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COMUNIONE FAMILIARE E IMPRESA.

 

COMUNIONE FAMILIARE E IMPRESA

Sergio Benedetto Sabetta

Prima parte 

Problema preliminare è la distinzione circa le sfere in cui devono operare gli artt. 230 bis e 177 cc. La tesi più diffusa vede nell’art. 230 bis una impresa individuale, da non confondersi con l’impresa personale dell’art. 178, in cui “i poteri di cogestione dei partecipi hanno solo rilievo nei rapporti interni” (Cian – 1), mentre sui beni aziendali non vi è contitolarità ma un semplice diritto di credito.

Rimane il problema del lavoro domestico che Cian, riflettendo l’opinione prevalente, considera ai fini dell’impresa solo se è “in qualche modo legato all’organizzazione dell’attività imprenditoriale e ne facilita l’esplicazione”. Parallelamente l’art 177 tratta non di una impresa individuale, bensì di una impresa collettiva, dove i coniugi hanno “verso l’esterno i poteri imprenditoriali di gestione” ( Cian – 2).

Abbiamo detto che questa è la tesi più diffusa, esistendo opinioni contrarie sostenute anche da autorevoli autori. L’opinione contraria più autorevole, per la ricchezza delle argomentazioni, è quella che individua nell’art. 230 bis una impresa collettiva, anziché individuale, di tutti i familiari senza peraltro che si possa configurare una società, viene così meno la distinzione prima operata.

I Finocchiaro rilevano innanzitutto che l’art. 230 bis parla di collaborazione tra coniugi, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo, “evidenziando l’aspetto collettivo, più che l’aspetto individuale”.

Inoltre il termine collaborazione è sostituito in altre parti dell’articolo dal termine partecipazione e se il primo termine può riferirsi ad un lavoratore il secondo certamente no, sottintendendo un socio con pari diritti e doveri con gli altri associati.

Proseguendo nelle loro argomentazioni gli autori osservano che gli utili dell’impresa dovranno essere ripartiti in base alla qualità e quantità del lavoro svolto, deducendone da questo la mancanza di un soggetto a cui imputare inizialmente gli utili stessi. Anche la mancanza di ogni riferimento ad una contrapposizione tra i singoli soggetti per i diritti che vanno maturando è segno della collettività dell’impresa.

Ultima considerazione è il coinvolgimento nella gestione dell’impresa di tutti i familiari partecipanti, non solo con riguardo agli indirizzi produttivi e all’impiego di utili incrementi ma anche alla cessione dell’impresa.

Potrebbe prospettarsi la possibilità che sia la famiglia stessa, “intesa come entità distinta dai singoli membri”, a porsi come imprenditore, ma i Finocchiaro lo escludono “in quanto non è stato creato un nuovo, distinto, soggetto di diritto essendo priva della pur minima autonomia patrimoniale a differenza di quello che accade in qualsiasi società”.

Non resta altro che un’impresa collettiva da non configurarsi come società, ma da integrarsi per la regolamentazione con principi ricavati dalla disciplina societaria.

Si presenta il problema del regime da applicarsi alle aziende rientranti nella comunione, essendo la dottrina divisa tra l’applicazione dell’ordinario diritto societario e l’applicazione di più stretti principi comunitari in deroga alla disciplina societaria.

Cian e Villani sono gli autori che hanno esposto con più semplicità la propria adesione alla prima tesi, partendo dalla differenza di trattamento nei due casi previsti dall’art. 177, lett. d) , comma 2°.

Nell’ipotesi dell’art. 177 ultimo comma, il coniuge che entra a cogestire un’azienda già costituita sarà sostanzialmente un socio d’opera; egli potrà anche non esserlo apportando conferimenti di capitale, purchè non siano tali da modificare la struttura aziendale, che altrimenti cadremmo nel caso dell’art. 177, lett. d).

Il rapporto che si instaura tra impresa e comunione è quello di un diritto di credito a favore della comunione stessa per gli utili e incrementi aziendali, rimanendo l’impresa sociale costituita dai due coniugi del tutto estranea alla disciplina della comunione.

Nel caso che l’azienda sia creata e gestita dai due coniugi dopo il matrimonio (art. 177, lett. d), la comunione sarà titolare della stessa ma la gestione avverrà secondo le comuni norme di diritto societario. Questo implica l’indivisibilità della partecipazione sociale dei coniugi, poiché si avrebbe la estromissione della società dalla comunione, fatto che potrà avvenire solo secondo le modalità previste dall’art. 191, c. 2°.

Ne consegue altresì che i coniugi, essendo partecipi di una società di fatto, devono considerarsi responsabili con tutto il loro patrimonio, anche personale, in caso di insolvenza sociale, mentre i creditori della comunione non potranno considerarsi creditori sociali, avendo al massimo diritto alla liquidazione delle quote.

In caso contrario si “finirebbe, …, per fare della comunione coniugale un modello di struttura economica conveniente ad un tipo di famiglia dalle modeste risorse e caratterizzata praticamente da una economia di puro e immediato consumo dei propri guadagni”.

Per quanto riguarda l’art. 182 e la possibilità che venga interpretato come un implicito riferimento alle norme sull’amministrazione della comunione, gli autori obiettano che l’infondatezza di tale affermazione risiede nel carattere tecnico della norma e nella mancanza di riflessione sistematica del legislatore.

Del resto anche preso da per sé l’art. 182, c.2°, non costituisce ostacolo, riconoscendo sostanzialmente “la possibilità di quella amministrazione disgiuntiva della società, che per le fattispecie ordinarie è presunta a norma dell’art. 2266, c. 2°”.

Il solo Cian utilizza sempre l’art. 182, c. 2°, per contestare la fondatezza di un’altra tesi riduttiva della comunione legale nei confronti dell’impresa, quella secondo cui cade in comunione la sola titolarità dei beni formanti l’azienda, rimanendo l’attività imprenditoriale disciplinata dalle norme sulle società. La tesi è in netto contrasto con il tenore letterale dell’art. 182, c. 2°, dovendosi senz’altro aderire all’obiezione dell’autore.

Abbiamo finora parlato delle società di fatto costituite fra coniugi, ma nulla si oppone, rilevano Cian e Villani, che vi sia un regolare atto costitutivo che determini il sorgere di una società commerciale di persone, l’importante è che vi sia l’eguaglianza di quota fra i due coniugi.

Specifica Cian che queste società possano costituirsi solo dopo che si sia realizzata la convenzione matrimoniale prevista dal 2°comma dell’art. 191.

Sarà opportuna una breve digressione sulla appartenenza o meno alla comunione legale delle quote di partecipazione in società di persone acquistate dai coniugi a nome di essa, tenendo presente l’acquisizione ex lege alla comunione delle azioni, delle quote di una S.r.l. e delle quote di un accomandante in una comandita nel caso di loro acquisto, inteso come investimento da parte del singolo coniuge.

L’impossibilità dell’acquisto alla comunione deriva principalmente dal frazionarsi della quota per quanti sono gli acquirenti, ma questo determinerebbe il vanificarsi della struttura e dei fini della comunione.

Preso atto della difficoltà, Cian e Villani la superano considerando titolare della quota di partecipazione la comunione, evitando in tal modo di sconvolgere radicalmente i vari istituti e le norme che stanno alla base della sicurezza del traffico giuridico.

La quota sarà regolata dalle comuni norme del diritto societario, ne consegue che i creditori societari e quelli della comunione rimarranno distinti.

Tuttavia vi è il problema dell’art. 190 per cui, se “i beni della comunione non sono sufficienti a soddisfare i debiti su di essa gravanti”, i creditori potranno “agire in via sussidiaria sui beni personali di ciascuno dei coniugi, nella misura della metà del credito”.

Una tale disposizione, in contrasto con il principio della responsabilità patrimoniale illimitata dei singoli soci, sembra fornire una comoda scappatoia per limitare la propria responsabilità ai coniugi.

Gli autori hanno aggirato l’ostacolo considerando i coniugi, sia pure nel vincolo particolare della comunione, quali soci della società, con le implicazioni che ne derivano.

Si vede bene come ci si ponga in una posizione di estremo equilibrio tra regole comunitarie e sociali giostrando abilmente fra di esse, senza tuttavia poter evitare eventuali contraddizioni che occorre accettare se si vuole ammettere la partecipazione in società di persone della comunione legale.

Il venire meno della partecipazioni dei soci estranei alla comunione non determina lo scioglimento della società, in quanto la mancanza di pluralità di soci a causa della inseparabilità della partecipazione dei coniugi è argomento puramente formale, se si tiene presente che anche nell’art. 177, lett. d) è prevista l’inseparabilità, come già rilevato dagli autori menzionati.

Seconda parte

Abbiamo finora parlato della teoria che prevede l’applicazione delle regole societarie alle aziende gestite da coniugi, con una conseguente compressione della comunione, ma abbiamo pure accennato al contrasto esistente in dottrina, cosicché analizzeremo le tesi contrarie di Oppo e Busnelli.

Oppo provvede a distinguere tra i due tipi di gestione in comunione previsti nell’art.177, analizzando prima la gestione e poi la responsabilità di ciascun caso.

Per quanto riguarda l’art. 177, lett. d) individua nell’art. 181, che chiama il giudice ad autorizzare nel dissenso dei coniugi l’atto di straordinaria amministrazione, quando questo è necessario all’interesse della famiglia o della azienda, una chiara prova dell’applicazione all’azienda del regime di amministrazione della comunione legale.

Anche il successivo art. 182, con il suo richiamarsi all’impresa, è per l’autore una prova lampante della volontà del legislatore in tal senso, sebbene della sua confutazione ne abbiamo già trattato in precedenza nell’esposizione della tesi di Cian e Villani.

Passando alla responsabilità l’autore nota che, anche ad ammettere l’esistenza di una società, non deve per questo considerarsi conferita la proprietà ma se mai il godimento dell’azienda e dei suoi incrementi.

Saranno quindi i creditori della comunione ad essere maggiormente garantiti dei crediti sociali, privi questi di un patrimonio sociale su cui rivalersi.

Da quanto detto ne deriva l’intuizione dell’utilità di applicare le regole dell’amministrazione della comunione legale all’azienda, con conseguente assimilazione dei creditori sociali a quelli della comunione.

Tuttavia una tale osservazione comporta una immediata precisazione sulla sua incisività che non coinvolge la tesi “restrittiva”, usando l’espressione di Cian, nella sua globalità, bensì solo quella particolare tesi per cui la titolarità della comunione si limita ai beni formanti l’azienda, ricadendo l’attività imprenditoriale nella normativa societaria, tesi del resto già contestata dallo stesso Cian.

Comunque sia, Oppo propone l’ipotesi “di un esercizio d’impresa comune, ma non sociale, capace di attribuire ai coniugi, anche più accentuatamente e propriamente di quanto accada per i soci, la qualità di coimprenditori con le conseguenze che ne discendono.”

Inoltre, “essendo l’esercizio di fatto disciplinato dalla legge nel modo anzidetto, solo la costituzione ex professo di una società di uno o altro tipo ed il conferimento in essa dei beni aziendali, con il rispetto delle forme ed esigenze non solo del diritto comune ma del diritto familiare, possa mutare i termini della disciplina”, dimostrando con l’espressione “conferimento in essa dei beni aziendali” una sicurezza sulla necessità di una apposita convenzione che la stessa giurisprudenza, come esposto precedentemente, non possiede.

Per Busnelli il fenomeno associativo contemplato nella riforma del diritto di famiglia non è identificabile “con nessuna delle figure associative contemplate dal codice civile […]; esso è, semplicemente, un quid novi voluto dal legislatore”.

L’autore tende ad integrare l’art. 177, lett. d) con l’art. 230 bis, individuando le differenze con la società nella mancanza di un contratto da cui traggono origine e nella mancanza dello scopo di dividere gli utili, oltre nell’applicabilità delle regole normative proprie della società nei suoi vari tipi.

Tuttavia dopo avere negato strenuamente qualsiasi legame tra le società in generale e i casi previsti negli articoli precedentemente menzionati, Busnelli tende a realizzare un compromesso tra le due opposte tesi che risulta piuttosto contraddittorio con quanto innanzi negato.

Infatti l’autore applica ai nostri casi la disciplina societaria quale disciplina di “diritto comune”, da cui attingere quei principi generali che non si ricolleghino in alcun modo alla regolamentazione contrattuale delle società. Avvalorando la propria posizione con il richiamo al mutamento di opinione in cui sono incorsi i Finocchiaro che sono pervenuti ad avvicinare l’impresa familiare alla società semplice.

La dottrina prevalente, di cui prendiamo ad esempio Schlesinger , applica la logica della comunione immediata (art. 177, lett. a) alle partecipazioni del singolo socio in società di capitali, mentre le partecipazioni in società di persone, le quali comportano una interferenza diretta nella gestione e coinvolgono la responsabilità personale e illimitata del socio, sono assimilate alle gestioni imprenditoriali individuali del coniuge e quindi rientrano nella comunione de residuo (art. 178).

Corsi parte da questi presupposti per sviluppare la propria teoria a favore dell’applicazione del regime societario. Si chiede preliminarmente se una interpretazione estensiva analoga a quella data dall’art. 178 non sia possibile anche per l’art. 177, lett. d), facendo quindi rientrare la società di persone tra coniugi nella comunione immediata. “La logica di questa diversità di trattamento è, del resto, evidente: in presenza di una impresa collettiva, gestita da entrambi i coniugi, vengono meno tutte quelle ragioni […] che consigliavano di rinviare gli effetti della comunione al momento dello scioglimento di essa. Il rapporto sociale lega già i coniugi alla stessa sorte”.

Proseguendo con le testuali parole del Corsi, “Così interpretato, l’art. 177 lett. d) non ha e non può avere il significato che gli si è voluto attribuire, di una contrapposizione in termini con l’ipotesi societaria e viene meno anche il presupposto che aveva fatto pure affermare la nullità di una società contratta tra i coniugi senza il previo scioglimento della comunione o una sua modificazione, seppure limitatamente alla futura azienda”.

Fatta rientrare la società tra coniugi nell’ipotesi di azienda gestita in comune prevista dall’art. 177, lett. d) e riconosciuta l’applicabilità ad essa del regime di società, effettua una ulteriore distinzione tra bene-azienda e società stessa.

Mentre per il bene-azienda sono applicabili le regole della comunione legale, sia in ordine all’amministrazione che in ordine alla responsabilità, per la società tali regole si applicheranno alle quote di partecipazione, mentre l’attività sociale, ossia l’attività d’impresa, sarà soggetta alle norme di cui agli articoli 2247 e segg..

La distinzione fra queste ipotesi corre probabilmente sulla linea quantitativa, là dove vi è piccola impresa, l’azienda è parte integrante dell’economia domestica, il profilo causale societario sfugge, non è percepibile, mancando una distinzione fra i patrimoni della famiglia e dell’impresa ed essendo l’azienda destinata unicamente al soddisfacimento delle esigenze familiari.

Non vi è iscrizione nel registro delle imprese, contabilità da tenere, inventari da redigere e neppure soggezione a fallimento.

Se, invece, la dimensione dell’impresa è maggiore, vi è una possibilità di utile che sopravanzi al soddisfacimento delle esigenze familiari, vi è cioè una possibilità di dividerlo o di reinvestirlo, allora siamo di fronte ad un profilo causale di carattere societario, lo scopo speculativo fa premio sulle finalità familiari, e oggetto di comunione non è l’azienda, ma le quote di partecipazione societaria. Le regole proprie della comunione legale dovranno trovare applicazione nei confronti di tali quote e non dell’azienda sociale.

Mentre l’art. 181 si applicherà agli atti di disposizione delle quote sociali, l’art. 182 resterà limitato all’azienda comune.

Per quanto riguarda i creditori, nella prima ipotesi sapranno “in partenza di essere (né più né meno che) creditori familiari”, nella seconda ipotesi, essendo l’impresa una impresa societaria a causa del coinvolgimento nella comunione delle quote di partecipazione sociale anziché direttamente dell’azienda, i creditori avranno un patrimonio sociale a cui riferirsi nascendo, quindi, come creditori sociali.

Viene meno così, come lo stesso Corsi rileva, una delle più forti obiezioni avanzategli precedentemente da Oppo: la mancanza di un patrimonio sociale su cui i creditori avrebbero potuto soddisfarsi se l’azienda fosse stata considerata oggetto di comunione.

Terza parte

Sia che la consideriamo una sottospecie dell’ipotesi maggiore prevista nell’art. 177, lett. d), sia che la separino nettamente da questa i sostenitori di una applicazione allargata all’azienda del regime di comunione legale, vedesi per tutti Schlesinger e Cian, considerano il diritto agli utili e il diritto agli incrementi, previsti nell’ipotesi dell’art. 177 ultimo comma, come dei semplici diritti di credito della comunione, avvicinandoli in tal modo “più ad una comunione de residuo che ad una comunione attuale” ( Corsi).

Ad una tale interpretazione del comma, Corsi oppone una propria interpretazione in cui ribadisce la propria soluzione societaria, nella quale l’azienda di proprietà del coniuge, già prima del matrimonio, costituisce il conferimento in godimento e gli incrementi costituiscono a loro volta il patrimonio sociale sul quale immediatamente nasce il diritto dei soci-coniugi, quali comproprietari delle rispettive quote.

Ed è questa anche l’unica differenza che corre tra tale ipotesi e l’ipotesi societaria implicita nell’art. 177 lett. d). Si realizza così davvero la soluzione unitaria tra l’una e l’altra ipotesi e si risolve unitariamente anche il problema della responsabilità verso i terzi.

I terzi non dovranno preoccuparsi del regime coniugale prescelto dalla coppia (comunione e separazione) con cui intrattengono rapporti commerciali, essi hanno di fronte una sola società.

Sorgono delle difficoltà interpretative riguardo ai termini utilizzati dal legislatore per lo scarso contenuto tecnico commerciale. Ci riferiamo in particolare al termine di incremento che è talmente indefinito che “in mancanza di precisazioni non è quantificabile oggettivamente in valore” (Frazzini).

Per evitare successive eventuali controversie il coniuge, titolare d’azienda, dovrà provvedere ad una stesura della situazione patrimoniale della propria azienda prima di contrarre matrimonio, nella speranza che questo avvenga, Frazzini continua: “rimane da chiarire se devono essere considerati gli incrementi monetari o solo quelli reali”.

Altra difficoltà a cui va incontro la normativa sull’azienda nella comunione legale è data dal fallimento, ammesso da tutti gli autori per le imprese di dimensioni superiori a quelle della piccola impresa coniugale.

Se si ammette il carattere sociale dell’impresa sarà necessario individuare e tenere conto nella ripartizione del patrimonio di tre categorie di creditori: quelli sociali, quelli personali e quelli familiari.

Ma anche se si ammette il carattere comunitario dell’impresa le difficoltà non vengono meno, sebbene si distingueranno in solo due categorie: quelli personali e quelli della comunione, oltre alle accresciute difficoltà di natura patrimoniale dovute alla diffidenza dei creditori aziendali nel vedersi confusi con i creditori familiari.

L’art. 178 c.c. esclude dalla comunione immediata inserendoli nella comunione de residuo, ma solo se sussistono ancora al momento dello scioglimento, i beni riservati dal coniuge alla propria attività economica intrapresa dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche antecedentemente.

Occorre confrontare questo caso con le ipotesi regolate dagli artt. 177, lett. d) e comma 2°, in cui è evidente che la differenza risiede nella mancanza della gestione comune in base alla quale per queste due ipotesi vi è comunione immediata, che si contrappone alla comunione de residuo prevista nell’art. 178 c.c.

Ma questa ipotesi deve essere distinta anche dall’art. 179, comma I°, lett. d) nel quale si usa l’espressione “esercizio della professione” con riferimento ai beni personali.

Per “esercizio della professione” si intende una “qualsiasi attività svolta in modo abituale, seppure non prevalente ed esclusivo, come è l’impresa” (Tanzi), pertanto l’espressione ha un ambito più ristretto rispetto a quello comprendente le ipotesi riconducibili all’attività separata di cui alla lett. c) dell’art. 177, c. I, ma non limitatamente alle ipotesi di esercizio di una professione intellettuale.

La distinzione tra queste due categorie, ossia beni che servono all’esercizio della professione e beni che servono all’esercizio dell’impresa individuale, è giustificata da Schlesinger nella necessità “di impedire che lo scioglimento della comunione crei difficoltà economiche ad uno dei coniugi, obbligandolo a dividere pure gli strumenti di cui si serve per il suo lavoro, con conseguente rischio perfino di una sospensione di tale attività”.

D’altronde per l’autore la scelta legislativa è chiara e condivisibile se si pensa che l’elemento essenziale rimane la persona e le sue capacità, che non possono essere oggetto di divisione o di compenso, e rispetto ad essa rimangono puramente strumentali i cespiti necessari per lo svolgimento dell’attività, anche se possono assumere un valore economico cospicuo.

Anche i Finocchiaro approvano la distinzione, argomentando con la mancanza di una autonoma capacità di produrre reddito dagli strumenti del professionista diversamente dai beni destinati all’esercizio dell’impresa.

Pavone La Rosa vede la discriminante tra imprese e professione nell’esistenza di strutture organizzative dell’attività economica, in altre parole se i beni o servizi sono il prodotto principalmente dell’organizzazione si avrà un’impresa, mentre se questi sono il prodotto dell’opera di un soggetto preminente sul carattere organizzativo si avrà una professione.

Ne deriva che al professionista e all’artista vengono assimilati l’artigiano e il piccolo imprenditore in palese contrasto con il combinato disposto degli artt. 178,179, lett. d), confermanti la volontà legislativa di separare dall’esercizio della professione tutte le ipotesi in cui l’attività personale del coniuge si presenti sotto forma di un esercizio d’impresa (Tanzi).

Per non parlare di quella parte della dottrina che vede la discriminante non nell’organizzazione, ma nella retribuzione che costituirebbe la ratio dell’istituto della comunione.

Nettamente critico in questa distinzione tra professione e impresa è Tanzi, che rileva una disparità di trattamento la quale, in linea di principio, non trova più ormai alcuna giustificazione economico-giuridica, vi sono molti studi che per la vasta organizzazione, per l’impiego di mezzi e lo spiegamento di personale non sono differenziabili da una impresa di ragguardevoli dimensioni.

Non solo tale distinzione, ma anche il principio di fare rientrare tali beni e incrementi nella comunione del residuo ha fatto sorgere la critica di Tanzi, per le conseguenze negative che possono derivare ad una impresa dallo scioglimento della comunione.

I beni dell’impresa gestita dal singolo coniuge non rientrano nella comunione immediata per la “relazione di fatto” che ai sensi dell’art. 178 deve sussistere tra bene e impresa.

Il bene acquistato per l’impresa dovrà essere “effettivamente utilizzato”, anche se per Tanzi è sufficiente che l’acquisto “risponda ad un programma di destinazione”, al contrario del De Rubertis che asserisce che la destinazione all’attività deve avvenire contestualmente all’acquisto onde evitare l’acquisizione automatica alla comunione ai sensi dell’art. 177, lett. a).

Naturalmente il problema non si pone per quegli autori, come Affermi, che ritengono gli atti di organizzazione atti di impresa.

Se poi il coniuge organizzata l’impresa non intraprende alcun esercizio i beni cadranno in comunione con effetto ex tunc, lo stesso dicasi se l’impresa cessi la propria attività prima dello scioglimento della comunione.

Il bene dovrà comunque “obiettivamente servire” all’esercizio dell’impresa, senza che per questo debba essere indispensabile per lo svolgimento della stessa (Tanzi).

Quanto detto si ripercuote anche sui beni immobili o mobili registrati, per i quali non è necessario che il coniuge nel momento dell’acquisto renda una dichiarazione sulla loro destinazione, né che intervenga all’atto l’altro coniuge per impedirne l’acquisizione automatica alla comunione.

Questa è l’opinione del Tanzi ma su di essa non vi è concordia essendovi al contrario per i Finocchiaro la necessità di osservare le formalità previste nell’art. 179, c. II.

Il rapporto bene-attività, non vincola il bene all’attività a cui è destinato, infatti questo potrà essere trasferito da un’azienda ad un’altra già esistente o da organizzare. Cadranno invece in comunione i beni che acquistati per una attività imprenditoriale non siano utilizzati, salvo che la diversa utilizzazione non entri in una delle ipotesi previste dall’art. 179, c. I, lett. c) e d).

La dottrina concordemente ritiene che il venire meno della specifica destinazione imprenditoriale dei beni prima dello scioglimento della comunione provochi l’acquisizione immediata ex lege al patrimonio comune.

Una voce contrastante è quella di Detti che al contrario destina questi beni alla comunione de residuo in quanto fino allo scioglimento della comunione potrebbero essere riutilizzati in una nuova impresa, anche per quanto riguarda il corrispettivo ricevuto dalla cessione aziendale questi dovrà ricadere nella comunione immediata, a condizione che non venga reinvestito in un’altra azienda.

Non così i Finocchiaro per i quali le somme derivanti dall’alienazione dell’azienda dovrebbero essere trattate come proventi dell’attività separata, cadendo nella comunione de residuo.

Quarta e ultima parte

Il legislatore ha esclusivamente indicato il regime applicabile al momento dello scioglimento, quello della comunione de residuo, senza preoccuparsi del problema della disciplina applicabile durante la comunione. Ritorna il problema della tassatività o meno degli elenchi contenuti negli artt. 177 e 179.

Già Cian e Villani considerano del tutto superflua una discussione al riguardo dovendo considerarsi ogni singolo bene necessario per sé stesso.

Altri autori hanno preferito schierarsi per la tassatività dell’uno o dell’altro elenco, così Detti e i Finocchiaro hanno attributo all’art. 177 carattere tassativo, mentre De Marchi, Mazzola, Re hanno ritenuto di individuare tale carattere di tassatività nell’art. 179 a scapito dell’art.177, riconoscendo indirettamente a quest’ ultimo la funzione di regola nei rapporti coniugali, infine alcuni autori, quali Fragali, sono pervenuti ad escluderlo in entrambi i casi.

Il problema è importante in quanto si potrebbe essere indotti ad applicare ai beni destinati all’impresa individuale la disciplina, seppure in forma ridotta, relativa alla comunione, sempre che si accetti la tassatività con ciò che ne consegue dell’art. 179.

Obietta Tanzi che i beni destinati all’attività aziendale sono acquisti relativi ad un bene personale, qual è l’azienda gestita dal singolo coniuge, e quindi rientranti nell’eccezione prevista dallo stesso art. 177, lett. a), l’autore considera peraltro incongruente l’assimilazione ai beni comuni dei beni che l’art. 178 considera oggetto di comunione solo se sussistono al momenti dello scioglimento della stessa.

Infine, secondo Tanzi, non ultimo è da considerarsi la ratio della norma “intesa alla tutela della libertà dell’iniziativa economica di ciascun coniuge”, ne deriva l’assurdità di creare vincoli sui beni e indirettamente sull’impresa, quando l’intento legislativo con l’art. 178 è stato proprio quello di evitare tale minaccia.

Considerando al contrario i beni destinati all’attività imprenditoriale quali beni personali si eviterà l’applicazione in assoluto ad essi del regime di comunione legale.

Gabrielli si spinge oltre ritenendo che l’azienda riassuma il carattere di bene personale, destinato alla comunione del residuo ai sensi dell’art. 178, anche nel caso in cui all’impresa si sia prima associato l’altro coniuge, poi uno dei coniugi per qualsiasi ragione si sia ritirato dall’esercizio della stessa.

Motivazione di una tale tesi è per Pino il fatto che questi beni siano sclusi dall’oggetto della comunione sino allo scioglimento di questa.

Gabrielle rincara la dose ritenendoli beni personali in senso stretto perché il riferimento “alla professione (art. 179, lett. d) andrebbe inteso nel significato più ampio di attività professionale, quale che ne sia la specifica natura, e comprensivo anche, pertanto dell’attività imprenditoriale”.

Al Gabrielli ha replicato Pavione La Rosa sostenendo che l’art. 178 verrebbe privato dello spazio applicativo. Una critica più ampia e generalizzata è sollevata da Tanzi il quale preliminarmente osserva che, come beni personali, dovrebbero essere ricompresi nell’art. 179, questo naturalmente accettando la tesi della tassatività dello stesso.

Prosegue l’ autore affermando la categoricità dei beni personali che saranno esclusi dalla comunione in forma assoluta e definitiva e non anche dei beni dell’impresa che possono, sia cadere nella comunione de residuo, che entrare nel patrimonio comune prima dello scioglimento della comunione.

Un ulteriore prova di sapore filologico è tratta dalla prima parte dell’art. 179, c. I, nell’inciso in cui si dispone che “non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge” le categorie di beni elencate, confermando così che vi sono beni esclusi dalla comunione che non sono beni personali.

Anche riconoscendo che i beni dell’impresa non sono beni personali in senso stretto, non è escluso che si possa applicare per analogia le regole dell’art. 179, lett. f), sulla c. d. surrogatoria reale dei beni personali. In altre parole l’imprenditore potrà alienare dei beni dell’impresa e reinvestirne il ricavato in altri beni funzionali all’impresa senza che questi rientrino automaticamente nella comunione, a condizione di rispettare le dovute formalità.

All’opposto Tanzi rileva che, ai sensi della norma predetta, non è necessario “che il nuovo bene sia funzionalmente in grado di sostituire quello ceduto o scambiato nel patrimonio del coniuge o abbia i caratteri per essere ricompreso nella stessa categoria”, mentre tali requisiti debbono sussistere nel caso di beni surrogati destinati all’attività aziendale.

I beni di cui alla lett. f) dell’art. 179, c. I, costituiscono una categoria a sé, ai quali la natura personale è “comunicata” da quelli che nell’ambito della stessa norma potremmo definire beni originariamente personali.

La posizione di Tanzi si basa sulla negazione della presenza della funzione nell’ipotesi di surrogazione reale prevista dalla lett. f) dell’art. 179, è una posizione estrema che non sembra accettabile, considerando anche le critiche avanzate da De Rubertis e da Corsi.

Rileva quest’ultimo autore che con riferimento all’ipotesi di beni ad uso personale e di beni adibiti all’esercizio della professione, lett. c) e d) dell’art. 179, il carattere personale del bene dipende dalla funzione a cui è destinato. Sembra pertanto difficile pensare che questi possa essere surrogato con un bene completamente diverso e che non soddisfi a quella funzione, pena il crollo di tutto il sistema di cui agli artt. 177 e 179.

Conclude Corsi che ammettendo una indiscriminata surrogazione, le preoccupazioni di quegli autori che propongono una interpretazione restrittiva delle lett. c) e d) dell’art. 179, sarebbero giustificate.

La possibilità di surrogazione reale vien meno se si pensa alla tassatività dell’art. 179, circostanza che escluderebbe nell’accettare tale ipotesi qualsiasi estensione analogica fuori dei casi previsti dalla stessa norma.

L’applicabilità dell’art. 179, c.II, ai beni dell’impresa risulta essere una interpretazione eccessivamente estensiva, in contrasto con lo spirito e la lettera della norma da cui si può dedurre la sua applicazione solo ai beni definitivamente esclusi dalla comunione.

Concludendo, dobbiamo considerare i beni destinati all’impresa dopo il matrimonio e gli incrementi di quella costituita antecedentemente non appartenenti né ai beni comuni, né ai beni personali, ma beni il cui coniuge imprenditore ne ha la piena disponibilità solo limitatamente all’impresa (Tanzi), ne deriva che ad essi sono applicabili le regole del diritto commerciale e non quelle del diritto di famiglia.

NOTE: Prima parte

NOTE: Seconda Parte

NOTE terza parte

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