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Contrasto alla corruzione: il modello italiano.

Contrasto alla corruzione: il modello italiano

Intervento del Presidente dell’Anac Raffaele Cantone

alla conferenza “La politica criminale ed il fenomeno della corruzione”

Universidad Austral, Buenos Aires  – Giovedì 13 settembre 2018

    1. Perché la corruzione è così dannosa

Il mio intervento non può che cominciare con un ringraziamento sincero all’Università Austral per avere voluto ed organizzato, grazie anche all’impegno del prof. Andrea Castaldo, questo seminario, a cui ho acconsentito con grande entusiasmo. Mi sento, infatti, onorato di poter discutere del contrasto alla corruzione in una istituzione universitaria tanto prestigiosa e nota in tutta l’America Latina e molto apprezzata anche in Europa ed in Italia. E di poterne parlare in uno Stato il cui cittadino sicuramente in questo momento più noto ed illustre, Papa Francesco, è senza dubbio il principale alfiere mondiale di questa battaglia.
È difficile passi un mese senza che il Papa non faccia sentire la sua voce contro questo flagello, definito persino “peggiore del peccato”; credo non abbia precedenti nella storia l’incontro che si è verificato qualche mese fa in Vaticano su questa tematica con esperti ed esponenti della società civile di tutto il mondo in cui si è, persino, paventata la possibilità di una scomunica per corrotti e corruttori.
Da ultimo, e non certo per importanza, mi preme rimarcare che questo evento, che pure era stato organizzato tanti mesi orsono, cade in un momento particolare della vita dell’Argentina, un momento di acuta crisi economica seguito con attenzione dal mondo intero, ed in particolar dall’Italia che vanta con questo Paese un rapporto di consolidata e indiscussa amicizia.
Quest’ultima contingenza si salda perfettamente con il tema che discuteremo oggi; il contrasto alla corruzione, infatti, non è solo un’esigenza morale e giuridica ma anche uno strumento di intervento su una infrastruttura di un Paese, quella etica, indebolita la quale l’economia fa fatica a girare.
Per quanto io non creda molto alla attendibilità scientifica delle quantificazioni monetarie dei danni da corruzione, penso che oggi nessuno seriamente possa contestare il dato che un’economia sana ha certamente un appeal maggiore di un’economia in cui l’illegalità la fa da padrona.
Fra i tanti studi in materia, ne cito uno soltanto per l’importanza e l’autorevolezza della fonte; la Banca Mondiale ha calcolato che in un Paese corrotto un’impresa cresce mediamente il 25 per cento in meno di un’azienda che opera in un contesto sano. A che cosa è dovuto? Innanzitutto al fatto che chi paga una tangente può aggiudicarsi, ad esempio, un appalto senza necessariamente essere il migliore; la corruzione – un po’ come il doping nello sport – altera la concorrenza e la sana competizione fra le imprese, scoraggiando investimenti ed innovazione e riducendo l’efficienza e la produttività; al tempo stesso provoca un aumento della spesa pubblica, poiché dirotta parte delle risorse, impedendone un uso corretto.
Un imprenditore cercherà di recuperare i soldi che ha speso in tangenti, a discapito della qualità del servizio che dovrà fornire, risparmiando sui materiali e sul pagamento della manodopera. Nella sanità pubblica, con gli sprechi e sperperi che comporta, la corruzione causa un livello inferiore di cure per i pazienti, penalizzando soprattutto i più poveri, che non possono ricorrere accedere a quella privata. Estendendo questo discorso a livello generale, in una società corrotta le relazioni interpersonali valgono più del merito, quindi molti “cervelli”, soltanto per il fatto di non disporre delle conoscenze “giuste”, saranno indotti ad andare all’estero, provocando così un depauperamento di know-how ed intellettuale.
Quello che ho espresso non è una mia convinzione personale ma un punto di vista delle principali organizzazioni internazionali. Non è un caso che, ad esempio, dall’OCSE e dall’ONU siano venuti importanti stimoli alla lotta alla corruzione, con la stipula anche di convenzioni di portata planetaria, come quella di Merida del 2003.
Un’opera di ricostruzione etica è, quindi, necessaria alla pari degli interventi di matrice più strettamente economica nelle fasi di crisi di un Paese e lo dico guardando soprattutto all’esperienza italiana di cui mi occuperò nel prosieguo.

    1. Il problema della misurazione della corruzione

È necessaria una seconda breve premessa, prima di addentrami nell’esame del sistema italiano. Non credo sia utile dilungarmi sulla definizione della corruzione; ho il privilegio di parlare ad esperti della materia che sanno che quello di cui parliamo è uno scambio di natura illecita fra un privato (il corruttore) e un pubblico ufficiale (il corrotto) che approfitta della propria funzione; integra gli estremi di un reato plurisoggettivo, definibile anche come “reato contratto”.
Queste sintetiche indicazioni richiamo per poter evidenziare uno dei principali problemi che riguarda la lotta a questo male: la difficoltà di fare emergere i fatti corruttivi per poi punirli; non essendoci “conflitto di interessi” fra le parti del rapporto illecito ed entrambe traendone vantaggio, nessuna delle due ha interesse a portare alla luce il contratto sottostante.
Così, se per reati come i furti o le rapine vi è una parte (la vittima) che ha interesse a denunciarli anche nella speranza di recuperare i propri bene, nella corruzione non solo non c’è una vittima individuata (o meglio c’è ed è lo Stato e l’amministrazione pubblica) ma la comunanza di interessi fra corrotto e corruttore rende molto difficile da scoprire il delitto. In Italia, malgrado la corruzione non sia affatto un fenomeno marginale, in media solo 1 processo ogni 200 fra quelli all’esame della Corte Suprema di Cassazione riguarda questi reati!
Questa peculiarità incide, e sul dato tornerò, sulla strategia da adottare per contrastarli ma genera anche un altro problema: quello della misurazione del fenomeno. Non mi dilungherò più di tanto se non per dire due cose; i reati di corruzione conoscono un significativo livello di sommerso ed i numeri giudiziari sono inidonei, di conseguenza, a fotografare l’entità del fenomeno. Ciò che conosciamo è solo la punta dell’iceberg.
Questa che pongo, però, non è, purtroppo, una questione “gnoseologica” di filosofia teoretica; conoscere e misurare la corruzione è indispensabile non solo per affrontarla ma anche perché le “misurazioni” finiscono per incidere direttamente sull’economia e, quindi, anche sul livello degli investimenti, in particolare stranieri, i quali com’è ovvio confluiscono in misura maggiore laddove sono assicurate certezza del diritto e istituzioni integre.
Le uniche classifiche di cui disponiamo oggigiorno, che influenzano significativamente la reputazione di un Paese e orientano chi decide di investirvi, sono quelle di Trasparency international, fondate sulla percezione della corruzione, ovvero sulla “sensazione” soggettiva degli intervistati. Sono rilevazioni, dunque, che non possono essere sottovalutate perché fotografano il tasso di fiducia nei confronti delle istituzioni ma non sono certo in grado di fornire dati scientificamente attendibili.
Per questo uno degli obiettivi prioritari a livello sovranazionale dovrebbe essere di lavorare per reperire criteri oggettivi e scientifici di misurazione della corruzione, criteri non impossibili da individuare (in Italia ci stiamo lavorando), su cui anche la comunità accademica internazionale dovrebbe fare la sua parte.

    1. Il ruolo della repressione nel sistema italiano

Passando adesso all’esame del “modello” italiano, mi sento di poter affermare con assoluta tranquillità che, in passato, l’unica arma utilizzata contro la corruzione era stata quella “repressiva” e cioè quella connessa all’applicazione delle norme penali.
Il nostro Paese aveva sempre riconosciuto particolare attenzione a questo fenomeno criminale, regolato dalle norme del codice penale fin dalla sua stesura originaria che risale al 1930, e quindi al periodo fascista. Erano già allora punite, per quanto qui ci interessa, la corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio (cd. propria) e per atto di ufficio (cd. impropria), a seconda che l’oggetto del mercimonio fosse un atto lecito o illecito. Era anche punita come fattispecie autonoma l’ipotesi tentata, qualificata come istigazione alla corruzione. Era, invece, sanzionata autonomamente (e molto più gravemente) la concussione, integrata da un atto di sopraffazione del pubblico ufficiale (sia di minaccia che di induzione) nei confronti del privato; quest’ultimo, era quindi una vittima del pubblico funzionario e non un “complice”, come per la corruzione.
Nella corruzione (ma anche nella concussione), la controprestazione del privato era (ed è) qualificata come “utilità”, concetto molto ampio in cui rientrano, secondo l’ormai consolidata giurisprudenza, tutti quei “vantaggi, patrimoniali o non patrimoniali, idonei a soddisfare un bisogno umano e consistenti in una cosa o in un servizio”; una categoria tanto ampia da poterci ricomprendere sia la tradizionale tangente in denaro, sia, ad esempio, le prestazioni sessuali. I reati, inoltre, si consumavano (e ancora si consumano) con la semplice accettazione della promessa, rappresentando la dazione effettiva un post factum, rilevante, secondo la giurisprudenza, ai soli fini dell’individuazione del momento della commissione del reato.
Con questo impianto penale l’Italia ha affrontato la manifestazione più grave di corruzione mai emersa nella storia del Paese, quella degli anni ‘90 del precedente secolo, divenuta nota come Tangentopoli, che riguardò il sistema dei partiti e della politica, entrambi travolti dal ciclone giudiziario, tanto che, secondo gli storici, l’esito delle indagini e dei processi cagionò un tale cambiamento da giustificare il passaggio alla seconda Repubblica.
Il sistema delineato, però, era apparso non adeguato già rispetto a quelle forme corruttive di Tangentopoli e a maggior ragione è risultato non a passo con i tempi rispetto a quelle che vi via si sono delineate successivamente, quelle cioè che vedono sempre più corrotti e corruttori partecipi indistinti di vere e proprie associazioni a delinquere, finalizzate a saccheggiare le risorse pubbliche.
Eppure il nostro Paese dopo tangentopoli non solo non è intervenuto sul piano legislativo ma in qualche caso ha persino finito per indebolire l’impianto repressivo, come quando ha previsto una inopinata ed incomprensibile riduzione dei termini di prescrizione dei reati, soprattutto con riferimento alle fattispecie di cui parliamo. Negli ultimi anni, il diritto penale della corruzione è, invece, stato oggetto di tantissimi interventi di modifica, di cui, ovviamente possiamo solo dare qui sintetici cenni.
Sono state modificate le fattispecie delittuose (è stata introdotta la “corruzione per asservimento” che ha inglobato quella cd. propria, ampliando la punibilità anche alla “messa a disposizione” da parte del pubblico funzionario delle sue funzioni e poteri), ne sono state introdotte delle nuove (la corruzione in atti giudiziari, la corruzione internazionale, l’induzione indebita, nata da una costola della vecchia concussione) ma soprattutto si è inciso sul piano delle sanzioni.
Sono aumentate significativamente quelle principali (oggi, ad esempio, la corruzione per atto contrario è punita con la pena della reclusione da 6 a 10 anni, in luogo di quella da 2 a 5 anni!), sono state inasprite le pene accessorie (è prevista l’interdizione perpetua dai pubblici uffici per condanne per corruzione propria e concussione superiori a 3 anni di reclusione e negli altri casi l’interdizione quinquennale), sono state introdotte  misure patrimoniali molto rigorose (la confisca dei beni che costituiscono il profitto ed il prezzo del reato, applicabile anche per equivalente ed in alcuni limitati casi, persino,  la possibilità di applicare la confisca cd. di prevenzione, cioè a prescindere dall’accertamento della commissione del reato).
A questa politica di inasprimento complessivo dell’impianto punitivo si è aggiunta anche la possibilità di utilizzare strumenti investigativi in modo più ampio rispetto ai reati comuni; mi riferisco all’introduzione di una speciale attenuante della collaborazione che dovrebbe favorire i “pentimenti” di corrotti e corruttori o alla possibilità di applicare per le intercettazioni in materia la normativa speciale valida per i processi di mafia.
Nel segnalare che proprio in questi giorni in Italia il nuovo governo ha varato un disegno di legge (definito con non poca retorica “Spazza-corrotti”) che inasprisce le pene accessorie e che consente l’utilizzo dell’agente copertura per le indagini in materia di corruzione, pur senza poter approfondire i vari aspetti dell’impianto complessivo che sta emergendo, mi limito ad una forse troppo breve considerazione conclusiva.
Le scelte di inasprire l’intervento penale sono certamente condivisibili, perché la lotta alla corruzione non può fare a meno di una repressione che funziona nel modo migliore possibile; bisogna, però, dosare questi interventi senza mai eccedere né dal punto di vista della proporzionalità complessiva del sistema sanzionatorio, né soprattutto mettere in discussione i capisaldi dello stato di diritto.
Personalmente, ad esempio, sono contrario (e l’ho dichiarato pubblicamente) agli interventi patrimoniali di prevenzione in materia di corruzione; essi, utilissimi per la mafia, non possono essere esportati automaticamente in questa specifica situazione; così come sono contrario ad istituti che pure qualcuno aveva paventato, per fortuna ad oggi senza trovare seguito, che potrebbero far scivolare il sistema penale verso una logica preventiva di polizia, quale ad esempio quello dell’agente provocatore.
Anche l’inasprimento delle pene accessorie (con l’aumento dei casi di quelle “perpetue”) è una strada che può essere utilmente intrapresa, a condizione, però, di non mettere in discussione il principio della natura rieducativa delle pene.

    1. L’importanza della prevenzione

L’inadeguatezza della repressione a colpire il fenomeno senza fermarsi alla punta dell’iceberg, il suo carattere di intervento comunque postumo rispetto ad un fatto già verificatosi ha spinto da anni gli studiosi della corruzione ad ipotizzare forme diverse di intervento che potessero concentrarsi sulla prevenzione. L’opzione secondo cui “prevenire è meglio che curare”, tipica del campo medico, è in realtà valida anche in molti settori connessi ad altre attività umane; si pensi, per restare in un ambito non troppo distante dal nostro, alla materia infortuni sul lavoro dove alla prevenzione è riconosciuto un indispensabile ruolo di supporto ed accompagnamento del pur rigoroso impianto sanzionatorio.
L’importanza di una prospettiva diversa, di tipo preventivo, è, quindi, un tema al centro, da anni, del dibattito mondiale in materia di lotta alla corruzione. La Convenzione ONU di Merida del 2003 non a caso contiene due parti, l’una rivolta a rafforzare l’azione repressiva e penale, l’altra a potenziare quella preventiva. In essa (art. 5) è testualmente scritto, infatti, che ciascuno Stato deve elaborare “delle politiche di prevenzione della corruzione efficaci e coordinate che favoriscano la partecipazione della società e rispecchino i principi di stato di diritto, di buona gestione degli affari pubblici e dei beni pubblici, d’integrità, di trasparenza e di responsabilità”.
Ad una affrettata lettura sembrerebbe una generica sollecitazione a mettere in campo una politica di prevenzione; fra le righe, invece, si colgono chiarissimi i tratti di quella dovrà essere la strategia; non solo, in particolare, gli obiettivi da perseguire (“la buona gestione degli affari pubblici”, l’“integrità” e la “responsabilità”) ma anche i mezzi da utilizzare (la “trasparenza” e soprattutto “la partecipazione della società”).
Pur avendo l’Italia partecipato ai lavori della convenzione ed avendola ratificata formalmente (sia pure nel 2009), ad essa non era mai stata attuazione reale; ciò è avvenuto solo nel 2012, con la legge la n. 190, la cd. Severino (dal nome dell’allora ministro della Giustizia), in una stagione particolare della vita politica italiana, caratterizzata dalla presenza di un governo tecnico (affidato ad un noto economista, Mario Monti), nato a seguito di una crisi economica gravissima, per evitare che il Paese potesse essere commissariato dalle istituzioni europee.
La legge Anticorruzione venne presentata, al parlamento ed ai partner internazionali, come uno dei tasselli di un più ampio mosaico di ricostruzione delle infrastrutture economiche ed etiche del Paese, come uno strumento che avrebbe potuto rilanciare un’immagine appannata dalla crisi economica ma anche morale di un pezzo della classe dirigente, tanto da essere salutata dal premier dell’epoca, con grande entusiasmo e persino (forse con una punta di ingenuo ottimismo) con la previsione di un effetto positivo sull’aumento del PIL, in quel momento particolarmente depresso.

    1. I tre pilastri della prevenzione

Quando si parla di legge Severino anche in Italia si pensa ad un’unica normativa; in realtà, con quell’indicazione si intende far riferimento non solo alla già indicata legge n. 190 ma anche a tre decreti legislativi, emanati dal medesimo governo Monti, in virtù di deleghe conferite dalla stessa legge, con l’obiettivo di completare la trama normativa. Un primo, emanato nello stesso anno 2012 (n. 235) in materia di incandidabilità ed ineleggibilità, gli altri due nei primi mesi del 2013 (n. 33 e 39), in materia di trasparenza e di incompatibilità delle cariche amministrative.
Malgrado il complessivo impianto normativo risenta di una tecnica legislativa non sempre perfetta (la legge n. 190 consta di un unico articolo di oltre 80 commi, formulato con un maxiemendamento su cui venne chiesta la fiducia!), dovuta probabilmente anche alla fretta, è possibile però individuare chiaramente i tratti caratterizzanti del sistema della prevenzione nazionale.
La convenzione di Merida, indicando obiettivi da perseguire e mezzi da utilizzare, ha fornito una cornice salda, all’interno della quale, però, ogni nazione può muoversi con autonomia e nel rispetto dei principi di fondo del proprio ordinamento, per stabilire specifiche misure di natura preventiva. L’Italia, in questo senso, ha fatto le sue scelte individuando un proprio modello che oggi è all’attenzione internazionale, proprio per i suoi tanti aspetti di novità e di organicità.
In estrema sintesi, sono tre i momenti (i pilastri, potremmo con un po’ di enfasi dire) che caratterizzano la strategia della prevenzione, sia pure in una prospettiva unitaria che resta quella della “corruzione”, da contenere ed evitare.

    1. I Piani anticorruzione

Il primo pilastro della strategia è connesso ad un capovolgimento della prospettiva tradizionale. L’esigenza di assicurare la legalità e la corretta cura degli interessi pubblici è un problema a cui i sistemi amministrativi hanno cercato di rispondere soprattutto con la logica del controllo, collegata all’idea di un’amministrazione di cui non ci si può fidare, perché un “luogo a rischio”, un’entità, quindi, da sottoporre ad una sorta di tutela.
L’impianto normativo della l. Severino scommette, invece, sulla capacità di ogni amministrazione di poter generare gli anticorpi, partendo da un assunto in astratto difficilmente contestabile; non si può contrastare la corruzione, ponendosi contro l’amministrazione e non utilizzando la parte migliore di coloro che la compongono.
Questo capovolgimento di prospettiva si traduce, in pratica, nella innovativa previsione di uno strumento alternativo di controllo, attraverso la riorganizzazione delle procedure, quello dei “piani di prevenzione della corruzione”. I piani di prevenzione si ricollegano sia al sistema di compliance previsto nell’ambito della responsabilità “penale” delle imprese, introdotta in Italia dal d.lgs. n. 231 del 2001 che ai piani di integrità (“integrity plans”), introdotti in molti paesi stranieri per verificare l’integrità dell’organizzazione e valutare il livello di vulnerabilità degli organismi, ma si muove comunque con una direttrice autonoma.
Il Piano si articola su un doppio livello, un piano nazionale (PNA) ed uno di ogni singola amministrazione; entrambi hanno validità triennale ma devono essere annualmente aggiornati.
Il piano nazionale deve essere redatto dall’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC) sia pure dopo aver sentito altri organi (in particolare un comitato interministeriale e la conferenza unificata Stato Regioni) e nella pratica viene sempre predisposto con un confronto con i rappresentanti delle amministrazioni e previa consultazione pubblica. Con esso vengono fornite alle amministrazioni le indicazioni metodologiche per la redazione del proprio piano nonché individuate le possibili aree di rischio su cui intervenire e le misure adottabili.
È però con il piano triennale (PTPC) che viene messa in campo la specifica strategia di ogni ente. Tutte le amministrazioni sono tenute ad adottarlo e ad adeguarlo ogni anno, pena una sanzione pecuniaria amministrativa (da 1000 a 10.000 euro) a carico dei soggetti obbligati alla sua predisposizione ed approvazione.
I piani dovranno effettuare la cd. mappatura dei rischi e cioè l’individuazione dei fattori che possono agevolare i fatti di corruzione; quelli esterni, collegati a situazioni ambientali esterne all’ente (quali, ad esempio, l’esistenza di fenomeni di diffusa illegalità) e interni, ricollegati, in particolare, all’attività degli uffici (che si si occupano, ad esempio, di questioni di impatto significativo dal punto di vista economico).
Una volta individuati i rischi, vanno poi indicate le misure organizzative che possono sterilizzarli; a partire dalla rotazione del personale (misura obbligatoria), le altre misure saranno calibrate alle peculiarità dei rischi medesimi e possono consistere, ad esempio,  in controlli aggiuntivi (il visto sulle pratiche o la istruttoria condotta da parte di più persone), nel destinare maggiori risorse di personale ad alcune attività, nel prevedere rigidi criteri cronologici nell’esame delle pratiche o anche nell’eliminare intralci burocratici che possano essi stessi essere fattori di rischio.
Dal punto di vista procedurale, il piano è approvato dall’organo di indirizzo politico dell’amministrazione (in un comune la Giunta, in un ministero il Ministro, nell’università il consiglio di amministrazione, etc.) su proposta però di una figura di nuovo conio, anch’essa fondamentale nella nuova strategia, il Responsabile della prevenzione della corruzione, un dirigente interno, dotato di una sfera di autonomia, che è il responsabile nell’ente dell’attuazione del Piano.    

    1. Trasparenza e accountability

Il secondo pilastro di questa strategia è nel diverso rapporto che deve intercorrere fra amministrazione e cittadini; sono questi ultimi i “beneficiari” dell’attività dell’amministrazione; i funzionari pubblici, sia quelli elettivi che quelli burocratici, gestiscono il potere nell’interesse della collettività e, in ultima analisi, quindi dei cittadini.
A costoro devono dar conto – è il dar conto che viene espresso in un felice vocabolo, della tradizione anglosassone, “accountability” –  e sono costoro che possono (e devono) chiedere ragione dell’operato dell’amministrazione.
Per strutturare questo diverso e nuovo rapporto amministrazione/cittadini è necessario capovolgere un’idea tradizionale con cui si è mossa fino a ieri l’amministrazione (quantomeno quella italiana) e cioè la riservatezza del suo agire; bisogna, invece, che l’attività amministrativa sia conoscibile dal cittadino, in quanto tale e non perché sia portatore di uno specifico interesse.
Questa esigenza si traduce, quindi, nella necessità di massima trasparenza dell’azione amministrativa e, di conseguenza, nella piena accessibilità agli atti e alle informazioni in possesso del settore pubblico.
L’Italia ha adottato un proprio ampio statuto della trasparenza attraverso due step; con un primo intervento del 2013, nell’ambito della riforma Severino, ha introdotto un regime di pubblicità obbligatoria sui siti istituzionali di tutti gli enti pubblici, di una serie di informazioni; i dati vanno pubblicati in sistema open, sono indicizzabili e scaricabili da chiunque.
Dal 2016 è stato previsto un diritto di “accesso civico generalizzato”, costruito sullo schema del Freedom information Act (FOIA) di tradizione anglosassone; il cittadino ha diritto a poter ricevere copia di atti e di tutte le informazioni in possesso delle amministrazioni pubbliche, diversi ovviamente da quelli già pubblicati. Diritto che incontra alcuni limiti negli interessi pubblici (alcune categorie di segreto) o nella tutela degli incomprimibili diritti individuali di riservatezza dei dati personali.

    1. L’imparzialità dei funzionari pubblici

Un terzo gruppo di misure rivolge la sua attenzione alla figura del funzionario pubblico, ai suoi doveri e ai suoi comportamenti. L’idea di fondo perseguita è di rafforzare l’imparzialità “soggettiva” dell’amministrazione, e cioè di evitare situazioni di conflitto di interessi che rappresentino un rischio concreto di fatti corruttivi, di favorire l’emersione, anche attraverso la trasparenza, di eventuali interessi privati che possono pregiudicare la migliore cura dell’interesse pubblico e regolare le condotte individuali dei funzionari.
L’approccio della normativa è anzitutto quello di “irrobustire” la distinzione fra politica e amministrazione, attraverso più penetranti regole di incompatibilità (cioè impossibilità di poter rivestire contestualmente due cariche) e inconferibilità (cioè l’impossibilità di ricevere il conferimento di determinate cariche): non potranno essere affidati incarichi dirigenziali o di responsabilità in enti pubblici o in controllo pubblico a chi ha riportato condanne penali per alcuni reati anche non passate in giudicato o a chi recentemente ricoperto incarichi di tipo politico o di direzione in enti controllanti.
L’imparzialità della pubblica amministrazione viene anche assicurata attraverso la chiara previsione dell’obbligo di astensione in presenza di un interesse in conflitto, l’irrigidimento dell’esclusività del rapporto con l’amministrazione, individuando criteri più rigorosi per poter essere autorizzati a svolgere incarichi diversi o la regolazione dell’uscita dei funzionari dal mondo pubblico (il cd. pantouflage), impedendo cioè che possano assumere incarichi lavorativi presso soggetti privati coloro che nei confronti di essi avevano svolto attività autoritativa o negoziale.
Dell’imparzialità si fanno carico anche i codici di comportamento dei dipendenti, previsti a livello nazionale e obbligatori per ogni amministrazione, che forniscono una sorta di vademecum del comportamento del funzionario e la cui inosservanza è sanzionabile in via disciplinare.
Sempre nella logica di far emergere eventuali situazioni di conflitto di interessi o comportamenti non corretti nell’amministrazione, si spiega uno strumento, già previsto dalla legge Severino e di recente (nel dicembre 2017) opportunamente rafforzato in via legislativa, la protezione del cd. whistleblower, la “vedetta civica”, cioè chi dall’interno di un’organizzazione avverte l’esistenza del malaffare e lo denuncia, contribuendo dall’interno a rendere più trasparente l’amministrazione.

    1. Il ruolo dell’Autorità nazionale anticorruzione

Nella logica, infine, di questa filosofia è previsto anche un garante del sistema, l’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), che è il centro della nuova funzione di prevenzione, a cui spetta il compito di costruire una “politica” anticorruzione, grazie, però, alla sinergia con le singole amministrazioni.
L’Autorità anticorruzione, la cui istituzione è obbligatoria in base alla Convenzione di Merida (art. 6), è un’autorità indipendente, i cui componenti del consiglio sono scelti con criteri che dovrebbero limitare al massimo l’influenza su essi della politica. Vengono nominati dal governo fra persone con specifici requisiti di competenza, escludendo coloro che nel triennio precedente avevano svolto funzioni politiche, con il parere della maggioranza dei due terzi della commissione parlamentare affari costituzionali, non sono rieleggibili e soprattutto durano in carica 6 anni, più quindi di una legislatura.
L’Autorità svolge funzioni di vigilanza sul sistema dell’anticorruzione, anche attraverso attività ispettive che possono essere delegate alla guardia di finanza, ha poteri di regolazione attraversi strumenti di soft lawed in alcuni casi ha anche il potere di irrogare sanzioni per le inosservanze degli obblighi.
Dal 2014, all’Autorità anticorruzione è stata attribuita anche il potere di vigilanza sul settore degli appalti pubblici e le funzioni della stessa in materia sono state ulteriormente implementati con il codice dei contratti pubblici del 2016, che riconosce, ad esempio, anche la possibilità di impugnare dinanzi al giudice amministrativo bandi e contratti pubblici che non siano rispettosi del diritto degli appalti.

    1.  La necessità di uno scatto culturale

Il modello così sommariamente delineato individua un sistema organico di interventi e di misure destinato ad operare sul versante della prevenzione, che in Italia ha ottenuto un discreto successo, come dimostrano i tantissimi esposti e segnalazioni che ogni giorno giungono all’Autorità da parte di cittadini ed associazioni.
Un sistema questo della prevenzione che non interferisce in modo alcuno con l’attività giudiziaria, con la quale, anzi, vi è un continuo scambio di esperienze anche sul piano culturale; l’ANAC ha firmato protocolli con la maggior parte degli uffici di Procura del Paese, organizza incontri di studio congiunti con la scuola della magistratura proprio per consentire lo scambio di conoscenza su questi nuovi istituti.
Anche a livello internazionale, il sistema della prevenzione ha avuto una sua riconoscibilità, ricevendo attestazioni favorevoli da organismi come l’OCSE e partecipando ai lavori di molte organizzazioni internazionali che si occupano di prevenzione della corruzione.
Lo stesso miglioramento consistente che l’Italia ha ottenuto nella classifica di Trasparency international (ha guadagnato oltre 10 posti negli ultimi tre anni) viene ricollegato anche all’attività della prevenzione.
Ovviamente non sono tutte “rose e fiori”; il sistema astratto non sempre coincide con la situazione concreta; se quasi tutte le amministrazioni pubbliche si sono dotate di piani e rispettano le regole sulla trasparenza, ciò non significa che esse hanno “digerito” la logica delle misure; spesso adempiono, invece, con criteri burocratici, persino (per fortuna in pochi casi) copiando, ad esempio, gli altrui piani della prevenzione.
La stessa burocrazia non sembra aver compreso che l’impianto della prevenzione scommette sulla sua capacità di autorigenerazione e vive gli adempimenti come meri obblighi, piuttosto che come una nuova visione dell’amministrazione medesima.
Questo impianto di misure ha ovviamente bisogno di tempo e soprattutto ha bisogno di uno scatto culturale che una legislazione per quanto innovativa può certamente favorire ma non certo imporre. E questo scatto culturale ha bisogno anche di formazione di una nuova classe dirigente, formazione su cui come ANAC stiamo investendo moltissimo, lavorando soprattutto con le Università del Paese, convinti che solo un miglioramento complessivo culturale potrà consentire di vincere la difficile sfida dell’anticorruzione.

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