di Carlo Rapicavoli –
Il tanto contestato quesito che apparirà sulla scheda referendaria, che, com’è noto, riproduce il titolo della norma di revisione costituzionale, chiede di esprimersi, fra gli altri temi, sulla “revisione del titolo V della parte II della Costituzione”.
Al di là di ogni considerazione sulla correttezza formale della formulazione del quesito – sul tema bisogna prendere atto anche della recente pronuncia del TAR Lazio – la questione è certamente sostanziale, se riferita ai contenuti della riforma.
Ebbene la “revisione del titolo V” – enunciata in modo formalistico e di minore impatto mediatico rispetto alla “riduzione del numero dei parlamentari”, al “contenimento dei costi”, alla “soppressione del CNEL” – contiene in realtà una radicale inversione di rotta rispetto al ruolo delle autonomie regionali e locali, che appaiono sostanzialmente subordinate allo Stato centrale.
Si registra il netto ridimensionamento complessivo del ruolo legislativo regionale, con un notevole ampliamento dell’elenco delle materie di legislazione esclusiva statale.
Si sostiene che la revisione risulterebbe necessaria per rimediare alle incertezze determinate dalla riforma del 2001, che sarebbero adesso risolte con la cancellazione dell’attuale potestà legislativa “concorrente”, in base alla quale lo Stato è competente a formulare i principi fondamentali della materia e la Regione è competente a varare la normativa di dettaglio, che ha dato luogo al proliferare del contenzioso innanzi alla Corte Costituzionale.
Non si sottace altresì che si è voluto introdurre dei correttivi per rimediare alla non esaltante gestione politica delle Regioni.
Obiettivi anche generalmente condivisibili, che però nascondono e realizzano un disegno ben diverso, fortemente neocentralistico, che tradisce il principio fondamentale sancito dall’art. 5. E tale nuovo disegno viene realizzato senza la necessaria e chiara esplicitazione, anche nei confronti dei cittadini, senza un mandato popolare forte, e con una formulazione del testo ricca di contraddizioni che rischiano di non risolvere, o addirittura accentuare, proprio i difetti della riforma del 2001.
IL NUOVO ASSETTO DI COMPETENZE STATALI E REGIONALI
La modifica costituzionale interviene in particolare sull’art. 117.
La nuova formulazione integra le materie attribuite alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, già previste dal testo vigente con le seguenti (si riportano solo le principali rinviando, per il dettaglio, alla lettura del testo di legge):
a) coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; perequazione delle risorse finanziarie
b) norme sul procedimento amministrativo e sulla disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche tese ad assicurarne l’uniformità sul territorio nazionale;
c) disposizioni generali e comuni per la tutela della salute, per le politiche sociali e per la sicurezza alimentare
d) disposizioni generali e comuni sull’istruzione; ordinamento scolastico; istruzione universitaria e programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica;
e) ordinamento, legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni e Città metropolitane; disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni;
f) previdenza sociale, ivi compresa la previdenza complementare e integrativa; tutela e sicurezza del lavoro; politiche attive del lavoro; disposizioni generali e comuni sull’istruzione e formazione professionale;
g) tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici; ambiente ed ecosistema; ordinamento sportivo; disposizioni generali e comuni sulle attività culturali e sul turismo;
h) ordinamento delle professioni e della comunicazione;
i) disposizioni generali e comuni sul governo del territorio; sistema nazionale e coordinamento della protezione civile;
j) produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia;
k) infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale.
Spetta alle Regioni la potestà legislativa in materia di rappresentanza delle minoranze linguistiche, di pianificazione del territorio regionale e mobilità al suo interno, di dotazione infrastrutturale, di programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali, di promozione dello sviluppo economico locale e organizzazione in ambito regionale dei servizi alle imprese e della formazione professionale; salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche, in materia di servizi scolastici, di promozione del diritto allo studio, anche universitario; in materia di disciplina, per quanto di interesse regionale, delle attività culturali, della promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici, di valorizzazione e organizzazione regionale del turismo, di regolazione, sulla base di apposite intese concluse in ambito regionale, delle relazioni finanziarie tra gli enti territoriali della Regione per il rispetto degli obiettivi programmatici regionali e locali di finanza pubblica, nonché in ogni materia non espressamente riservata alla competenza esclusiva dello Stato.
Appare evidente che la riforma riporta in capo allo Stato materie finora tipiche della competenza regionale, quali il governo del territorio, la formazione professionale, la protezione civile, il turismo, ecc.
Ma il tema principale è che la riforma aprirà innumerevoli questioni interpretative e di conflitto, contraddicendo proprio il principale obiettivo dichiarato.
La riforma infatti non delinea in modo netto il confine tra l’ambito di competenza dello Stato e l’ambito di competenza delle Regioni.
In molti casi questo confine è assolutamente confuso, soprattutto per tutte quelle materie per le quali è attribuita, dal nuovo testo, allo Stato la potestà legislativa esclusiva per dettare le “disposizioni generali e comuni”.
A ben vedere si tratta di materie di straordinaria rilevanza:
a) la tutela della salute
b) le politiche sociali
c) la sicurezza alimentare
d) l’istruzione
e) le attività culturali
f) il turismo
g) il governo del territorio.
Si torna dunque alla legislazione concorrente, che a gran voce i sostenitori della riforma indicano come difetto principale dell’attuale assetto di competenze e che invece, nella sostanza, si ripropone in tutte le ambiguità.
La novità dunque è soltanto quella di avere notevolmente ampliato gli ambiti riservati alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, non di avere risolto le incongruenza e i potenziali conflitti.
Per la dottrina che sarà chiamata ad approfondire il nuovo ordinamento costituzionale, il dibattito dovrà incentrarsi sul superamento dell’attuale rapporto tra “principi fondamentali e normativa di dettaglio” o di “legge cornice (statale) e legge regionale di dettaglio” con il rapporto tra “disposizioni generali e comuni” di competenza statale e “disposizioni non generali e non comuni” di competenza regionale”.
Sarà ancora più difficile districarsi tra la competenza legislativa statale sul governo del territorio e la pianificazione del territorio attribuita espressamente alle Regioni o tra la tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici (di competenza dello Stato) e la promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici (di competenza delle Regioni).
Ma l’obiettivo dichiarato non era quello di superare il contenzioso innanzi alla Corte Costituzionale?
Trarre vanto infine dalla riforma per avere previsto in Costituzione che con legge della Repubblica si determinano gli emolumenti degli organi elettivi regionali nel limite dell’importo di quelli attribuiti ai sindaci dei Comuni capoluogo di Regione rende chiaramente un’idea non certo lusinghiera del nuovo spirito costituente.
SUPREMAZIA DELLO STATO
Il nuovo art. 117, quarto comma, prevede che su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie di competenza regionale quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale.
Quindi su ogni materia nessuna esclusa, sia quelle espressamente elencate di competenza regionale, sia quelle residuali.
Per queste tipologie di norme si prevede il riesame obbligatorio del Senato, dopo la deliberazione della Camera, nel termine di dieci giorni dalla data di trasmissione.
In questi casi la Camera può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti.
E’ forse questa la vera norma di chiusura del sistema.
Tale “espropriazione” da parte dello Stato delle competenze regionali, dipende dall’esigenza di tutelare “l’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”.
Quale organo costituzionale può valutare l’effettiva sussistenza di tale presupposto?
E’ evidente che si tratta di una formula di fortissima valenza politica e non giuridica sulla quale difficilmente la stessa Corte Costituzionale potrà intervenire per giudicare la sussistenza e la conseguente incostituzionalità dell’intervento “di supremazia” del legislatore statale.
In altri termini, la nuova norma costituzionale rimette nelle mani del Governo il potere di decisione su qualunque materia: sull’opportunità dell’intervento del legislatore statale, quindi del Parlamento, sia sulla sussistenza dei presupposti richiesti dalla clausola, senza che possa opporsi alcunché.
Il potere di riesame obbligatorio del Senato non appare certamente un efficace deterrente verso qualunque iniziativa centralistica.
Questa è la vera novità della riforma.
LE REGIONI A STATUTO SPECIALE
Le competenze delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome non vengono per nulla messe in discussione dalla riforma, che all’art. 39, comma 13, prevede “Le disposizioni di cui al capo IV della presente legge costituzionale (riforma del titolo V) non si applicano alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano fino alla revisione dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime Regioni e Province autonome”.
Si consolida così una disparità di trattamento di portata assai rilevante, con una inspiegabile ulteriore divaricazione tra le due categorie di Regioni, quelle di diritto comune fortemente ridimensionate, quelle speciali di fatto rafforzate.
Si accentua il divario, che già segna il nostro ordinamento, e che si traduce, a vantaggio delle Regioni a statuto speciale, non solo in maggiori competenze legislative e amministrative, ma anche garanzie specifiche di maggiori risorse finanziarie rispetto a quelle ordinarie, in base a leggi speciali o alle previsioni dei rispettivi statuti, approvati con leggi costituzionali.
La riforma costituzionale subordina e rinvia la possibile applicazione alle Regioni speciali e alle Province autonome di Trento e Bolzano del nuovo titolo V a future intese con le istituzioni territoriali interessate.
Il termine “intese” non lascia spazio a dubbi interpretativi: dette Regioni possono esercitare un potere di veto, rifiutando l’intesa, su qualunque ipotesi di modifica statutaria o finanziaria o di assetto di competenze ritenute sfavorevoli.
E’ sostanzialmente rinviato sine die ogni possibile riallineamento o superamento di una specialità, soprattutto sul piano finanziario, oggi difficilmente tollerabile.
Nessun parametro applicabile alle autonomie speciali su standard oggettivi di costo, su fabbisogni, su adeguatezza dei servizi, con un divario sempre più ampio tra regioni ordinarie depotenziate e regioni speciali del tutto indifferenti alla riforma.
Non applicandosi alle stesse il titolo V riformato, non trova applicazione neanche la “clausola di supremazia” contenuta nel nuovo art. 117; per le Regioni a statuto speciale e per le Province autonome non può prevalere la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica né la tutela dell’interesse nazionale.
LE AUTONOMIE TERRITORIALI – L’ABOLIZIONE DELLE PROVINCE
Sull’assetto delle autonomie locali, manca del tutto un disegno organico.
La riforma “costituzionalizza” (male!) una decisione già assunta con legge ordinaria: la cosiddetta “soppressione” delle Province, operata dalla Legge 56/2014 (Legge Delrio), che, non a caso, nelle norme di disciplina delle Città metropolitane e delle Province, premette “in attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione…”, ribaltando l’ordine logico e di gerarchia delle fonti del nostro ordinamento.
Ne consegue che la riforma costituzionale in discussione opera semplicemente la cancellazione della parola “Provincia” ovunque ricorra nel testo costituzionale.
L’art. 29 della riforma rubricato “abolizione delle Province” sancisce la cancellazione della Provincia tra gli enti costitutivi della Repubblica, previsti dall’art. 114, la cui nuova formulazione direbbe: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione. Roma è la capitale della Repubblica. La legge dello Stato disciplina il suo ordinamento”.
Conseguentemente non si ritrova più il richiamo alle Province agli articoli 118 e 119 della Costituzione.
E’ altresì prevista l’abrogazione del primo comma dell’art. 133 vigente: “Il mutamento delle circoscrizioni provinciali e la istituzione di nuove Province nell’ambito d’una Regione sono stabiliti con leggi della Repubblica, su iniziative dei Comuni, sentita la stessa Regione”, non sostituito da altra disciplina.
Null’altro è previsto per le autonomie locali nel nuovo testo costituzionale se si fa eccezione al secondo comma che verrebbe inserito all’art. 118: “Le funzioni amministrative sono esercitate in modo da assicurare la semplificazione e la trasparenza dell’azione amministrativa, secondo criteri di efficienza e di responsabilità degli amministratori”.
In materia di autonomia finanziaria, è sancita dal nuovo articolo 119 la riserva di legge statale su tributi, entrate e compartecipazioni “ai fini del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, così restringendo ulteriormente l’ambito di autonomia, già fortemente compresso dalla riforma costituzionale approvata con Legge Cost. 1/2012, la cosiddetta riforma sul pareggio di bilancio, passata quasi sotto silenzio malgrado la rilevanza enorme degli effetti, ancora non pienamente percepiti, sulla gestione delle risorse pubbliche.
L’unica disposizione che sembra manifestare attenzione alle autonomie locali è la precisazione introdotta all’art. 119 secondo cui: “Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti assicurano il finanziamento integrale delle funzioni pubbliche attribuite ai Comuni, alle Città metropolitane e alle Regioni. Con legge dello Stato sono definiti indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno che promuovono condizioni di efficienza nell’esercizio delle medesime funzioni”.
Si tratta di una norma che, da un lato sembra voler assicurare le risorse necessarie all’esercizio delle funzioni, ma dall’altro rimette totalmente allo Stato ogni valutazione in materia.
Pertanto, sembra che la riforma costituzionale si occupi delle autonomie locali soltanto per eliminare dall’ordinamento costituzionale le Province, senza però alcun intervento di riassetto del sistema che perde naturalmente il suo equilibrio originario, che aveva trovato la sua sintesi nel testo originario della Costituzione, poi modificata nel 2001, che, rispetto ai livelli di governo, ha introdotto le Città metropolitane che, a legislazione ordinaria, non costituivano un ulteriore livello di governo, ma sono sostitutive delle Province nelle aree individuate come metropolitane.
E’ evidente che intervenire in un assetto costituzionale definito, cancellando uno degli enti costitutivi della Repubblica, senza delineare un nuovo e diverso ordinamento, rischia di determinare gravi conseguenze.
Difficile conciliare tale scelta con i principi fondamentali dell’art. 5 della Costituzione: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
Si dubita fortemente che questo processo di decostituzionalizzazione e di sostanziale regionalizzazione degli enti autonomi intermedi, salvo nelle aree metropolitane, sia compatibile col principio autonomistico, visto che queste istituzioni – espressive di comunità territoriali che non sono certo venute meno, anzi si sono nel tempo consolidate – erano state finora riconosciute e ricomprese tra le istituzioni costitutive della Repubblica, in applicazione di quanto sancito dall’art. 5 Cost.
C’è poi anche da chiedersi, come spesso ricorda il prof. Gian Candido De Martin, se sia compatibile col medesimo principio costituzionale e con la ratio della sussidiarietà sancita dall’art. 118 Cost. la deriva conseguente al depotenziamento delle province, che finisce per tradursi, in gran parte dei casi, in un processo di accentramento a livello regionale di molte funzioni amministrative già provinciali.
Cercando di comprendere la ratio della riforma – per non cadere nella considerazione che trattasi di una scelta che ha poco di “costituente” ma molto di più rispondente esclusivamente dall’esigenza “elettoralistica” di rispondere a opinionisti offrendo un taglio di “poltrone” e di livelli politici ignorando funzioni e assetto ordinamentale – ricorriamo alla lettura della relazione illustrativa al progetto di riforma
Si legge: “I pilastri sui quali si fonda il presente disegno di legge sono quelli contenuti negli articoli 1 e 5 della Costituzione, che, rispettivamente, sanciscono il principio democratico e quello autonomistico.
È infatti proprio la ricerca di un nuovo equilibrio tra l’unità e l’indivisibilità della Repubblica, e l’esigenza di salvaguardare e promuovere le sfere di autonomia delle regioni e degli enti locali, il filo conduttore che lega le proposte di revisione costituzionale contenute nel progetto di riforma.
Riforma che, è bene evidenziarlo in via preliminare, lungi dal voler comprimere gli spazi di autonomia degli enti territoriali, intende invece, da una parte, semplificare il sistema, sia confermando l’eliminazione dalla Costituzione del riferimento al livello di governo provinciale, sia riformando in modo radicale i criteri di riparto delle competenze; dall’altra valorizzare, declinandolo in modo nuovo, il pluralismo istituzionale e il principio autonomistico, con l’obiettivo ultimo di incrementare complessivamente il tasso di democraticità del nostro ordinamento.
Sotto il profilo della politica costituzionale, il Governo ritiene, infatti, che l’autonomia degli enti diversi dallo Stato costituisca un insostituibile elemento di arricchimento del sistema istituzionale e che quanto più il potere pubblico è prossimo ai cittadini, tanto più è elevata la qualità della vita democratica e la capacità delle istituzioni di soddisfare i diritti civili e sociali ad essi riconosciuti, secondo il principio della sussidiarietà verticale, incorporato anche nell’architettura istituzionale dell’Unione europea. (…)
Oggi si tratta, di dare impulso a un processo che garantisca davvero alle autonomie regionali e locali un virtuoso coinvolgimento nel circuito decisionale di livello nazionale, in modo meno conflittuale e più proficuo di quanto sinora accaduto.
A questa logica di fondo risponde la trasformazione del Senato della Repubblica nel Senato delle Autonomie, rappresentativo delle istituzioni territoriali. Esso si configura proprio come quella sede di raccordo tra lo Stato e gli enti territoriali la cui sostanziale assenza nel disegno di riforma del titolo V ha impedito la realizzazione di un sistema di governo multilivello ordinato, efficiente e non animato da dinamiche competitive, in grado di bilanciare interessi nazionali, regionali e locali e di assicurare politiche di programmazione territoriale coordinate con le più ampie scelte strategiche adottate a livello nazionale”.
Si fa davvero fatica a ritrovare nel nuovo testo costituzionale, i principi e gli obiettivi, peraltro ampiamente condivisibili, contenuti nella relazione.
Si ha quasi l’impressione di leggere nella relazione, una sorta di “excusatio non petita”, quale risposta preventiva da parte del Governo alle obiezioni di merito.
Si dice che “si vuole incrementare il tasso di democraticità…”, ma si elimina il livello elettivo provinciale (oltre al Senato) e, non prevedendo alcunché al riguardo, si conferma l’assenza di elezione diretta degli organi della Città metropolitana.
Si dice “quanto più il potere pubblico è prossimo ai cittadini, tanto più è elevata la qualità della vita democratica e la capacità delle istituzioni di soddisfare i diritti civili e sociali ad essi riconosciuti”, ma si elimina proprio uno dei livelli di potere pubblico più vicino ai cittadini.
Si fa riferimento al nuovo Senato quale soluzione attuativa dell’art. 5 della Costituzione, ma francamente le argomentazioni non appaiono convincenti.
I NUOVI ENTI DI AREA VASTA
Il nuovo assetto costituzionale risulta “completato” da quanto disposto dall’art. 40 del testo di riforma: “Per gli enti di area vasta, tenuto conto anche delle aree montane, fatti salvi i profili ordinamentali generali relativi agli enti di area vasta definiti con legge dello Stato, le ulteriori disposizioni in materia sono adottate con legge regionale. Il mutamento delle circoscrizioni delle Città metropolitane è stabilito con legge della Repubblica, su iniziativa dei Comuni, sentita la Regione”.
Al di là della involuta tecnica legislativa e di una formulazione di un testo davvero infelice, emerge quasi un ripensamento del legislatore che non può rinnegare l’annuncio dell’eliminazione delle Province, ma sancisce, costituzionalmente, la necessità di un ente di area vasta che eserciti, di fatto, le funzioni già esercitate dalle Province.
Le problematiche che emergono e che restano irrisolte sono molteplici.
Nell’assetto ordinamentale emergono diversità inconciliabili tra le porzioni del territorio che vedono la presenza della Città metropolitana e la restante parte del territorio.
Per le prime, in assenza di qualsivoglia precisazione costituzionale sulla natura di questo nuovo Ente, non si può che fare riferimento alla legge Delrio ed alle dieci città metropolitane così istituite e coincidenti con il territorio delle Province di Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria.
Ne deriverebbe costituzionalizzata la loro istituzione, almeno per quanto concerne la delimitazione territoriale, posto che, dall’entrata in vigore della riforma, si applicherebbe la previsione dell’art. 40 sopra richiamato, che prevede che il mutamento delle circoscrizioni delle Città metropolitane è stabilito con legge della Repubblica, su iniziativa dei Comuni, sentita la Regione. Non è più applicabile l’art. 133, che sarebbe abrogato, richiamato dalla Legge Delrio.
Possono essere istituite nuove Città Metropolitane?
L’abrogazione dell’art. 133, primo comma, che disciplinava l’istituzione di nuove Province e l’assenza di nuova disciplina lascia irrisolta la questione, con possibile moltiplicazione di questi Enti.
E’ sufficiente ricordare al riguardo che la Sicilia ha previsto l’istituzione di tre città metropolitane: Catania, Messina e Palermo. Queste ultime hanno analoga copertura costituzionale?
Si pone un’evidente difficoltà di coordinamento, posto che nulla è detto sul mutamento delle circoscrizioni delle attuali Province, che, a riforma approvata, si tramutano in enti di area vasta, su cui sembrerebbe che la competenza sia attribuita alle Regioni, essendo riservati alla legge dello Stato soltanto “i profili ordinamentali generali”, sebbene non ulteriormente precisati.
Ma ne deriva un’altra, ben più fondamentale, conseguenza: la previsione necessaria, in quanto prevista da legge costituzionale, dell’ente di area vasta, la cui presenza, nell’ambito dell’ordinamento amministrativo (non più costitutivo della Repubblica, cui fanno parte solo le città metropolitane) viene sancita come strutturale e non eliminabile.
Resta irrisolto anche il tema delle funzioni degli enti di area vasta, non essendo più sancito il principio delle funzioni proprie di cui all’art. 118: sono attribuite con legge dello Stato (rientrano tra i profili ordinamentali generali) o con legge regionale?
La questione porta con sé, naturalmente, anche l’aspetto finanziario di finanziamento delle funzioni.
Probabilmente l’attribuzione segue le competenze di cui all’art. 117 e, conseguentemente, anche il finanziamento.
I Comuni, che secondo la legge Delrio amministrano gli Enti di area vasta, hanno un ruolo sul nuovo assetto territoriale e la delimitazione delle circoscrizioni?
Le fonti regolamentari oggi vigenti, approvati dalle Province nelle materie di competenza, che trovano oggi copertura costituzionale all’art. 117, mantengono efficacia o si determina una deregolamentazione in varie materie, anche di generale importanza?
Le criticità determinate da un intervento costituzionale disorganico, senza una visione d’insieme complessiva, ma soltanto parziale, sono innumerevoli. Quelli riportati servono solo a rendere una prima idea delle problematiche irrisolte.
BREVI CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
La revisione del titolo V porta con sé molteplici contraddizioni.
Non chiarisce né risolve le principali questioni critiche derivanti dalla riforma del 2001; sancisce il ritorno al potere dello Stato, imprimendo al sistema delle relazioni tra Stato ed enti territoriali una netta svolta centralista, registrando una radicale inversione di rotta rispetto alla riforma del 2001, che, almeno nei punti fondanti, realizzava un disegno autonomistico della Repubblica, fondato sul maggior ruolo possibile, oltre che delle Regioni, specie sul piano legislativo, anche dei Comuni e delle Province o delle Città metropolitane, sulla base di quei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, che permangono affermati anche nel nuovo testo dell’art. 118, ma che vengono sostanzialmente disattesi nel nuovo assetto costituzionale.
Viene limitato fortemente il potere legislativo delle Regioni; non si rinvengono elementi di chiarezza nella distribuzione delle competenze tali da far presumere il superamento del contenzioso, a meno di non assistere ad un frequente richiamo alla supremazia statale.
Viene limitata fortemente l’autonomia normativa e organizzativa delle istituzioni locali attribuendo alla potestà esclusiva statale l’ordinamento (oltre alle legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali) degli Enti Locali così comprimendo quello spazio di auto ordinamento, statutario e regolamentare, legittimato dalla riforma del 2001 per tornare ad un’autonomia locale del tutto subordinata al potere di ordinamento statale.
Si cancella un lento e difficile percorso di decentramento amministrativo e di valorizzazione delle autonomie verso un nuovo centralismo di cui non si percepiscono i vantaggi.
Si perpetua e si rafforza una netta differenziazione tra territori – Regioni a statuto speciale e a statuto ordinario – non giustificabile se non per ragioni di convenienza politica immediata e di consenso necessario per la riforma.
Si tradisce e contraddice il principio fondamentale del nostro ordinamento sancito dall’art. 5 della nostra Costituzione.
(continua)