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Commissariate otto Province, ma manca una riforma organica delle autonomie locali

di Carlo Rapicavoli.
Nella Gazzetta Ufficiale del 16 giugno 2012 sono stati pubblicati i quattro decreti del Presidente della Repubblica che dispongono la nomina del commissario straordinario delle Province di Ancona, Como, La Spezia e Vicenza.

Le Province di Genova e Belluno erano state commissariate in precedenza.

Lo stesso è accaduto per le Province Regionali di Caltanissetta e Ragusa, per le quali la competenza esclusiva spetta alla Regione Sicilia.

In Sardegna i cittadini sono stati chiamati ad esprimersi su 5 referendum abrogativi regionali e i 5 referendum consultivi regionali relativi alla soppressione delle nuove Province e ad una consultazione su alcuni temi relativi all’organizzazione amministrativa della Regione.

I Commissari “sono nominati fino all’elezione dei nuovi organi provinciali,  a norma di legge” e agli stessi sono  conferiti  i  poteri  spettanti  al consiglio provinciale, alla giunta ed al presidente.

Per le quattro Province di Ancona, Como, La Spezia e Vicenza, come era stato espressamente richiesto da due ordini  del giorno di analogo tenore  presentati  alla  Camera  e  al  Senato  ed accolti dal governo, nelle more  dell’emanazione  della  nuova legge sulle modalità di elezione dei nuovi organi provinciali, per  assicurata  la  continuità  nella  gestione  delle   amministrazioni interessate, sono stati nominati commissari straordinari  i Presidenti uscenti.

In tal modo i cittadini di otto Province italiane – in virtù di quanto disposto da un decreto legge, in considerazione della straordinaria necessità ed urgenza di “salvare l’Italia” – non potranno esercitare il loro diritto di elettorato per il rinnovo dei propri rappresentanti nella Province.

Cosa accade adesso?

La risposta dovrebbe rinvenirsi nell’art. 23, comma 20, del D. L. 6 dicembre 2011 n. 201, convertito in Legge 22 dicembre 2011 n. 214, che così prevede: “Agli organi provinciali che devono essere rinnovati entro il 31 dicembre 2012 si applica, sino al 31 marzo 2013 l’art. 141 del D. Lgs. 267/2000 e successive modificazioni. Gli organi provinciali che devono essere rinnovati successivamente al 31 dicembre 2012 restano in carica fino alla scadenza naturale. Decorsi i termini di cui al primo e al secondo periodo del presente comma, si procede all’elezione dei nuovi organi provinciali di cui ai commi 16 e 17”, su cui si fondano i decreti del Presidente della Repubblica di nomina dei Commissari.

La norma dovrebbe applicarsi sino al 31 marzo 2013, ma abbiamo già visto che i decreti di nomina dei Commissari non prevedono tale scadenza ma stabiliscono che “sono nominati fino all’elezione dei nuovi organi provinciali,  a norma di legge”

In realtà sussistono molti dubbi sull’applicabilità dell’art. 141 del D. Lgs. 267/2000, così come disposto dall’art. 23, comma 20, del decreto “Salva Italia”.

L’art. 141 del D. Lgs. 267/2000, sotto la rubrica Scioglimento e sospensione dei consigli comunali e provinciali” prevede: “I consigli comunali e provinciali vengono sciolti con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’interno:

a)    quando compiano atti contrari alla Costituzione o per gravi e persistenti violazioni di legge, nonché per gravi motivi di ordine pubblico;

b)    quando non possa essere assicurato il normale funzionamento degli organi e dei servizi per le seguenti cause:

1)              impedimento permanente, rimozione, decadenza, decesso del sindaco o del presidente della provincia;

2)              dimissioni del sindaco o del presidente della provincia;

3)              cessazione dalla carica per dimissioni contestuali, ovvero rese anche con atti separati purché contemporaneamente presentati al protocollo dell’ente, della metà più uno dei membri assegnati, non computando a tal fine il sindaco o il presidente della provincia;

4)              riduzione dell’organo assembleare per impossibilità di surroga alla metà dei componenti del consiglio;

c)   quando non sia approvato nei termini il bilancio;

d)   nelle ipotesi in cui gli enti territoriali al di sopra dei mille abitanti siano sprovvisti dei relativi strumenti urbanistici generali e non adottino tali strumenti entro diciotto mesi dalla data di elezione degli organi. In questo caso, il decreto di scioglimento del consiglio è adottato su proposta del Ministro dell’interno di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti”.

(…)

4. Il rinnovo del consiglio nelle ipotesi di scioglimento deve coincidere con il primo turno elettorale utile previsto dalla legge.

5. I consiglieri cessati dalla carica per effetto dello scioglimento continuano ad esercitare, fino alla nomina dei successori, gli incarichi esterni loro eventualmente attribuiti.

L’art. 141 individua quindi le ipotesi tassative di scioglimento anticipato dei consigli provinciali e comunali; non dispone alcunché ovviamente in tema di sospensione del rinnovo elettorale; al contrario al comma 4 precisa che “Il rinnovo del consiglio nelle ipotesi di scioglimento deve coincidere con il primo turno elettorale utile previsto dalla legge”.

Dunque, seguendo l’interpretazione letterale della norma, come sarebbe previsto dall’art. 12 delle Preleggi, la disposizione non avrebbe alcun effetto, in quanto direbbe ciò che è già previsto e cioè che agli organi provinciali si applica l’art. 141 del D. Lgs. 267/2000; anzi, a volere ulteriormente disquisire, sembrerebbe una norma che circoscrive l’ambito di applicazione dell’art. 141 esclusivamente “agli organi provinciali che devono essere rinnovati entro il 31 dicembre 2012 e sino al 31 marzo 2013”.

Evidentemente non ha alcun senso.

Come non avrebbe alcun senso giuridico, se non quello di ribadire un principio ovvio, la disposizione contenuta nel secondo periodo del comma 20: “Gli organi provinciali che devono essere rinnovati successivamente al 31 dicembre 2012 restano in carica fino alla scadenza naturale”.

Ovvio, si direbbe.

Per cercare di interpretare l’intenzione del legislatore forse soccorre l’ultimo periodo del comma 20: “Decorsi i termini di cui al primo e al secondo periodo del presente comma, si procede all’elezione dei nuovi organi provinciali di cui ai commi 16 e 17”.

Ma i commi 16 e 17 fissano principi generali non immediatamente applicabili (16.  Il Consiglio provinciale è composto da non più di dieci componenti eletti dagli organi elettivi dei Comuni ricadenti nel territorio della Provincia. Le modalità di elezione sono stabilite con legge dello Stato entro il 31 dicembre 2012. 17.  Il Presidente della Provincia è eletto dal Consiglio provinciale tra i suoi componenti secondo le modalità stabilite dalla legge statale di cui al comma 16), in quanto rinvia alla legge dello Stato che deve essere emanata entro il 31 dicembre.

Ed allora si può davvero considerare compatibile con il nostro ordinamento giuridico che da tali disposizioni, così maldestramente formulate se non altro in rapporto ad una buona tecnica legislativa, derivino come effetti che:

1)       Si possano sospendere le elezioni amministrative per il rinnovo di sette consigli provinciali pur in assenza di una nuova disciplina elettorale?

2)       Si possa estendere l’applicazione della normativa straordinaria sullo scioglimento anticipato di organi democraticamente eletti e sul commissariamento di Enti costitutivi della Repubblica ad una fattispecie nuova, diversa, non patologica, introdotta con decreto legge e riferita alla scadenza naturale degli organi stessi?

Ma questa, appare fuor di dubbio, essere l’intenzione del legislatore!

Così è stato; infatti le Province sono adesso amministrate da un Commissario.

L’art. 23, comma 20, dispone l’applicabilità dell’art. 141 fino al 31 marzo 2013.

I decreti di nomina individuano il termine di validità nell’elezione dei nuovi organi provinciali,  a norma di legge”.

Cosa accadrà se l’elezione dei nuovi organi non avverrà entro il 31 marzo 2013?

Al momento l’unico riferimento ad oggi possibile è un rinvio al testo del disegno di legge approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri del 6 aprile 2012, su proposta del Ministro dell’Interno, che disciplina le modalità di elezione di secondo grado dei Consigli provinciali e dei Presidenti della Provincia.

Il disegno di legge è stato trasmesso alla Camera dei Deputati il 16 maggio 2012 ed assegnato il 28 maggio 2012 in sede referente alla Commissione Affari Costituzionali.

Sul disegno di legge si è espressa la Conferenza Unificata il 4 aprile, con il parere favorevole dell’ANCI, quello contrario dell’UPI ed una serie di osservazioni delle Regioni di cui il Governo “ha preso atto riservandosi di valutarle”.

Tale disegno di legge prevede un nuovo “modello elettorale provinciale” di tipo proporzionale, fra liste concorrenti, senza la previsione di soglie di sbarramento e di premi di maggioranza così caratterizzato:

– elezione contestuale del Consiglio provinciale e del suo Presidente
– elettorato passivo riservato ai Sindaci e consiglieri in carica al momento della presentazione delle liste e della proclamazione
– ciascuna candidatura alla carica di Presidente della Provincia è collegata a una lista di candidati al Consiglio provinciale;
– i votanti possono esprimere fino a due preferenze: se decidono di esprimere la seconda preferenza, una delle due deve riguardare un candidato del Comune capoluogo o di sesso diverso da quello a cui è destinata la prima preferenza;
– è proclamato Presidente della Provincia il candidato che ottiene il maggior numero di voti. In caso di parità si prevede il ballottaggio. In caso di ulteriore parità è eletto il più anziano d’età;
– Le cariche di Presidente e Consigliere provinciale sono compatibili con quelle di Sindaco e Consigliere comunale;
– È vietato il cumulo degli emolumenti.

La Commissione Affari Costituzionali della Camera si è occupata del disegno di legge nelle sedute del 7 e del 14 giugno 2012, relatori i deputati Giuseppe Calderisi e Gianclaudio Bressa, limitandosi alla sola relazione introduttiva e rinviando l’esame alle sedute successive, dopo aver rilevato come sottolinea come “la definizione delle modalità di elezione del Consiglio provinciale e del presidente della provincia, affrontata dal disegno di legge C. 5210, e delle funzioni delle province, oggetto del progetto di legge recante la cosiddetta Carta delle autonomie, approvato dalla Camera (C. 3118) e ora all’esame del Senato, non possa prescindere dalla revisione della disciplina costituzionale in materia di province e come, in altre parole, la definizione della cornice costituzionale in materia di province abbia la priorità logica rispetto agli altri due punti” e che “e che senza una chiara presa di posizione del Governo rispetto alle province non è possibile portare avanti i lavori della Commissione”.

Richiamiamo al riguardo soltanto alcuni passaggi del parere dell’UPI, che ci appaiono pienamente condivisibili,  espresso in Conferenza Unificata il 4 aprile 2012:

“Il sistema elettorale rappresenta il cuore del legame tra le istituzioni territoriali e le loro comunità. Nel nostro sistema costituzionale le leggi elettorali sono rimesse alla legislazione ordinaria ai fine di consentire la possibilità di adeguamenti nel tempo che tengano conto dell’evoluzione democratica del Paese. Ma è un dato certo che la democrazia locale è l’espressione, la più alta, dell’autonomia dell’ente che è stata riconosciuta a più riprese dalla Costituzione e dalla Carta europea delle autonomie locali.

Il principio autonomista implica il principio democratico e ciò richiede che il popolo deve avere una rappresentanza che emerga da elezioni generali, dirette, libere, uguali e segrete e che la rappresentanza abbia una consistenza tale da conseguire due risultati: in primo luogo, l’espressione del pluralismo politico, compatibilmente con la governabilità; in secondo luogo, la capacità di indirizzo e controllo da parte della rappresentanza medesima sull’ente.

La scelta di eleggere i consigli provinciali attraverso un elezione di secondo grado, come organi di espressione degli amministratori comunali, priva i cittadini del territorio provinciale del diritto di eleggere e controllare direttamente un ente peraltro previsto dalla Costituzione come elemento costitutivo della Repubblica.

Per questi motivi, l’UPI ribadisce la necessita di prevedere comunque una elezione diretta degli organi di governo della Provincia, che hanno la funzione di rappresentare comunità provinciale nel Paese.

La soluzione adottata nel ddl al contrario non riesce a dare una risposta equilibrata alle esigenze di rappresentanza di tutto il territorio provinciale che oggi hanno un punto di riferimento nel sistema elettorale provinciale basato su collegi territoriali, né riesce a tenere conto in modo adeguato della rappresentanza delle diverse forze politiche nei territori e dei necessari equilibri fra maggioranze e minoranze”.

Dunque: incertezza sulla scadenza dei Commissari; incertezza sul futuro e sulle nuova modalità di elezione.

Era proprio necessario tutto questo?

Era proprio necessario creare un conflitto istituzionale di tale portata?

Contro l’articolo 23 del decreto Salva Italia fanno ricorso, per evidente vizio di incostituzionalità, 8 Regioni: Lombardia, Piemonte, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Campania, Molise, Sardegna.

Contro la mancata convocazione dei comizi elettorali della prossima tornata elettorale hanno presentato ricorso al TAR le Province di: Ancona, La Spezia, Vicenza e Como oltre ad un gruppo di cittadini organizzato della provincia di Belluno.

Su quest’ultimo ricorso è arrivata la prima decisione del TAR Veneto, che si è espresso con Ordinanza n. 806/2012 del 13 giugno sul ricorso presentato da un gruppo di cittadini residenti in Provincia di Belluno per l’annullamento del decreto del Ministro degli Interni 24/2/2012 e del decreto del prefetto della provincia di Belluno 5/3/2012 prot. n. 3597, laddove, rispettivamente, hanno omesso di indire la consultazione per l’elezione diretta degli organi di governo della Provincia di Belluno e la convocazione dei relativi comizi elettorali.

Il TAR ha ritenuto fondata l’eccezione dell’Amministrazione resistente, tramite l’Avvocatura dello Stato, secondo cui controversie come quella in esame, riguardanti, cioè, anche la impugnazione come atto presupposto di un decreto ministeriale, ove omette di indire la consultazione per l’elezione diretta degli organi di governo delle province, sono devolute, alla competenza del Tar del Lazio – Roma, trattandosi di cause dirette all’annullamento anche di provvedimenti emanati da un organo centrale dello Stato e aventi efficacia su tutto il territorio nazionale.

Il TAR ha ritenuto non ipotizzabile l’annullamento eventuale del predetto decreto ministeriale nella sola parte inerente la Regione Veneto al fine di radicare la competenza territoriale del TAR Veneto, dato che la giurisprudenza del Consiglio di Stato è nel senso che non muti la competenza territoriale neanche l’ipotesi di semplice disapplicazione dell’atto statale presupposto.

Viene pertanto dichiarata l’incompetenza territoriale del TAR Veneto a conoscere il giudizio, con conseguente indicazione del Tar del Lazio – Roma, quale giudice competente, dinanzi al quale il processo potrà proseguire, previa riassunzione della causa entro il termine di trenta giorni.

I cittadini ricorrenti hanno già annunciato il ricorso al TAR Lazio.

Un primo risultato è stato raggiunto: nasce una palese disparità nella rappresentanza di alcuni territori.

I cittadini di otto Province – a differenza delle altre – non avranno più una rappresentanza politica portatrice dei loro interessi in tutte le sedi istituzionali, ma saranno rappresentanti da un Commissario – non eletto ma nominato – che non risponde delle proprie scelte agli elettori ma al Ministro dell’Interno che l’ha nominato.

Con quale mandato un commissario potrà decidere se approvare un no ad esempio un piano urbanistico comunale?

Sulla base di quale autorità rappresentativa potrà stabilire le priorità negli investimenti ad esempio su scuole o su viabilità?

Sulle priorità nella destinazione delle risorse? Sulle scelte in merito al futuro assetto istituzionale nei tavoli di coordinamento?

E’ possibile che non ci renda conto del grave vulnus al sistema democratico ed al diritto di elettorato attivo si sta determinando in questo modo?

Ci sarà un motivo se solo nel periodo fascista si registra, nella storia d’Italia, la sospensione del sistema elettivo degli Enti Locali: la legge 237 del 4 febbraio 1926 che sopprimeva, nei comuni con meno di 5000 abitanti (ma il provvedimento fu esteso nel settembre dello stesso anno a tutti i comuni), l’elezione di consiglio e sindaco, sostituito dal podestà, unico organo deliberante del Comune, nominato con decreto regio; la legge 6 aprile 1926 attribuiva poteri politici ai prefetti, che diventavano rappresentanti del governo nelle province (circolare del 5 gennaio 1927) e infine la legge n. 2960 del 27 novembre 1928, che sanciva infine un nuovo ordinamento per le amministrazioni provinciali: veniva anche qui abolito il sistema elettivo: un “preside” avrebbe sostituito le funzioni del presidente della Deputazione e della Deputazione stessa, un “rettore” il Consiglio provinciale.

Era proprio necessario anteporre una decisione di tale portata ad una revisione ponderata di riordino istituzionale e di riassetto delle competenze?

Cominciano a levarsi le voci critiche anche da quei settori della “società civile” certamente non sospettabili di “faziosità pro Province”.

Un primo allarme è arrivato nei giorni scorsi da Vicenza, dove appunto gli organi – Presidente, Giunta e Consiglio Provinciale – sono giunti alla scadenza naturale ed è stato nominato il Commissario

In un’intervista rilasciata a Il Mondo.it, Giuseppe Zigliotto, nuovo Presidente di Confindustria Vicenza ha affermato: “Oggi abbiamo un ente che sta sparendo, ma nessuno ha messo in chiaro chi ne prenderà il ruolo, manca ancora un quadro direttivo”. “Lei capisce – continua il leader degli imprenditori locali – che un commissario non deve rispondere al territorio e non avrà nemmeno la disponibilità di una tesoreria. Quindi ai cittadini verrà a mancare un interlocutore. E la Provincia ha competenza sul lavoro, per dirne una, ma anche sulle scuole superiori, e quindi la formazione professionale, sui piani territoriali e le opere pubbliche come le strade. Va bene chiudere un ente, ma occorre chiarezza, e noi oggi non sappiamo chi sarà il nostro interlocutore, e come si muoverà”.

Le parole del presidente di Confindustria ribadiscono in modo inequivocabile quanto da tempo paventato da più parti, senza purtroppo l’avvio di un serio ed approfondito dibattito sulla riforma complessiva dell’organizzazione centrale e periferica della Repubblica.

La discussione avviata in Parlamento è auspicabile in ogni caso che riesca a superare e modificare radicalmente i contenuti di un provvedimento affrettato, confuso, dettato esclusivamente dalla necessità di offrire al dibattito mediatico quel “taglio” tanto invocato, ma purtroppo altrettanto poco ponderato, da chi, cavalcando le indubbie e gravissime difficoltà del nostro sistema politico ed economico, propone soluzioni devastanti per l’intero assetto costituzionale dello Stato ed in particolare per le Autonomie Locali, che andrebbero al contrario rafforzate e tutelate nell’erogazione dei servizi essenziali, in quanto  oggi, molto più che il ritorno al centralismo, da sole possono riuscire a tentare di interpretare e gestire le aspettative e i bisogni dei cittadini.

La “grande riforma”, infatti lungi dal consentire risparmi – come indicato espressamente dalle relazioni tecniche della Camera e del Senato, che non hanno ritenuto di potere quantificare alcuna cifra dai risultati delle misure stesse – produce notevoli costi aggiuntivi per lo Stato e per la Pubblica amministrazione, ingenera caos nel sistema delle autonomie e conseguenze pesanti per lo sviluppo dei territori e sta già producendo effetti devastanti sulle economie locali, poiché produce il blocco degli investimenti programmati e in corso delle Province.

Se dunque è ormai chiaro che il Governo Monti difficilmente vorrà o potrà retrocedere dalla scelta di vedere nelle Province il capro espiatorio e che quindi una riforma dovrà essere attuata, occorre finalmente procedere al  riordino dell’organizzazione delle istituzioni, in modo da razionalizzarne funzioni e costi, però in modo organico e complessivo, attraverso una revisione costituzionale del nostro ordinamento e non certo con decretazione d’urgenza.

Al momento attuale non è ancora definito il destino delle Province. Tuttavia, in sede europea (BCE) e nell’ ambito della discussione relativa alla “spending review” è chiaramente emerso che una vera proposta di razionalizzazione non deriva dall’abolizione delle province ma dal loro accorpamento, come ben aveva evidenziato una ricerca della Bocconi, commissionata dall’UPI.

L’Unione delle Province d’Italia, infatti, in alternativa all’intervento del Governo, ha proposto una riforma degli enti di area vasta che consente di riallocare 5 miliardi a favore dello sviluppo dei territori, attraverso:

– la razionalizzazione delle Province con la riduzione del loro numero effettuata in ambito regionale, con la previsione di accorpamenti tra Province, mantenendo comunque saldo il principio della rappresentanza democratica delle comunità territoriali;

– l’istituzione delle Città metropolitane come enti per il governo integrato delle aree metropolitane;
– la ridefinizione delle funzioni delle Province, in modo da lasciare in capo alle Province esclusivamente le funzioni di area vasta;

– l’eliminazione degli enti intermedi strumentali (agenzie, società, consorzi) che svolgono impropriamente funzioni che possono essere esercitate dalle istituzioni democratiche previste dalla Costituzione;

– il riordino delle amministrazioni periferiche dello Stato, legato al riordino delle Province;

– La destinazione dei risparmi conseguiti con il riordino degli enti di area vasta ad un fondo speciale per il rilancio degli investimenti degli enti locali.
Vorrà finalmente il Governo aprire un confronto serio sull’argomento?

Carlo Rapicavoli

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