CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^ 28/07/2016 (ud. 08/03/2016) Sentenza n.33043 – BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Beni sottoposti a vincolo paesaggistico – Immobili o aree o intere zone – Nozione di immobili e zone vincolate – Artt. 3, 32 e 44, lett. e), d.P.R. n.380/2001 – Artt. 136, 138, 141, 142 e 181, c.1 bis, d.lgs. n.42/2004.
La nozione di “immobile” sottoposto a vincolo ai sensi del d.lgs. 42 del 2004, è un concetto normativo, per la cui integrazione l’art. 3 T.U.E. rinvia espressamente alle norme in materia ambientale, dalle quali si evince che i beni sottoposti a vincolo paesaggistico possono essere immobili o aree, o intere zone. Ed è la stessa natura di alcuni vincoli (ambientale, idrogeologico, archeologico, ecc.) richiamati dall’art. 3 cit. a riguardare esclusivamente le “zone”, e non singoli ‘edifici’; anche perché l’accezione restrittiva alla quale la tesi del ricorrente, sostenuta da una isolata dottrina, vorrebbe accedere per affermare la natura di mera ristrutturazione dell’intervento prescinde dalla considerazione che anche il termine adoperato dal legislatore – “immobile” – non coincide con il singolo edificio, ma comprende, da un punto di vista lessicale e da un punto di vista normativo, anche le aree, i terreni, ed ogni cosa stabile suscettibile di antropizzazione. Il termine adoperato dal legislatore, dunque, oltre a rinviare al concetto di “immobile vincolato” rilevante ai sensi del d.lgs. 42 del 2004, non appare tanto un’imprecisione linguistica, integrando, invece, una metonimia, con estensione semantica del suo significato usuale ad un altro che abbia una relazione di contiguità o di dipendenza: nel caso di specie, l’ “immobile” vincolato sta ad indicare la “zona” vincolata sulla quale l’immobile (edificio, area, terreno, ecc.) insiste.
Altre massime della stessa sentenza qui Giurisprudenza sui BENI CULTURALI ED AMBIENTALI
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^ 28/07/2016 (ud. 08/03/2016) Sentenza n.33043
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
omissis
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Alimonda Antonio Sebastiano, nato a Nuoro il 06/07 /1954
Masala Andrea, nato a Cagliari il 25/05/1967
Grosso Raffaele, nato a Carloforte il 04/04/1964
avverso la sentenza del 28/05/2014 della Corte di Appello di Cagliari visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Giuseppe Riccardi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Stefano Tacci, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
uditi i difensori, Avv. Salvatore Casula (per Grosso Raffaele), Avv. Cesare Rombi (per Grosso Raffaele, Masala Andrea e Alimonda Antonio Sebastiano), e Avv. Alessandro Dedoni (per Masala Andrea), che hanno chiesto l’accoglimento dei ricorsi e l’annullamento della sentenza.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 18/01/2013 il Tribunale di Cagliari condannava gli odierni ricorrenti alle pene rispettivamente ritenute di giustizia, in ordine ai reati di cui agli artt. 44, lett. e), d.P.R. 380 del 2001 (capo A) e 181, comma 1 bis, d.lgs. 42 del 2004 (capo B), per avere realizzato in zona vincolata, in difformità dal progetto edilizio e dalle autorizzazioni paesaggistiche, opere edili abusive, consistenti in un aumento dell’altezza della gronda, un aumento di volumetria mediante realizzazione di un sottotetto, di un bagno, di una loggia, e di una cisterna; condannava, inoltre, Masala e Grosso, rispettivamente responsabile area tecnica e responsabile del procedimento, per il reato di abuso d’ufficio (capo C), in relazione al rilascio delle concessioni per ristrutturazione edilizia, con aumento di volumetria, alterazione dello stato dei luoghi e del profilo esteriore, nonostante nell’area fossero assentibili solo interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, senza aumento di volumetria e alterazione dei luoghi e della sagoma.
Con sentenza del 28/05/2014 la Corte di Appello di Cagliari, in parziale riforma della sentenza di 1° grado, assolveva gli imputati dai reati di cui ai capi A e B, limitatamente alla cisterna, Masala e Grosso dai reati loro ascritti, limitatamente al rilascio dei titoli abilitativi del 2008, e, relativamente al capo A, pronunciava declaratoria di estinzione per prescrizione; confermava nel resto la sentenza, riducendo la pena inflitta a Masala e Grosso.
2. Avverso tale provvedimento ricorre Alimonda Antonio Sebastiano, chiedendo l’annullamento della sentenza.
2.1. Con un primo motivo, deduce la violazione di legge sostanziale e il vizio di motivazione in ordine all’art. 44 d.P.R. 380 del 2001: proponendo una rivalutazione del compendio probatorio, nega di aver realizzato l’aumento della gronda di 20 cm., l’aumento di volumetria con il sottotetto, che è solo un vano tecnico, il bagno di 6 mq., che, dopo l’approvazione della seconda concessione in variante, non è stato più realizzato, e la loggia, contestando, altresì, la tesi, sostenuta nella sentenza impugnata, che l’intervento costituisse una nuova costruzione, e non già una ristrutturazione.
2.2. Con un secondo motivo, deduce la violazione di legge sostanziale e il vizio di motivazione in ordine all’art. 181, comma 1 bis, d.lgs. 42 del 2004: la Soprintendenza ha ritenuto paesaggisticamente compatibili gli interventi, e comunque non sussiste danno al bene tutelato.
2.3. Con un terzo motivo deduce la mancanza di motivazione in ordine alla omessa diminuzione di pena che avrebbe dovuto conseguire all’assoluzione dai capi A e B, limitatamente alla realizzazione della cisterna.
3. Ricorre per cassazione Grosso Raffaele, chiedendo l’annullamento della sentenza per vizio di motivazione e violazione di legge, in relazione all’art. 323 cod. pen..
Con un primo motivo lamenta che le opere assentite con la seconda concessione, del 2008, erano legittime, ed il ricorrente è stato assolto; in tal senso, non sussiste l’abuso d’ufficio relativo al rilascio del provvedimento.
Con un secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione, in ordine all’affermazione del dolo del reato di abuso d’ufficio, che andrebbe invece escluso alla luce della nota del 21/03/2014 del Ministero dei Beni culturali.
Con un terzo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione, in ordine all’affermazione del concorso di persone nel reato del geom. Grosso sulla base della sottoscrizione dell’autorizzazione paesaggistica e della concessione edilizia, lamentando che non sia stato evidenziato il contributo causale alla realizzazione dell’illecito.
4. Con distinto ricorso Masala Andrea chiede l’annullamento della sentenza deducendo la violazione di legge ed il vizio di motivazione.
Lamenta che le opere assentite con la seconda concessione, del 2008, erano legittime, ed il ricorrente è stato assolto; in tal senso, non sussiste l’abuso d’ufficio relativo al rilascio del provvedimento.
Con un secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione, in ordine all’affermazione del dolo del reato di abuso d’ufficio, che andrebbe invece escluso alla luce della nota del 21/03/2014 del Ministero Beni culturali.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso di Alimonda Antonio Sebastiano, progettista e direttore dei lavori, è inammissibile.
1.1. Il primo motivo è generico, in quanto ripropone le medesime censure già sollevate con l’atto di appello; al riguardo, va ribadito che deve ritenersi inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l’appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l’insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico determinato (ex multis, Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014, Cariolo, Rv. 260608).
Invero, nel caso in esame i motivi di ricorso appaiono identici a quelli sollevati con l’appello, e motivatamente respinti dalla sentenza impugnata, con la quale non propongono un reale e motivato confronto argomentativo, limitandosi a contestazioni avulse dal concreto tessuto motivazionale, e ad una mera lettura alternativa delle risultanze processuali.
Peraltro, l’inammissibilità del motivo si appunta altresì sulla sostanziale richiesta di rivalutazione del compendio probatorio, come si evince dai diffusi richiami alle deposizioni testimoniali (Mereu Gianluca, Masnata Francesca Maria, Pinna Gianluca, Parodo Francesco, Aste Maurizio, Pomata Salvatore) ed alle consulenze tecniche, già oggetto di espressa valutazione da parte della sentenza impugnata.
Giova al riguardo rammentare che il sindacato di legittimità è circoscritto alla verifica sulla completezza e sulla correttezza della motivazione di una sentenza, e non può esondare dai limiti cognitivi sanciti dagli artt. 606 e 609 cod. proc. pen. mediante una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella fornita dal giudice di merito; le valutazioni espresse dalla sentenza impugnata, se coerenti, sul piano logico, con una esauriente analisi delle risultanze probatorie acquisite, si sottraggono al sindacato di legittimità, una volta accertato che il processo formativo del libero convincimento del giudice non ha subìto il condizionamento di una riduttiva indagine conoscitiva o gli effetti altrettanto negativi di un’imprecisa ricostruzione del contenuto di una prova (Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995, Fachini, Rv. 203767).
Ed anche la novella codicistica, introdotta con la L. n. 46 del 2006, che ha riconosciuto la possibilità di deduzione del vizio di motivazione anche con il riferimento ad atti processuali specificamente indicati nei motivi di impugnazione, non ha mutato la natura del giudizio di cassazione, che rimane pur sempre un giudizio di legittimità, sicchè gli atti eventualmente indicati devono contenere elementi processualmente acquisiti, di natura certa ed obiettivamente incontrovertibili, che possano essere considerati decisivi in rapporto esclusivo alla motivazione del provvedimento impugnato e nell’ambito di una valutazione unitaria, e devono pertanto essere tali da inficiare la struttura logica del provvedimento stesso (ex multis, Sez. 2, Sentenza n. 7380 del 11/01/2007, Messina, Rv. 235716, che ha altresì precisato che resta esclusa la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o attendibilità delle fonti di prova).
Pertanto, l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dal testo della sentenza o da altri atti specificamente indicati, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794).
Ebbene, esclusa l’ammissibilità di una rivalutazione del compendio probatorio, va ribadito che la sentenza impugnata ha fornito logica e coerente motivazione in ordine alla ricostruzione dei fatti, ed alla qualificazione giuridica degli stessi, con argomentazioni prive di illogicità (tantomeno manifeste) e di contraddittorietà.
Al riguardo, va infatti evidenziato che la Corte territoriale, a prescindere dalla realizzazione della cisterna, che ha ritenuto assentita con l’autorizzazione n. 290/2006, ha accertato che le opere oggetto di richiesta di permesso di costruire consistevano in una ristrutturazione con demolizione e ricostruzione di un precedente manufatto in zona agricola e paesaggisticamente vincolata; tuttavia, ad integrare le macroscopiche violazioni che, oltre ad fondare la tipicità dei reati edilizi e paesaggistici contestati, indiziano il reato di abuso d’ufficio – contestato a Masala e Grosso -, vi è la circostanza assorbente – ed omessa in tutti i ricorsi – che la committente non era un imprenditore agricolo, e non aveva, dunque, alcun titolo per beneficiare di una concessione per nuova costruzione (p. 17 e 18 della sentenza impugnata), e che le opere avevano determinato un aumento di volumetria (mediante realizzazione di un bagno di 6 mq. ed avanzamento di una parete, nonché di un vano sottotetto abitabile, munito di finestra e di scala interna di accesso) ed una differenza di sagoma (mediante trasformazione del tetto da due falde ad una sola falda, ed avanzamento della parete per la costruzione del bagno).
In particolare, la sentenza impugnata, all’esito di una diffusa (e condivisibile) valutazione dei progetti e delle opere realizzate, comunque insuscettibile di sindacato in sede di legittimità, ha affermato che il progetto redatto da Alimonda, ed assentite dai due tecnici del Comune di Carloforte, riguardava non già un intervento di semplice ristrutturazione, “come contrabbandato” nel progetto e nella concessione, bensì un intervento di nuova costruzione.
Come già osservato nella sentenza impugnata (p. 19), infatti, non rileva la modifica, invocata dal ricorrente, introdotta dall’art. 30, comma 1, lett. c), L. 98 del 2013 alla nozione di “interventi di ristrutturazione edilizia” definiti dall’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 380 del 2001, che ha escluso la necessità di mantenere identica la sagoma.
Invero, oltre a rivelarsi irrilevante, in quanto è stato accertato anche un aumento di volumetria, che connotava l’intervento in termini di “nuova costruzione”, in ogni caso è proprio lo stesso art. 3 T.U.E. a precisare che “Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successivemodificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell’edificio preesistente”.
Nelle zone paesaggisticamente vincolate, dunque, anche la modifica della sagoma assume rilievo ai fini dell’integrazione dell’intervento di “nuova costruzione”, con il relativo regime assentivo.
Al riguardo, va altresì evidenziato che il ricorrente ha sostenuto che la deroga espressamente prevista dalla seconda parte dell’art. 3 cit. si riferisce soltanto agli “immobili” sottoposti a vincoli, mentre, nel caso in esame, il vincolo riguarda una “zona”.
L’argomento richiama, in realtà, il dibattito che, in dottrina, si è sviluppato sulla non coincidenza tra l’art. 44, lett. e), T.U.E., che parla di “interventi edilizi nelle zone sottoposte a vincolo ( … )”, e l’art. 32, comma 3, T.U.E., che, nel disciplinare le variazioni essenziali, equipara, ai fini sanzionatori, gli interventi effettuati “su immobili sottoposti a vincolo ( … )”, ritenuti sempre in totale difformità o in variazione essenziale.
Tuttavia, a prescindere da una isolata dottrina, anche in giurisprudenza si è sostenuto che “ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 32, comma 3 – per gli interventi eseguiti in zone assoggettate a vincolo paesaggistico, nel caso in cui l’opera sia difforme da quella autorizzata con il permesso di costruire, non c’è spazio per l’applicazione della meno grave fattispecie di cui all’art. 44 cit., lett. a), poiché ogni difformità dal progetto, anche se di minima rilevanza, costituisce abuso punito ai sensi dell’art. 44, lett. e), dello stesso T.U.” (Sez. 3, n. 16392 del 17/02/2010, Santonicola, non massimata).
Con riferimento specifico alla norma derogatoria di cui all’art. 3 T.U.E., peraltro, va osservato che, a differenza dell’art. 32, comma 3, che comunque elenca analiticamente vincoli che possono riguardare anche soltanto “immobili” – come nel caso del vincolo architettonico, o degli immobili “ricadenti sui parchi o in aree protette” -, l’art. 3 sancisce una disciplina derogatoria con un richiamo per relationem ai vincoli previsti dal d.lgs. 42 del 2004.
Al riguardo, va innanzitutto evidenziato che l’art. 134 del d.lgs. 42/2004 definisce quali “beni paesaggistici: a) gli immobili e le aree ((di cui)) all’articolo 136, individuati ai sensi degli articoli da 138 a 141; b) le aree ((di cui)) all’articolo 142”.
Ebbene, l’art. 136 prevede, tra gli immobili e le aree vincolate, “le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale”; “le ville, i giardini e i parchi ( … ) che si distinguono per la loro non comune bellezza”, “i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale”, “le bellezze panoramiche ( … ) e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze”.
L’art. 142, inoltre, individua, tra le aree sottoposte a vincolo, “i territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia”, “i territori contermini ai laghi compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia”, “i fiumi, i torrenti, i corsi d’acqua iscritti negli elenchi”, “le montagne per la parte eccedente 1.600 metri sul livello del mare per la catena alpina e 1.200 metri sul livello del mare per la catena appenninica e per le isole”, “i ghiacciai e i circhi glaciali”, “i parchi e le riserve nazionali o regionali, nonchè i territori di protezione esterna dei parchi”, “i territori coperti da foreste e da boschi”, “le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici”, “le zone umide incluse nell’elenco”, “i vulcani”, “le zone di interesse archeologico”.
La nozione di “immobile” sottoposto a vincolo ai sensi del d.lgs. 42 del 2004, dunque, è un concetto normativo, per la cui integrazione l‘art. 3 T.U.E. rinvia espressamente alle norme in materia ambientale, appena richiamate; dalle quali si evince che i beni sottoposti a vincolo paesaggistico possono essere immobili o aree, o intere zone.
Ed è la stessa natura di alcuni vincoli (ambientale, idrogeologico, archeologico, ecc.) richiamati dall’art. 3 cit. a riguardare esclusivamente le “zone”, e non singoli ‘edifici’; anche perché l’accezione restrittiva alla quale la tesi del ricorrente, sostenuta da una isolata dottrina, vorrebbe accedere per affermare la natura di mera ristrutturazione dell’intervento prescinde dalla considerazione che anche il termine adoperato dal legislatore – “immobile” – non coincide con il singolo edificio, ma comprende, da un punto di vista lessicale e da un punto di vista normativo, anche le aree, i terreni, ed ogni cosa stabile suscettibile di antropizzazione.
Il termine adoperato dal legislatore, dunque, oltre a rinviare al concetto di “immobile vincolato” rilevante ai sensi del d.lgs. 42 del 2004, non appare tanto un’imprecisione linguistica, integrando, invece, una metonimia, con estensione semantica del suo significato usuale ad un altro che abbia una relazione di contiguità o di dipendenza: nel caso di specie, l’ “immobile” vincolato sta ad indicare la “zona” vincolata sulla quale l’immobile (edificio, area, terreno, ecc.) insiste.
1.2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
La doglianza, oltre alla già evidenziata rivalutazione del compendio probatorio, si concentra sull’asserita mancanza di un danno al bene ambientale, con riferimento al reato di cui all’art. 181, comma 1 bis, d.lgs. 42 del 2004.
Al riguardo, è sufficiente richiamare la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale “il reato, formale e di pericolo, previsto dall’art. 181 del D.Lgs. n. 42 del 2004, che, indipendentemente dal danno arrecato al paesaggio, sanziona la violazionedel divieto di intervento in determinate zone vincolate senza la preventiva autorizzazione amministrativa, può concorrere con la contravvenzione punita dall’art. 734 cod. pen., la quale, invece, presuppone l’effettivo danneggiamento delle aree sottoposte a protezione” (Sez. 3, n. 37472 del 06/05/2014, Coniglio, Rv. 259942; Sez. 3, n. 14746 del 28/03/2012, Mattera, Rv. 252625).
1.3. Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato, in quanto l’assoluzione ha riguardato non già un titolo di reato, bensì una singola (e peraltro modesta) opera oggetto dei lavori eseguiti abusivamente, per i quali è stata confermata l’affermazione di responsabilità penale e la conseguente condanna alla pena ritenuta di giustizia.
In assenza di contestazione della continuazione, che avrebbe fondato l’ipotesi di una pluralità di reati, e dunque, in caso di assoluzione per uno di essi, la corrispondente ‘scissione’ del vincolo e la riduzione pro quota della pena, l’assoluzione ha riguardato non già un reato-satellite, bensì uno degli oggetti materiali del reato.
Deve pertanto ritenersi immune da censure la lamentata omessa riduzione della pena.
2. I ricorsi di Grosso Raffaele e Masala Andrea, rispettivamente responsabile del procedimento e responsabile dell’area tecnica del Comune di Carloforte, che vanno valutati congiuntamente, proponendo le medesime censure, sono inammissibili.
2.1. Il primo motivo di ricorso, proposto da entrambi i ricorrenti in termini identici, seppur con diversa impaginazione, è inammissibile per difetto di specificità.
Non è dato, infatti, comprendere l’oggetto specifico delle censure proposte ed i motivi posti a fondamento delle stesse, che si limitano ad una critica – invero, piuttosto oscura anche lessicalmente e logicamente – alla decisione della Corte territoriale, della quale vengono richiamati ampi passaggi.
Al riguardo, è stato condivisibilmente affermato che alla Corte di Cassazione non spetta il potere, né il dovere, di ricostruire i possibili significati del motivo di ricorso non sufficientemente chiaro, sicché questo, per assolvere utilmente alla sua funzione limitativa dell’ambito dell’impugnazione, deve essere specifico (Sez. U, n. 11493 del 24/06/1998, Verga, Rv. 211468).
Ebbene, nel caso di specie manca quella specificità del motivo di doglianza che il legislatore del rito penale, in particolare, pretende in ogni ipotesi di impugnazione (art. 581, comma 1, lett. c), cod. proc. pen.).
Infatti, l’art. 581 c.p.p. stabilisce che l’impugnazione si propone con atto scritto nel quale, tra l’altro, sono “enunciati”: “a) i capi e i punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione; b) le richieste; e) i motivi con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta”; sicché un atto privo dei requisiti prescritti, che si limiti ad esprimere la volontà di impugnare senza indicare i capi o i punti cui intende riferirsi, o senza enunciare i motivi di doglianza rispetto alla decisione censurata (e anche in ciò consiste la specificità), non può costituire una valida forma d’impugnazione e, quindi, non può produrre gli effetti introduttivi del giudizio del grado successivo, cui si collega la possibilità di emettere una pronuncia diversa dalla dichiarazione d’inammissibilità (Sez. U, n. 11493 del 24/06/1998, Verga, Rv. 211468).
Del resto, se si ritenesse il contrario, si giungerebbe ad una conclusione assurda, perché si dovrebbe riconoscere ad una generica (ed invalida) dichiarazione d’impugnazione l’effetto di consentire al giudice una cognizione estesa a tutti i capi della sentenza, mentre lo stesso effetto non potrebbe riconoscersi ad una impugnazione proposta validamente, ma con riferimento solo ad alcuni capi della sentenza, dato che per gli altri capi, e i relativi addebiti, la vicenda processuale dovrebbe ritenersi conclusa, come questa Corte ha già evidenziato (Sez. U, n. 21 del 11/11/1994, dep. 1995, Cresci, Rv. 199903, in motivazione).
2.2. Il secondo motivo di ricorso, proposto da entrambi i ricorrenti in termini identici, seppur con diversa impaginazione, è inammissibile in quanto manifestamente infondato.
Se ben si comprende dal tenore, anche’esso non connotato da sufficiente chiarezza, del motivo, ricorrenti censurano che, con riferimento all’affermazione di responsabilità per il reato di abuso d’ufficio, sia stata attribuita rilevanza, nella sentenza impugnata, alla modifica della sagoma conseguente alla realizzazione del bagno e del vano sottotetto, senza considerare che, con la seconda concessione, è stata eliminata la finestra e la scala interna, e che non sussiste il “pericolo di danno quale elemento del reato”; si aggiunge, a sostegno del ricorso, che i due imputati non avrebbero agito con il dolo necessario ad integrare l’abuso d’ufficio, in quanto dalla lettura della nota del 21/03/2014 del Ministero dei Beni Culturali si evincerebbe che la modificazione della falda del tetto in falda unica sarebbe elemento tipico dell’edificato rurale sparso dell’isola di San Pietro, e che non rileva la diversa estensione del sindacato riconosciuto alla Sovrintendenza dopo il 2010, secondo quanto affermato nella sentenza impugnata; i due imputati, dunque, avrebbero rilasciato gli atti assentivi in buona fede, e contando sull’affidamento ingenerato dai pareri della Sovrintendenza; inoltre, la ‘delega paesaggistica’ sarebbe stata comunque esercitata previo parere favorevole della Sovrintendenza.
Anche in tal caso, come già evidenziato infra § 1.1., la doglianza si risolve nella sostanziale richiesta di rivalutazione del compendio probatorio, insuscettibile di sindacato in sede di legittimità, peraltro proponendo questioni di fatto che implicano un confronto tra le opere effettivamente realizzate, quelle progettate ed il contenuto dei titoli abilitativi; questioni risolte, mediante incensurabile apprezzamento di fatto, dalle sentenze di merito, sul punto, peraltro, conformi.
In ogni caso, nel tentativo di enucleare dei profili suscettibili di valutazione da parte di questa Corte, ed al solo fine di appagare la richiesta di controllo di ‘legittimità’ implicita nei ricorsi proposti, va evidenziato innanzitutto che non rileva, ai fini dell’integrazione del reato di abuso d’ufficio (dalla sentenza impugnata accertato con riferimento alla sola concessione rilasciata nel 2006, essendo intervenuta assoluzione con riferimento a quella rilasciata in variante nel 2008), la circostanza che non sia conseguito danno, ovvero che, nel secondo progetto, venne eliminata la finestra e la scala interna al vano sottotetto.
Invero, l’abusività della condotta contestata ai due imputati nel rilascio della prima concessione del 2006 è stata individuata nel rilascio dell’atto in macroscopica violazione delta legislazione regionale vigente (la l.r. sarda 25/11/2004, n. 8, denominata “salva-coste”) e del piano paesaggistico regionale; come si è già evidenziato, ad integrare le macroscopiche violazioni che, oltre ad fondare la tipicità dei reati edilizi e paesaggistici contestati, indiziano il reato di abuso d’ufficio – contestato a Masala e Grosso -, vi è la circostanza assorbente – ed omessa in tutti i ricorsi – che la committente non era un imprenditore agricolo, e non aveva, dunque, alcun titolo per beneficiare di una concessione per nuova costruzione (p. 17 e 18 della sentenza impugnata), e che le opere progettate e assentite determinavano un aumento di volumetria (mediante realizzazione di un bagno di 6 mq. ed avanzamento di una parete, nonché di un vano sottotetto abitabile, munito di finestra e di scala interna di accesso) ed una differenza di sagoma (mediante trasformazione del tetto da due falde ad una sola falda, ed avanzamento della parete per la costruzione del bagno).
In particolare, la sentenza impugnata, all’esito di una diffusa (e condivisibile) valutazione dei progetti e delle opere realizzate, comunque insuscettibile di sindacato in sede di legittimità, ha affermato che il progetto redatto da Alimonda, ed assentito dai due tecnici del Comune di Carloforte, riguardava non già un intervento di semplice ristrutturazione, “come contrabbandato” nel progetto e nella concessione, bensì un intervento di nuova costruzione.
Inoltre, la sentenza impugnata ha rilevato che l’art. 3 l.r. 12/08/1998 n.28 consente il rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche soltanto per gli interventi minori su edifici esistenti, e, quanto alle opere di “nuova costruzione”, soltanto per gli interventi ricadenti nelle zone di completamento “B”; al contrario, per gli interventi di nuova costruzione in zona urbanistica “E”, come quello oggetto di accertamento, il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica non era di competenza dell’ente comunale, bensì della Regione.
Il rilievo, immune da censure, e, del resto, non contestato nella dimensione interpretativa dai ricorrenti, rende del tutto irrilevante l’invocazione della buona fede e dell’affidamento, così come l’allegazione di una nota del Ministero, successiva di otto anni rispetto al rilascio della concessione: l’autorizzazione è stata infatti rilasciata dai due funzionari dell’ente comunale, in totale difetto di competenza.
Inoltre, a connotare il dolo di fattispecie dell’abuso d’ufficio, la sentenza impugnata correttamente osserva che, oltre alle violazioni macroscopiche integrate dal rilascio di una concessione a soggetto privo di titolo (perché non imprenditore agricolo), in relazione ad opere non assentibili (perché comportanti aumento di volumetria e difformità di sagoma), e di una autorizzazione paesaggistica da parte di organo incompetente, l’intenzionalità del dolo dei due funzionari è vieppiù indiziata dal fatto che “si guardarono bene dal richiamare, nell’illegittima autorizzazione paesaggistica rilasciata il 24.2.2006 in vista della concessione edilizia, l’aumento volumetrico relativo al bagno previsto in progetto”, che “avrebbe svelato in modo clamoroso che quell’autorizzazione veniva rilasciata da un’autorità non competente, per giunta in un periodo in cui erano vigenti le rigorosissime norme di salvaguardia introdotte con la già citata L.R. n. 8/2004” (p. 21 della sentenza impugnata); con la conseguenza che la stessa nota del 2014 della Sovrintendenza, invocata ripetutamente dai ricorrenti, “non poteva che prendere atto di un provvedimento che non menzionava un aspetto fondamentale che, anche sul mero piano della legittimità, avrebbe imposto di affermare l’incompetenza del comune al rilascio dell’autorizzazione” (p. 21 della sentenza impugnata).
Al riguardo, è stato sovente ribadito da questa Corte che in tema di abuso d’ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell’atto compiuto, non essendo richiesto l’accertamento dell’accordo collusivo con la persona che si intende favorire, in quanto l’intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa (ex multis, Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta, Rv. 260233; Sez. 3, n. 48475 del 07/11/2013, Scaramazza, Rv. 258290).
La sentenza impugnata, dunque, appare correttamente motivata, e la nota del 2014 allegata dai ricorrenti più che rivelarsi irrilevante, ai fini dell’integrazione del dolo di fattispecie di un reato commesso nel 2006, appare corroborare la valutazione secondo la quale, alla base dell’omessa attivazione dei poteri regionali, vi era in realtà la falsa rappresentazione, per omissione, di un elemento di fatto significativo (l’aumento di volumetria).
2.3. Il terzo motivo di ricorso concernente la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine al contributo concorsuale, proposto dal solo Grosso Raffaele, è manifestamente infondato.
Invero, il ricorrente lamenta che il concorso di persone sia stato affermato soltanto sulla base della sottoscrizione, da parte del geom. Grosso, in qualità di responsabile del procedimento, dell’autorizzazione paesaggistica e della successiva concessione edilizia, e che quest’ultima sia stata sottoscritta anche dal Dirigente responsabile dell’area urbanistica del Comune di Carloforte, Ing. Masala; la condotta del Grosso sarebbe stata dunque ininfluente, in quanto l’efficacia del provvedimento sarebbe connessa alla sottoscrizione del Dirigente.
La sentenza impugnata, tuttavia, lungi dall’omettere la motivazione, espone diffusamente le condotte ascritte, a titolo di abuso d’ufficio, a Grosso Raffaele, evidenziando come questi, in qualità di responsabile del procedimento, avesse firmato l’autorizzazione paesaggistica del 24/02/2006 e la concessione n. 84 del 17/10/2006 (p. 22 della sentenza impugnata).
Non appare enucleabile un margine di motivazione più diffuso o preciso di quello richiamato, atteso che, prescindendo dal profilo della valutazione, che, in mancanza di contraddittorietà o manifesta illogicità, non è sindacabile in sede di legittimità, la sentenza impugnata ha correttamente individuato il contributo concorsuale fornito da Grosso Raffaele, che, nella scansione procedimentale in oggetto, ha rivestito un ruolo giuridico e fattuale significativo, essendo il responsabile dell’istruttoria, ed il sottoscrittore dell’autorizzazione paesaggistica, nonché della concessione (sottoscritta anche dal dirigente Masala).
Al riguardo, è stato affermato che, ai fini della configurabilità del concorso di persone nel reato, il contributo concorsuale acquista rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell’evento illecito, ma anche quando assuma la forma di un contributo agevolatore e di rafforzamento del proposito criminoso già esistente nei concorrenti, in modo da aumentare la possibilità di commissione del reato (Sez. 6, n. 36125 del 13/05/2014, Minardo, Rv. 260235, che ha ritenuto corretto il giudizio di colpevolezza pronunciato nella sentenza impugnata per il reato di abuso di ufficio commesso dal dirigente di un consorzio che aveva espresso un parere facoltativo e non vincolante favorevole all’adozione di un provvedimento illegittimo produttivo di un ingiusto vantaggio ad altri).
Nel caso in esame, il contributo del Grosso, lungi dall’essere ininfluente o di scarsa rilevanza, o comunque di mera agevolazione, è risultato significativo e determinante per la consumazione del reato, in ragione del concreto ruolo svolto e della posizione pubblicistica rivestita nell’ambito del procedimento amministrativo.
3. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali e la corresponsione di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende, somma che si ritiene equo determinare in Euro 1.000,00: infatti, l’art. 616 cod. proc. pen. non distingue tra le varie cause di inammissibilità, con la conseguenza che la condanna al pagamento della sanzione pecuniaria in esso prevista deve essere inflitta sia nel caso di inammissibilità dichiarata ex art. 606 cod. proc. pen., comma 3, sia nelle ipotesi di inammissibilità pronunciata ex art. 591 cod. proc. pen..
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma il 08/03/2016