Natura fiume
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I principi fondamentali dell’ambiente

 

I rilevanti interventi normativi comunitari hanno contribuito a formare una solida base, sulla quale è stata poi costruita tutta la disciplina di tutela dell’ambiente .

La Comunità Europea, oggi Unione, è infatti intervenuta, nel corso del tempo, a dettare importanti linee guida che indirizzassero gli Stati membri a tenere determinati comportamenti e ad agire secondo  chiari principi idonei a tutelare concretamente  l’ambiente.

Uno dei  principi di derivazione comunitaria è    “chi inquina paga”.

Teorizzato dal Programma d’azione in materia ambientale del 1973 e ripreso più volte da vari atti comunitari, questo principio viene ufficialmente introdotto dall’Atto Unico Europeo del 1986 ( dello stesso anno della legge istitutiva del ministero dell’ambiente L. 349/86) dall’articolo 130 R (poi art. 174 e oggi art. 191 TFUE) all’interno del Titolo appositamente dedicato all’ambiente[1].

Il principio sopra detto rappresenta un punto fermo dell’azione europea nella difesa dell’ambiente ed ha subito nel corso degli ultimi anni una significativa evoluzione circa la sua interpretazione portandolo verso un rilevante miglioramento. Il principio, di estrema semplicità, prevede che colui che inquina l’ambiente è costretto a pagare, è passato da una visione prettamente economica ad una  giuridica.

La prima, quella economica, prevede che il “ polluter”  sia costretto a pagare in base alla sua attività inquinante. Le imprese che a causa delle loro attività produttive creano inquinamento devono pagare un   quantum, sottraendolo dalle risorse finanziarie a loro disposizione, in modo tale da non far gravare, ingiustamente, i costi della tutela ambientale direttamente sulla collettività.

Questo modo di intendere il principio implica quindi il connesso principio di  prevenzione posto a carico dell’inquinatore, il quale dovrà sopportare i costi relativi alle azioni possibili al fine di evitare il verificarsi di un pregiudizio ai danni dell’ambiente.

L’impresa è chiamata a rispettare i limiti fissati dalla autorità o dalla legge, all’interno dei quali paradossalmente non si viene considerati inquinatori,  nel momento in cui li supera dovrà adottare tutti quegli interventi utili al fine di eliminare  l’effetto negativo prodotto contro l’ambiente.

Ad esempio una industria chimica è  obbligata non solo a rispettare gli standard, ma anche a mettere in atto tutte quelle misure che permettano il non superamento degli stessi (anche per evitare sanzioni), dando così vita ad una efficace azione preventiva. Infatti per evitare di essere sanzionata ex post, l’impresa interviene ex ante nel tentativo di ridurre al minimo il rischio di danno nei confronti dell’ambiente, al quale viene così attribuito un costo di ripristino o di correzione.

In aggiunta agli standard sopra accennati è possibile prevedere ulteriori elementi in grado di contribuire alla prevenzione di un ipotetico danno all’ambiente. Costituiscono un chiaro esempio i divieti, le regolamentazioni, i canoni, le tasse e anche gli incentivi. Se infatti con la tassa l’inquinatore paga in base a quanto pregiudica l’ambiente (vedi ecopass), con gli incentivi l’impresa ha l’occasione, attraverso un’agevolazione economica, di intervenire sostituendo i suoi vecchi impianti ovvero introducendone di più moderni[2].

Tutte queste disposizioni di tipo amministrativo (standard, autorizzazioni…) ed economico (tasse, incentivi…), sebbene in certi casi abbiano lo scopo di incentivare un’impresa ad adottare delle misure preventive in grado di garantire il rispetto degli obiettivi di qualità imposti per legge e in altri servano per obbligare l’inquinatore a pagare in base alle sostanze inquinanti emesse, non contemplano però l’obbligo per il soggetto inquinatore di intervenire economicamente di tasca propria per ripristinare la situazione così com’era in origine.

La seconda nonché successiva interpretazione ovvero applicazione del principio “chi inquina paga” è prettamente giuridica e prevede la responsabilità civile con conseguente richiesta di risarcimento del danno.

L’impresa o il privato sarà quindi ritenuto responsabile per ciò che ha commesso nei confronti dell’ambiente . Il termine “paga” inteso quindi in termini aquiliani, come prevede anche il codice civile italiano comporta la relativa azione di indennizzo verso chi ha subito un danno ingiusto.

Dal momento che il “soggetto” che viene danneggiato dall’azione inquinante delle imprese è l’ambiente (oltre ad eventuali terzi), il risarcimento consiste proprio nel ripristinare le sue matrici lese o comunque nel corrispondere un indennizzo per equivalente. Per questo motivo, con la previsione del risarcimento del danno, proporzionalmente collegato alla responsabilità civile, all’impresa sarà quindi addossata anche il cosiddetto “rischio ambientale”, da intendersi a tutti gli effetti alla stessa stregua di un vero e proprio rischio d’impresa[3].

Nonostante quest’ultima interpretazione sia innovativa rispetto alla precedente, che viene così nettamente migliorata, il polluter non potrà comunque fare a meno di considerare la prevenzione come uno dei suoi obiettivi primari. Risulta infatti evidente che se un’impresa adotta, in base al primo significato che si è attribuito al principio, tutte le misure atte ad evitare preventivamente un possibile danno ambientale, questo non potrebbe mai verificarsi, pertanto l’impresa non sarà evidentemente responsabile e, di conseguenza, costretta al risarcimento del danno.

Ricapitolando, la differenza fondamentale tra le due visioni è insita quindi nel diverso modo di intendere quel “paga”. Infatti, la prima interpretazione impone un “pagare” preventivo, che per un’impresa comporta l’adozione di tutte le tecnologie necessarie ed idonee in grado di evitare una situazione negativa per l’ambiente, la seconda prevede un “pagare” successivo, in base alla responsabilità civile del polluter.

In conclusione, nonostante qualche polemica politica sul ruolo delle tasse ambientali che consentono comunque di inquinare e sulla concessione di incentivi a chi, di fatto, danneggia l’ambiente, e sulle difficoltà di avere un recepimento univoco del principio a livello di legislazione dei vari Stati membri[4], si può concludere sottolineando l’importanza della presenza implicita all’interno del “chi inquina paga” di un altro fondamentale principio, quello di prevenzione.

Il principio dell’azione preventiva, così come scritto al secondo comma dell’articolo 130 R dell’AUE, non viene esplicitamente spiegato dallo stesso, il quale lascia quindi alla dottrina e soprattutto alla giurisprudenza il non semplice compito di definirlo.

L’importanza del ruolo della prevenzione è risultata essere ancor più evidente in seguito all’analisi del principio “chi inquina paga”. Infatti, al fine di evitare di “pagare”, inteso in entrambi i modi (sanzione e responsabilità), è necessario adottare tutte quelle misure necessarie in grado di prevenire (appunto) qualsiasi azione che potrebbe arrecare danno all’ambiente. Sostanzialmente, tutti quegli interventi messi in atto dalle imprese per migliorare la tecnologia dei macchinari, piuttosto che cambiare abitualmente i filtri o i depuratori degli scarichi devono essere assolutamente ritenute come significative azioni di prevenzione. Analogamente, anche la determinazione di precisi standard e l’imposizione di certi limiti di accettabilità entro cui stare costituiscono ulteriori forme di protezione preventiva nei confronti dell’ambiente.

Una prevenzione quindi sia “positiva”, quando cioè si interviene adottando reali misure in grado di ridurre il rischio che si verifichi un pregiudizio verso l’ambiente, sia negativa, ossia nei casi in cui vengono vietati alcuni comportamenti in grado di mettere seriamente a repentaglio i beni da tutelare.

Uno dei procedimenti più significativi che si pone l’obiettivo di prevenire ogni tipo di effetto negativo contro i valori  ambientali è la Valutazione d’Impatto Ambientale (V.I.A.).

Si tratta di una procedura amministrativa che viene messa in atto con l’unico scopo di valutare ex ante l’impatto ambientale di un determinato progetto o di una ben precisa opera, evitando così in anticipo che la realizzazione della stessa possa successivamente causare un danno ambientale. Prima ancora che venga iniziata una certa struttura (non tutte le opere sono obbligatoriamente sottoposte a V.I.A.), si interviene per verificare che ciò che si andrà a costruire non sia in grado di compromettere effettivamente l’ambiente. Appare superfluo sottolineare che qualora il responso della V.I.A. fosse negativo, l’opera morirebbe ancora prima di nascere. D’altronde sarebbe scellerato consentire la costruzione di un’industria che “distribuisse” generosamente nell’acqua “ salutari metalli “ come il mercurio o il piombo.

Risulta invece più plausibile la ricerca di un compromesso per giungere a costruire comunque l’opera, accogliendo i “rilievi” della V.I.A. e modificando il progetto iniziale in modo tale da eliminare ciò che avrebbe potuto comportare effetti dannosi.

Attraverso questo tipo di azione, previsto dalla direttiva CE/337/85, è così possibile eliminare sul nascere, anzi in “fase di concepimento”, un possibile danno che in seguito potrebbe non solo essere particolarmente dispendioso estinguere, ma peggio ancora, non più riparabile.

Concludendo, visto che nessuna precisa definizione è stata assegnata all’appena esposto principio di prevenzione, anche il legislatore statale, e non solo quindi le varie Corti dei Paesi membri (compresa quella di Giustizia dell’Unione Europea), ha avuto la possibilità di effettuare interventi per meglio delineare la disciplina, contribuendo così ad assegnare a determinati provvedimenti normativi l’effettivo potere di applicazione del principio.

Accanto al principio di prevenzione si pone il principio  di precauzione.

Diversamente dai precedenti, questo principio è stato introdotto solamente nel 1992 con il Trattato di Maastricht[5] e più precisamente dall’oramai noto articolo 130 R.

Una sua definizione, assente nel Trattato, ha provato a fornirla la Dichiarazione di Rio, sempre del 1992, in seguito all’Earth Summit tenutosi proprio nella città brasiliana. “In order to protect the environment, the precautionary approach shall be widely applied by States according to their capabilities. Where there are threats of serious or irreversible damage, lack of full scientific certainty shall not be used as a reason for postponing cost-effective measures to prevent environmental degradation”[6]. In altre parole gli Stati, in base alle loro capacità, dovrebbero applicare un approccio cautelativo finalizzato a proteggere l’ambiente. L’incertezza scientifica mai deve essere una scusante per non intervenire, qualora ci sia il rischio di un danno grave o irreversibile.

Anche in questo caso, come per il principio preventivo, è necessario adottare tutti quei comportamenti e quelle azioni in grado di evitare anticipatamente il verificarsi di un danno. La dottrina si è poi divisa sull’interpretazione del precautionary approach: ovvero l’adozione di misure cautelative oppure come divieto di realizzazione di attività suscettibili di provocare effetti negativi? Stesse divisioni anche sulla definizione del rischio/pericolo: da valutare in base ai timori, alle emozioni soggettive della popolazione o in maniera oggettiva secondo puntuali criteri scientifici?

Interpretazioni della dottrina a parte, questo principio trova la sua più naturale applicazione nel momento in cui esista un probabile rischio che si verifichi un pregiudizio (pericolo)  contro l’ambiente o anche contro la salute dell’uomo.

Assume rilevanza in quanto la certezza scientifica non costituisce la discriminante essenziale per poter agire, pertanto, anche qualora mancasse il nesso causale tra un’azione ed il possibile danno futuro, non si può restare inerti.

La novità più importante è proprio il superamento del noto rapporto eziologico tra la causa e l’effetto, che viene invece invertito, poiché spetta ora all’operatore dimostrare che la sua azione non avrà la possibilità di causare un effetto negativo.

Uno strumento in grado di contribuire ad intervenire ex ante per evitare il verificarsi di pericoli per l’ambiente è la Valutazione Ambientale Strategica (V.A.S.).

“La VAS è un processo finalizzato ad integrare considerazioni di natura ambientale nei piani e nei programmi, per migliorare la qualità decisionale complessiva. In particolare l’obiettivo principale della VAS è valutare gli effetti ambientali dei piani o dei programmi, prima della loro approvazione (ex-ante), durante ed al termine del loro periodo di validità (in-itinere, ex-post). Ciò serve soprattutto a sopperire alle mancanze di altre procedure parziali di valutazione ambientale, introducendo l’esame degli aspetti ambientali già nella fase strategica. Altri obiettivi della VAS riguardano sia il miglioramento dell’informazione della gente sia la promozione della partecipazione pubblica nei processi di pianificazione-programmazione”[7]. Questo processo, che si applica a quei piani nonché a quei programmi che riguardano l’ambiente, ha lo scopo di valutarne gli effetti. A differenza della V.I.A., che è “semplicemente” una procedura amministrativa preventiva specifica, la V.A.S. estende il suo raggio d’intervento alla generalità delle azioni programmatiche ambientali, non limitandosi così alle singole opere in via d’esecuzione. Sebbene non escluda la VIA, anzi la integra, la VAS non si ferma quindi al solo controllo preventivo, ma attua un continuo monitoraggio che rende sicuramente più efficace la sua azione precauzionale; d’altronde, essendo i piani o i programmi rivolti al futuro, l’attenzione deve essere sempre mantenuta costante.

Concludendo, si è potuto notare come, nel complesso, questo principio non si differenzi molto da quello dell’azione preventiva, anzi sotto certi aspetti lo richiama esplicitamente. Questa “sovrapposizione” è un ulteriore indizio che permette di comprendere come tutti i principi finora esposti e quelli che verranno successivamente analizzati siano tra loro complementari e che, al fine di perseguire il non facile obiettivo di salvaguardare l’ambiente, devono essere applicati tutti insieme in armonia tra loro.

A conferma di quanto appena detto interviene altro principio previsto dall’art. 130 R dell’Atto Unico Europeo ora 191 TFUE: la correzione, alla fonte, dei danni causati all’ambiente.

Questo precetto comunitario, a differenza dei precedenti, è di più facile lettura; infatti non consente particolari interpretazioni se non quella che dispone la riparazione del danno causato all’ambiente direttamente alla fonte. L’operatore che si rende quindi responsabile di azioni dannose nei confronti dell’ambiente dovrà provvedere a correggerle, in modo tale che l’effetto negativo non si espanda ulteriormente e crei ulteriori danni. Gli interventi necessari alla realizzazione di tale scopo possono essere la bonifica, il ripristino e tutti quegli atti in grado di eliminare il danno sopraggiunto. La rimozione di quest’ultimo dovrà però essere effettuata innanzitutto alla fonte, in modo tale da cancellare il pregiudizio in maniera definitiva intervenendo esattamente alla sua origine.

Il significato di questo principio e risulta evidente come esso sia consequenziale al mancato rispetto dei principi di prevenzione e precauzione e come di fatto, così facendo, attui “il chi inquina paga”, poiché il polluter sarà costretto a sborsare denaro per la riparazione del danno.

Un altro fondamentale principio, forse il più significativo di tutti quelli finora analizzati, è quello che prende il nome di integrazione. Questa parola non figura in maniera esplicita, almeno inizialmente, all’interno del secondo comma del più vote citato “articolo dei principi”, ma è evidentemente presumibile dalle seguenti parole: “le esigenze connesse con la salvaguardia dell’ambiente costituiscono una componente delle altre politiche della Comunità”[8].

Questo significa che ogni politica comunitaria dovrà essere “influenzata” da esigenze legate alla tutela ambientale ovvero dallo sviluppo sostenibile.

In altre parole, la Comunità dovrà prevedere all’interno delle varie politiche da essa trattate, a cominciare da quelle economiche, delle misure che contribuiscano fattivamente a salvaguardare il bene ambiente.

Un disposto chiaro e senza fronzoli, ma troppo vago. Per questo motivo nel Trattato successivo a quello del 1986, il concetto viene ampliato e di conseguenza meglio specificato.

Le medesime esigenze di cui sopra “devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle altre politiche comunitarie”[9].

Il Trattato di Amsterdam colloca il sopracitato disposto non più all’interno dell’articolo 174 (ex 130 R) ma all’articolo 6, nella Prima Parte, quella dedicata ai Principi dell’Unione (non quelli ambientali finora esposti), attribuendogli così una valenza ed una dignità nettamente superiore rispetto a quella assunta prima del 1997.

Il rafforzamento del precetto ambientale non è però solo formale, legato al “cambio di posizione”, ma risulta essere anche sostanziale, in quanto viene nuovamente modificato.

Il nuovo principio d’integrazione è quindi così enunciato: “le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni comunitarie di cui all’articolo 3, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile”[10].

La norma appare significativa per l’estensione anche alle azioni e non solo alle politiche dell’Unione, cosa che amplia ulteriormente il campo d’intervento della tutela ambientale. Inoltre è implicito il riferimento alla prevenzione: tutte le azioni e le politiche comunitarie, come visto, devono contemplare misure idonee alla salvaguardia dell’ambiente; pertanto il legislatore comunitario, intervenendo in tutti i settori da lui disciplinati, con l’obiettivo di disporre determinate condotte atte a mettere in campo tutto ciò che è necessario per proteggere l’ambiente, eseguirà inevitabilmente anche un’ottima opera di prevenzione.

L’art. 6, oltre a quanto detto, prevede, nelle sue ultime parole, che il principio d’integrazione debba essere finalizzato alla promozione dello sviluppo sostenibile.

Ma cosa significa sviluppo sostenibile? Ancora una volta l’Unione Europea non fornisce una definizione precisa di questo importante disposto, che rimane così troppo vago e indeterminato per poter conoscere effettivamente cosa si dovrebbe fare per perseguirlo[11].

Appare utile richiamare il Rapporto Bruntland del 1987, un documento redatto dalla  Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo che definisce sostenibile “uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni”[12].

Un principio che sembra però non possedere un’impostazione giuridica, ma solo un carattere etico che conduce a spingere, ma non obbligare l’uomo a comportarsi in un determinato modo. Gli interventi  alla Conferenza di Copenhagen nel 2009 di alcuni Paesi in via di sviluppo  hanno posto in luce l’esigenza di questi paesi di crescere e quindi paradossalmente di inquinare tanto quanto fatto fino a quel momento dagli altri Paesi più industrializzati.

Ora, prevenire un danno all’ambiente, mettere in atto tutte le azioni precauzionali possibili, prevedere una responsabilità civile, correggere un effetto dannoso, non solo costituiscono quei comportamenti necessari per la piena realizzazione di uno sviluppo sostenibile.

Infine, l’Unione Europea contempla anche altri tipi di principi, forse meno conosciuti dei precedenti, ma comunque utili agli obiettivi di salvaguardare l’ambiente.

Uno di questi è quello denominato della “ancora maggiore protezione”.

L’ultimo articolo del Titolo VII dedicato all’ambiente afferma infatti che “i provvedimenti di protezione adottati in comune in virtù dell’articolo 130 S non impediscono ai singoli Stati membri di mantenere e di prendere provvedimenti, compatibili con il presente trattato, per una protezione ancora maggiore”[13].

Ciò significa che ogni singolo Stato membro può intraprendere iniziative a favore dell’ambiente volte ad assicurargli una protezione superiore purché queste non siano in contrasto con i principi del Trattato. Il rispetto de  Tratatto è l’unica limitazione, poiché prevede che non sarà possibile, per i paesi europei, adottare misure che proteggano l’ambiente ma che nello stesso tempo violino per esempio la concorrenza o altri principi fondamentali dell’Unione. Inoltre queste azioni ulteriormente protettive dovranno essere realmente necessarie, cioè si dovrà dimostrare che siano effettivamente efficaci anche perché la loro attuazione in alcuni Stati piuttosto che in altri, andrebbe a minare il processo di armonizzazione comunitario.

Altro principio è quello dell’elevato livello di protezione. Previsto sin dall’Atto Unico Europeo, il precetto ha subito nel corso del tempo, una positiva evoluzione che lo ha portato a figurare attualmente tra i principi fondamentali dell’Unione (art. 2 del Trattato di Amsterdam)[14]. Esso è presente, all’interno del medesimo Trattato, anche nell’art.95 (che si pone l’obiettivo di ravvicinare le legislazioni statali), dove si prevede che le proposte della Commissione in materia di protezione ambientale (e non solo) si basino su un elevato livello di protezione, tenendo conto anche di eventuali sviluppi scientifici. (art. 174 (ex 130 R) [15].

 

[1] l’Atto Unico Europeo del 1986 non introduce solamente i principi enunciati nel secondo comma dell’articolo 130 R, ma dispone al primo comma dello stesso che l’azione della Comunità nel settore “ambiente” si pone l’obiettivo di “salvaguardare, proteggere e migliorare la qualità dell’ambiente; di contribuire alla protezione della salute umana; di garantire un’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali”.

[2]              In realtà gli incentivi erano stati inizialmente considerati come aiuti di Stato e pertanto vietati dall’allora Comunità Europea in quanto andavano ad incidere sulla tutela della concorrenza. La prassi ha però poi voluto che questi interventi statali fossero ritenuti ammissibili, pertanto sono attualmente corrisposti senza problemi.

[3]              Di Plinio, Giampiero e Fimiani, Pasquale, Principi di diritto ambientale, Giuffrè Editore, seconda edizione, Milano, 2008, pag. 50.

[4]              la polemica sulle tasse concerne il fatto che per qualcuno è assurdo che un’azienda possa inquinare liberamente dietro il pagamento di un corrispettivo in denaro: sostanzialmente uno paga per poter essere legittimato ad inquinare, come nel caso dell’ecopass, pertanto la facoltà di inquinare è direttamente proporzionale al reddito: più sono ricco più posso pagare per inquinare. La polemica sui contributi potrebbe essere sintetizzata dalla seguente frase: “oltre al danno la beffa”, poiché alle industrie che inquinano vengono concessi degli incentivi in denaro, in altre parole le pagano per inquinare. In realtà nel primo caso vengono previste delle tasse, come l’ecopass, per cercare di avere delle risorse economiche da spendere per ridurre l’inquinamento che sarebbe comunque provocato dalla circolazione delle automobili, oltre a figurare come disincentivo per l’inquinatore; nel secondo i contributi servono per consentire a certe industrie di adottare determinati provvedimenti/interventi atti a ridurre l’impatto sull’ambiente, il quale non trarrebbe questo comunque non assoluto beneficio qualora gli impianti di queste industrie restassero obsoleti. Infine la questione della disomogeneità delle legislazioni degli Stati membri circa la materia ambientale è ben rappresentata dalla disciplina della responsabilità, soggettiva (dolo o colpa) in Italia con la 349, mentre oggettiva in altri paesi europei. È evidente che con il tipo oggettivo di responsabilità il principio del “chi inquina paga” sarebbe di gran lunga più efficace per la tutela dell’ambiente, poiché in qualsiasi caso il polluter verrebbe considerato responsabile per ogni sua azione dannosa, senza dover provare il dolo o la colpa.

[5]              Il Trattato di Maastricht oltre ad introdurre il principio di precauzione, non presente nell’AUE, aggiunge al primo comma di quello che diverrà l’art. 174 un ulteriore obiettivo che la Comunità Europea dovrà contribuire a perseguire: “la promozione sul piano internazionale di misure destinate a risolvere i problemi dell’ambiente a livello regionale o mondiale”.

[6]              Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo del 1992, principio 15.

[7]              Fonte: www.wikipedia.org

[8]              Atto Unico Europeo, art. 130 R, comma 2.

[9]              Trattato di Maastricht, art. 130 R, comma 2.

[10]             Trattato di Amsterdam, art. 6.

[11]             L’Unione Europea introduce il principio dello sviluppo sostenibile non solo nel preambolo e all’art. 6 del Trattato di Amsterdam, come visto nell’esposizione del principio di integrazione, ma anche all’art. 2 dello stesso. Si prevede infatti che “la Comunità ha il compito di promuovere […] uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile […]” anche se circoscritto alle attività economiche. Leggermente diverso, sotto il profilo formale, ma comunque inequivocabile il riferimento alla “crescita sostenibile, non inflazionistica e che rispetti l’ambiente”, previsto all’interno dello stesso articolo ma nel Tratto di Maastricht.

[12]             Rapporto Bruntland della Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo.

[13]             Atto Unico Europeo, art. 130 T.

[14]             “La Comunità ha il compito di promuovere […]un elevato livello di protezione dell’ambiente ed il miglioramento della qualità di quest’ultimo”.

[15]             “La politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità”. Trattato di Amsterdam, art. 174, comma 2.

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