del  diritto internazionale (Convenzione di Ginevra del 1958) alla sovranità dello Stato che è portatore diretto dell’interesse alla loro integrità e salvaguardia, sia per quanto riguarda la conservazione come risorse naturali e la duratura fruizione da parte di tutti, sia per poterne disporre iure imperii nei casi previsti dalla legge (Sez. 2, n. 42119 del 19/11/2002, Iannelli, Rv. 223352, che ha ritenuto che costituisce danneggiamento aggravato, perseguibile d’ufficio, ai sensi dell’art. 635, comma 2, n. 3, e 625 n. 7 cod. pen., quello costituito dalla frantumazione degli scogli esistenti su di un fondale marino, effettuata allo scopo di impossessarsi di esemplari di specie ittiche che vivevano all’interno di detti scogli; conf. Sez. 2, n. 28153 del 13/05/2004, Scarpa, Rv. 229714; Sez. 3, n. 42109 del 12/10/2007, Morelli, Rv. 238070).
Per la configurabilità del reato non è necessario che il danneggiamento sia irreversibile (Sez. 2, n. 12383 del 28/04/1975, Fratini, Rv. 131584, relativa a fattispecie di danneggiamento di un corso d’acqua, nella quale è stato ulteriormente precisato che è configurabile un danno di natura patrimoniale ove un corso d’acqua sia durevolmente deteriorato dagli scarichi di uno stabilimento industriale, apportatori di intorbidamento delle acque, di distruzione di microrganismi, di alterazione morfologica e termica e di fenomeni analoghi, giacché in tal caso il danno è configurabile sia sotto il profilo di una ridotta utilizzazione del corso d’acqua in conformità alla sua destinazione, sia sotto il profilo del costo necessario per spese di bonifica e di depurazione per ridare al corso d’acqua la sua condizione normale), essendo sufficiente, per ritenere integrato il reato, anche un danno meramente temporaneo, derivante dall’esistenza di alterazioni che richiedano un intervento ripristinatorio (Sez. 3, n. 32797 del 18/03/2013, Rubegni, Rv. 256667).
L’elemento psicologico del reato di danneggiamento al sistema superficiale delle acque (ma si tratta di principio valido anche per il danneggiamento del fondo del mare) può essere complessivamente desunto dalla consapevolezza degli effetti prodotti dalle sostanze inquinanti in precedenza sversate, dalla reiterazione degli sversamenti stessi e dall’omessa adozione dei necessari interventi riparatori (Sez. 3, n. 32797 del 18/03/2013, Rubegni, Rv. 256667, citata), atteso che il dolo del delitto di danneggiamento richiede la mera coscienza e volontà di danneggiare, senza essere qualificato dal fine specifico di nuocere (cfr. Sez. 6, n. 35898 del 18/09/2012, Adragna, Rv. 253350).
6. Ora, alla luce di tali principi, che il Collegio condivide pienamente e ribadisce, e tenendo conto di quanto accertato in punto di fatto dai giudici di merito, le censure dell’imputato, in ordine alla violazione dell’art. 635, comma 2, n. 1, cod. pen., per la mancanza nella propria condotta dei connotati di abitualità, continuità e volontarietà tipici di uno scarico, oggetto della doglianza formulata con il primo motivo del secondo ricorso, sono manifestamente infondate.
Al riguardo, infatti, la Corte d’appello ha sottolineato sia la compromissione delle acque e del biota marino (cioè l’insieme della vita vegetale ed animale caratterizzanti una certa area marina, nella specie il fondale prospiciente la banchina in uso alla ltalcave), in conseguenza della presenza in elevata concentrazione di materiali pericolosi sul fondo marino e dell’intorbidamento delle acque, nelle quali è stata rilevata la presenza di sostanze idonee a provocarne alterazioni essenziali, al punto da renderle inservibili per i loro scopi naturali; sia la riconducibilità di tale compromissione alla immissione nel mare delle acque di prima pioggia e di lavaggio provenienti dal piazzale nel quale la ltalcave stoccava il pet-coke in cumuli, ed anche alla immissione in atmosfera delle polveri prodotti da tali accumuli; sia, infine, la consapevolezza in capo all’imputato delle conseguenze pregiudizievoli per le acque del mare, i fondali ed il biota marino, e l’accettazione della verificazione delle stesse, desunta dalla durata e dalla ripetizione delle condotte, e dall’omessa adozione dei necessari interventi cautelari o riparatori, nonostante le plurime e risalenti sollecitazioni tal senso.
A fronte di tali corrette, coerenti e logiche considerazioni, il ricorrente si è limitato a ribadire l’insufficiente considerazione da parte dei giudici di merito delle cautele adottate allo scopo di evitare l’immissione delle acque di prima pioggia e di lavaggio e la dispersione delle polveri in atmosfera, ma tali condotte, pur prescindendo dalla loro accertata inadeguatezza ed insufficienza, non incidono sulla rappresentazione in capo all’imputato delle conseguenze pregiudizievoli per l’ambiente delle proprie condotte, ma, anzi, ne costituiscono ulteriore riprova: esse, infatti, sono indice della volontarietà della compromissione ambientale realizzata, in quanto, pur nella consapevolezza della pericolosità dello svolgimento della attività con le modalità descritte, il ricorrente la proseguì stabilmente e senza interruzioni, adottando cautele minime ed evidentemente insufficienti, accettando in tal modo il rischio della verificazione del danneggiamento delle acque del mare e del fondale marino, cosicché del tutto correttamente è stata affermata la imputabilità della condotta al ricorrente a titolo di dolo eventuale.
7. Le altre doglianze del ricorrente, sebbene variamente articolate, sono tutte rivolte, in realtà, a censurare la ricostruzione della vicenda sul piano del merito quale compiuta dal Tribunale e dalla Corte d’appello, sia quanto alla provenienza delle acque inquinate e delle polveri di pet-coke dal piazzale in uso alla Italcave, sia quanto alla riconducibilità a queste della compromissione delle acque, del fondale e del biota marino, e sono, di conseguenza, inammissibili.
7 .1. Il primo motivo del primo ricorso, con cui sono state denunciate violazione dell’art. 635, comma 3, cod. pen. e mancanza ed illogicità della motivazione, in ordine alla riconducibilità del danneggiamento del fondale marino alle immissioni sul suolo e nelle acque marine delle acque di prima pioggia e di lavaggio provenienti dall’area gestita in concessione dalla Italcave, è, peraltro, generico, in quanto, a fronte dell’accertamento del danneggiamento del fondale marino, che non è stata contestata, sul piano della sua verificazione in linea di fatto, da parte del ricorrente, quest’ultimo ha prospettato, del tutto genericamente, l’omessa considerazione della presenza, nella medesima zona e da lungo tempo, della Raffineria ENI e del Centro Siderurgico di Taranto, benché nella sentenza impugnata la riconducibilità del danneggiamento del fondale marino (nel quale, sia nell’acqua sia nei sedimenti, venne riscontrata una notevole concentrazione totale di metalli pesanti e IPA, questi ultimi superiori di 235 volte i limiti previsti dal D.M. 367/2003, tali da comportare l’alterazione del biota marino) alla attività svolta dalla Italcave sia stata motivata adeguatamente ed in modo logico, con la localizzazione dei campionamenti, effettuati a tre metri di distanza dalla banchina del molo della Italcave, e con la composizione e la concentrazione degli inquinanti di cui venne riscontrata la presenza.
Con tale motivazione il ricorrente ha, in realtà, omesso di confrontarsi, lamentando, genericamente, la mancata considerazione della presenza della raffineria ENI e del Centro Siderurgico di Taranto, senza, tuttavia, considerare gli elementi posti a sostegno della affermazione della esistenza di una relazione causale tra l’attività della Italcave e l’inquinamento delle acque e del fondale marino, sulla base dei quali è stata affermata la responsabilità dell’imputato nella sua veste di procuratore e direttore tecnico di tale società, e senza individuare contraddizioni o illogicità della motivazione della sentenza impugnata, con la conseguente inammissibilità, a cagione della sua genericità, di tale censura.
7.2. Analoghe considerazioni possono essere svolte a proposito del secondo motivo del primo ricorso, mediante il quale sono state dedotte ulteriore violazione dell’art. 635, cod. pen. e vizio della motivazione, in quanto anche a questo proposito il ricorrente lamenta l’insufficiente considerazione dei medesimi dati, oltre che della occasionalità degli scarichi di pet-coke e del conseguente spolverio in atmosfera delle relative polveri, ed anche della sporadicità della rottura dei cordoli di contenimento del materiale accumulato sul piazzale del molo in concessione alla Italcave, nonché della incertezze emergenti dai prelievi, dalle analisi e dalle indagini ambientali eseguite, con la conseguente insussistenza anche degli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 635, comma 3, cod. pen.
Anche a questo proposito, infatti, il ricorrente si duole dell’accertamento della entità delle conseguenze della attività svolta dalla Italcave, ed in particolare del rilievo attribuito alla presenza del pet-coke sul piazzale e alla dispersione in atmosfera delle polveri provenienti da tale materiale, oltre che alle conseguenze delle rotture dei relativi cordoli di contenimento di tale materiale, censurando genericamente l’accertamento al riguardo compiuto dai giudici di merito, che invece, hanno attribuito rilievo determinante a tali circostanze.
La Corte d’appello, infatti, pur considerando tutte le cautele adottate dalla Italcave e ricordate nel ricorso, ha affermato la riconducibilità alla attività da questa svolta del danneggiamento del fondale marino adiacente al molo in concessione a detta società, in considerazione sia delle modalità di svolgimento della sua attività, e, in particolare, dello stoccaggio dei rilevanti quantitativi di pet coke e delle cautele, ritenute insufficienti, adottate per evitare l’immissione in mare delle acque di prima pioggia e di lavaggio e la dispersione in atmosfera delle polveri di pet-coke; sia in considerazione della prossimità alla banchina del molo in concessione alla Italcave delle concentrazioni di IPA e metalli riconducibili alle emissioni di pet-coke.
A fronte di tali rilievi, logici e coerenti con gli elementi di fatto acquisiti, il ricorrente sollecita, attraverso la deduzione di vizi della motivazione, una rivalutazione degli elementi acquisiti, onde escludere la riconducibilità alla attività svolta dalla Italcave della presenza dei metalli e di IPA nel fondale marino, censurando, dunque, le valutazioni di fatto compiute dai giudici di merito (in ordine alla provenienza dal piazzale della Italcave degli inquinanti di cui venne riscontrata la presenza nelle acque e nel fondale marino).
Il ricorrente non ha, in realtà, prospettato vizi o contraddizioni del percorso argomentativo della sentenza impugnata, ma ha sollecitato una rivisitazione delle risultanze dell’istruttoria, onde escludere la rilevanza delle immissioni nel mare e nell’atmosfera delle polveri di pet-coke provenienti dai propri depositi, sollecitando una diversa considerazione degli elementi di prova acquisiti, che sono, invece, stati considerati in modo logico dai giudici di merito, con la conseguenza che anche tale doglianza risulta inammissibile, non essendo consentita nel giudizio di legittimità, attraverso la deduzione del vizio della motivazione, la prospettazione di una lettura alternativa degli elementi di prova acquisiti e correttamente valutati dai giudici di merito.
7.3. Analogo ordine di considerazioni può essere svolto per quanto riguarda il secondo, il terzo, il quarto, il quinto e il sesto motivo del secondo ricorso, mediante i quali è stata prospettata contraddittorietà della motivazione (per la mancata disposizione di ulteriori indagini tecniche in ordine alla esistenza dell’inquinamento, e per la mancata considerazione dei provvedimenti adottati dai giudici amministrativi), e illogicità della stessa (a proposito delle prove del danneggiamento del fondale marino e della sua riconducibilità alla attività svolta dalla Italcave, per l’omessa considerazione dell’azione del vento e della presenza di navi nel medesimo specchio di mare), in quanto tutti gli elementi del cui mancato esame il ricorrente si duole sono, in realtà, stati considerati dalla Corte d’appello, che li ha ritenuti non decisivi, alla luce dei dati, ritenuti in modo logico assorbenti, delle modalità di svolgimento della attività della Italcave e della presenza nei pressi della banchina dalla stessa di tracce tali assai rilevanti di inquinamento da residui di pet-coke.
Anche mediante tali censure, dunque, il ricorrente tende, nuovamente, a sovvertire l’accertamento di fatto compiuto dai giudici di merito, allo scopo di escludere la riconducibilità alla propria attività del danneggiamento del fondale marino, che, invece, è stato accertato in modo logico dai giudici di merito, le cui valutazioni, in punto di accertamento di fatto, non sono sindacabili nel giudizio di legittimità.
7.4. Non sussiste, poi, alcuna violazione di legge per il riferimento ai limiti di concentrazione di IPA stabiliti dal D.M. 367 del 2003, ai quali era consentito l’adeguamento fino al 31 dicembre 2008 e, per le acque, fino al dicembre 2015, non essendo stato sanzionato il superamento di tali limiti, considerato solamente dal consulente tecnico del Pubblico Ministero e dalla Corte d’appello al fine della valutazione della gravità e della entità della presenza di IPA e metalli nel fondale marino.
7.5. Neppure, infine, è ravvisabile alcuna violazione dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., per la mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale mediante disposizione di una perizia, di cui il ricorrente, a fronte dei plurimi elementi evidenziati nella sentenza impugnata a fondamento della affermazione della ravvisabilità del deterioramento del fondale marino e della sua riconducibilità alle immissioni provenienti dalla Italcave, non ha prospettato la decisività, con la conseguente manifesta infondatezza anche di tale censura.
8. In conclusione entrambi i ricorsi proposti dall’imputato devono deve essere dichiarati, in considerazione del contenuto non consentito nel giudizio di legittimità dei motivi cui sono stati affidati e della manifesta infondatezza di quelli relativi alla configurabilità del reato di cui all’art. 635 cod. pen. ed alla violazione dei limiti stabiliti dal D.M. 367 del 2003 e dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen.
L’inammissibilità originaria dei ricorsi esclude il rilievo della eventuale prescrizione verificatasi successivamente alla sentenza di secondo grado, giacché detta inammissibilità impedisce la costituzione di un valido rapporto processuale innanzi al giudice di legittimità e preclude l’apprezzamento di una eventuale causa di estinzione del reato intervenuta successivamente alla decisione impugnata (Sez. un., 22 novembre 2000, n. 32, De Luca, Rv. 217266; conformi, Sez. un., 2/3/2005, n. 23428, Bracale, Rv. 231164, e Sez. un., 28/2/2008, n.19601, Niccoli, Rv. 239400; in ultimo Sez. 2, n. 28848 del 8.5.2013, Rv. 256463; Sez. 2, n. 53663 del 20/11/2014, Rasizzi Scalora, Rv. 261616).
Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (Corte Cost. sentenza 7 – 13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento, nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si determina equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 22/9/2016

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