di Carlo Rapicavoli –
Il quesito che appare sulla scheda referendaria, sul quale saremo chiamati ad esprimere il voto il 4 dicembre, omette ogni riferimento alle modifiche che la riforma introduce sulle garanzie costituzionali e sugli strumenti di partecipazione popolare.
Si tratta probabilmente di aspetti di minore impatto mediatico, quindi da tenere sotto traccia, ma non per questo meno rilevanti nel contesto complessivo della riforma costituzionale.
IL POTERE DI INIZIATIVA LEGISLATIVA POPOLARE
Si passa di cinquantamila a centocinquantamila firme per la presentazione di progetti di legge.
L’art. 71 della Costituzione oggi riconosce il potere di iniziativa legislativa popolare “mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli”.
Il nuovo testo, dopo la riforma, triplica il numero di firme necessarie per presentare progetti di legge popolari, fissandolo in centocinquantamila.
La riformulazione del testo aggiunge che “la discussione e la deliberazione conclusiva sulle proposte di legge d’iniziativa popolare sono garantite nei tempi, nelle forme e nei limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari”.
La modifica rende ulteriormente difficoltosa l’iniziativa legislativa popolare già fortemente, se non totalmente, vanificata già con le previsioni attuali che non tutelano in alcun modo il diritto alla trattazione delle proposte di legge che, nella gran parte dei casi, non hanno mai raggiunto le aule parlamentari, rimanendo bloccate in Commissione.
REFERENDUM ABROGATIVO
Per abbassare il quorum sono richieste ottocentomila (anziché cinquecentomila) firme
Viene mantenuta l’attuale disciplina costituzionale del referendum abrogativo che prevede:
a) Cinquecentomila firme per la richiesta del referendum
b) Quorum del 50% degli aventi diritto al voro per la validità del referendum
La riforma aggiunge una nuova fattispecie: nel caso in cui la proposta di referendum sia avanzata da ottocentomila elettori, il quorum per la validità del referendum è pari alla “maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei deputati”.
E’ chiaro che raggiungere la quota di ottocentomila firme appare sostanzialmente proibitivo.
Viene solo ipotizzata, ma rinviata a successiva legge costituzionale, la possibilità di indire referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali.
ELEZIONE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Dal settimo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti
La Costituzione vigente prevede che il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune integrato da tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze. E’ richiesta, nei primi tre scrutini, la maggioranza dei due terzi (659 voti) e, dal quarto scrutinio, la maggioranza assoluta (495 voti).
Il nuovo testo prevede sempre il Parlamento in seduta comune.
Ma evidentemente non si tratta più delle due Camere elettive, ma della Camera dei Deputati (630 componenti) e del nuovo Senato (100 senatori) eletto dai Consigli Regionali. Non è più prevista l’integrazione con i rappresentanti delle Regioni, visto che sono presenti nel nuovo Senato, e non vi è più, per queste ultime, la garanzia di rappresentanza delle minoranze.
E’ mantenuta, nei primi tre scrutini, la maggioranza dei due terzi (che si riduce a 487 voti); dal quarto al sesto scrutinio è richiesta la maggioranza dei tre quinti (438 voti); dal settimo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti.
E’ dunque legittimata costituzionalmente l’elezione del Presidente della Repubblica senza un numero minimo di votanti (paradossalmente, in caso siano presenti due soli votanti, anche con il voto favorevole di un unico parlamentare) ma, soprattutto, facendo venir meno il ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica, quale espressione di un consenso naturalmente più ampio della maggioranza politica o di governo presente al momento dell’elezione.
Nello spirito della Costituzione vigente, anche la durata del mandato settennale, svincolato dal mandato quinquennale del Parlamento, intendeva segnare il ruolo super partes del Capo dello Stato; la garanzia della maggioranza assoluta dei voti del Parlamento in seduta comune, integrato dai rappresentanti regionali, con presenza delle minoranze, assicurava, all’atto della elezione, il ruolo del Presidente.
Con il nuovo sistema di elezione viene meno tale garanzia.
ELEZIONE DEI GIUDICI DELLA CORTE COSTITUZIONALE
Il testo di riforma prevede che “La Corte costituzionale è composta da quindici giudici, dei quali un terzo nominati dal Presidente della Repubblica, un terzo dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrative, tre dalla Camera dei deputati e due dal Senato della Repubblica”.
Il testo vigente prevede che un terzo (cinque giudici) siano eletti dal Parlamento in seduta comune.
Risulta evidente che le modalità di elezione dei giudici della Corte Costituzionale, massimo organo di garanzia, devono assicurare assoluta imparzialità.
Il nuovo sistema di elezione lascia aperte molte criticità. In un sistema elettorale fortemente maggioritario, quale delineato dalla vigente legge elettorale (cd. Italicum), porta come conseguenza che i tre giudici nominati dalla Camera dei Deputati, potenzialmente, sono espressione della maggioranza politica del momento; il nuovo Senato, per la sua composizione e per la nebulosa modalità di elezione, non può assicurare le garanzie necessarie.
Se si aggiungono le possibili criticità derivanti dall’elezione del Presidente della Repubblica, sopra evidenziate, i meccanismi di garanzia costituzionale, che l’Assemblea Costituente aveva faticosamente ed efficacemente costruito, risultano depotenziati.
Qui non si tratta – va chiarito – di denunziare rischi per la democrazia o di lanciare infondati allarmi.
La Costituzione detta le supreme regole dell’ordinamento che, per natura ed essenza, devono “resistere” ad ogni situazione di potenziale rischio, delineando un sistema comunemente definito di pesi e contrappesi, volto a scongiurare derive autoritarie o di “prepotenza” della maggioranza di turno; si tratta di quelle regole che mettono al riparo le Istituzioni dalle patologie del sistema politico rendendole, il più possibili, immuni dalle situazioni contingenti.
Ebbene, la riforma costituzionale attenua in modo significativo tali garanzie.
RAPPORTI GOVERNO – PARLAMENTO
Il Governo può decidere il calendario dei lavori parlamentari
Da più commentatori viene sottolineato che la riforma costituzionale non incide – non amplia – i poteri del Governo e del Presidente del Consiglio.
Gli stessi rappresentanti del Governo, a sostegno della riforma, insistono ripetutamente su questo tema, quasi a voler prevenire qualunque obiezione di merito.
Se si circoscrive l’ambito di indagine agli articoli da 92 a 96 della Costituzione, dedicati al Consiglio dei Ministri, la precisazione apparirebbe corretta.
E’ comunque evidente che, in coerenza con il superamento del bicameralismo paritario, viene meno il rapporto fiduciario con le due Camere. Il nuovo art. 94 prevede che “il Governo deve avere la fiducia della Camera dei Deputati” e non più delle due Camere come oggi previsto.
Non ci si sofferma in questa sede sul principale oggetto di dibattito delle ultime settimane relativo al “combinato disposto” riforma costituzionale – legge elettorale, che conserva una rilevanza centrale sul futuro del nostro ordinamento e sull’effettiva rappresentanza parlamentare e quindi del Governo.
Ma, si ribadisce spesso, la legge elettorale non è materia costituzionale e non è oggetto del referendum.
Seguendo questa impostazione, non può essere però non rilevato che il ruolo predominante del Governo è definito nello stesso nuovo testo costituzionale, tale da scalfire in profondità il principio di separazione dei poteri chiaramente delineato dall’attuale Costituzione.
Fino ad oggi il Governo ha “abusato” del Parlamento attraverso l’abnorme ricorso alla decretazione d’urgenza, sollevando spesso la censura della Corte Costituzionale.
Il nuovo testo dell’art. 77 sui decreti legge aggiunge in realtà alcune precisazioni tratte dalla giurisprudenza costituzionale consolidata secondo cui il Governo non può:
a) reiterare disposizioni adottate con decreti non convertiti in legge e regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei medesimi;
b) ripristinare l’efficacia di norme di legge o di atti aventi forza di legge che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimi per vizi non attinenti al procedimento;
c) inserire, nel corso i esame, disposizioni estranee all’oggetto o alle finalità del decreto
Ma la più rilevante novità si trova nel nuovo testo dell’art. 72 che attribuisce al Governo un ruolo centrale, legittimato dalla Costituzione, sui lavori parlamentari allorché prevede che “il Governo può chiedere alla Camera dei deputati di deliberare, entro cinque giorni dalla richiesta, che un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia in via definitiva della Camera dei deputati entro il termine di settanta giorni dalla deliberazione”.
La nuova previsione estende, senza limite, il ruolo del Governo nella calendarizzazione dei lavori parlamentari.
E’ sufficiente qualificare il disegno di legge come “essenziale per l’attuazione del programma” per ottenere dalla Camera dei Deputati l’inserimento all’ordine del giorno e la pronuncia definitiva entro settanta giorni.
Chi può ritenere “essenziale” un disegno di legge per l’attuazione del programma se non il Governo stesso?
Trattasi evidentemente di valutazione esclusivamente politica e non giuridica difficilmente sanzionabile anche dalla stessa Corte Costituzionale.
L’effetto combinato della decretazione d’urgenza (da convertire entro sessanta giorni o, novanta giorni nei casi in cui il Presidente della Repubblica abbia chiesto, a norma dell’articolo 74, una nuova deliberazione) e del “procedimento legislativo prioritario” richiesto, senza contraddittorio, dal Governo, determina sostanzialmente il venir meno di ogni ragionevole possibilità di organizzazione autonoma dei lavori parlamentari o di trattazione in tempi ragionevoli delle iniziative legislative parlamentari o di fonte regionale o popolare, sancendo di fatto e di diritto costituzionale la supremazia del Governo.
BREVI CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Pur con riserva di trarre successivamente delle valutazioni complessive sulla riforma, a conclusione della breve trattazione dei vari aspetti del testo, non si può subito non rilevare che anche il sistema di garanzie costituzionali perde il suo equilibrio originario.
Il tema della “modernizzazione” delle Istituzioni, per rendere il Paese al passo con i tempi, di indubbia attualità, sembra cedere il passo alle esigenze contingenti ed alla crisi del sistema politico-partitico, attribuendo alle Istituzioni i difetti e i limiti della classe politica.
Eliminare o comprimere i luoghi della rappresentanza democratica (troppi livelli di governo!), facilitare il raggiungimento di maggioranze parlamentari, anche prive di reale rappresentatività, attenuare i sistemi di garanzia, che, per loro natura, possono “rallentare” i meccanismi decisionali, sembrano essere le ricette per superare la farraginosità delle procedure.
La realtà è ben diversa.
Sempre meno garantita è la partecipazione e l’occasione per concorrere a determinare le politiche del Paese; nessuna riforma è stata mai realizzata per adeguare i partiti al ruolo che la Costituzione attribuisce agli stessi. La mancata attuazione dell’art. 49 della Costituzione “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” ne è l’emblema.
C’è il rischio di custodire la prima parte della Costituzione come un enorme e straordinario modello di avanzata civiltà giuridica e democratica, che i nostri Costituenti hanno realizzato, relegandola più come pezzo di storia e di orgoglio del Paese, che come materia viva e, ancora oggi, dalle straordinarie potenzialità inespresse. E, contestualmente, di plasmare la seconda parte, in modo indipendente e anche contraddittorio rispetto alla prima, alle esigenze del momento.
La campagna referendaria sta mostrando tutti i limiti e le criticità di questo modello; tralasciando tutte le strumentalizzazioni volte alla legittimazione o bocciatura dell’attuale Governo, tramite la riforma costituzionale, già di per sé intollerabile e snaturante l’oggetto del confronto, si delineano scenari apocalittici, soprattutto del sistema economico-produttivi, legati all’esito della consultazione.
Scenari surreali che nulla hanno a che fare con l’organizzazione dello Stato e delle garanzie costituzionali.
A fronte di una progressiva degenerazione della qualità legislativa, di ripetuti e ridondanti interventi normativi, spesso contraddittori, su ogni materia, con una produzione sovrabbondante, di difficile interpretazione e applicazione, come si può ragionevolmente sostenere che le difficoltà del nostro Paese, determinate dalle presunte lentezze del sistema, dipendono dall’ordinamento costituzionale?
Accelerare la produzione di norme inutili o dannose e di interventi di scarsa qualità normativa non è certo la migliore soluzione.
(continua)