di Carlo Rapicavoli –
Dopo una lunghissima rincorsa durata diversi mesi, finalmente si è giunti al traguardo con la scelta del Governo di fissare la data per il referendum costituzionale, utilizzando tutto il tempo concesso dalla vigente normativa.
Tutto il tempo trascorso, però, si è risolto finora in uno stucchevole dibattito, fatto di slogan ad effetto, che però non consentono alcun serio approfondimento sui reali contenuti della riforma.
Sin dall’avvio del dibattito parlamentare e, soprattutto con l’approvazione in prima lettura, si è brandito lo strumento del referendum costituzionale, a più riprese, prima quale strumento di massima partecipazione democratica, concesso dal Governo per suggellare la bontà della riforma, poi, sulla base dei sondaggi del momento, quale strumento plebiscitario per legittimare il ruolo del Governo, per giungere infine alla definizione degli schieramenti pro e contro il Governo e il suo Presidente del Consiglio e non sui contenuti della riforma.
Oggi si prospettano catastrofi inenarrabili in caso prevalga il no alla riforma, con il compiacente avallo dell’informazione che da mesi enfatizza la prossima scadenza e le dichiarazioni apodittiche di un gran numero di soggetti, anche internazionali, che intervengono sul tema, in modo irrituale e disinformato.
Si corre il concreto rischio di amplificare, ogni giorno di più, tale impostazione, considerata come l’unica possibile strategia di successo per i sostenitori della riforma, con l’ultimo beneplacito del Presidente emerito della Repubblica, molto prodigo di consigli, perdendo di vista il merito della riforma stessa.
Emblematico in tal senso è apparso il primo vero confronto televisivo, purtroppo segnato dalla plastica rappresentazione di due mondi lontanissimi e inconciliabili: la pacata e competente riflessione e l’approfondimento delle questioni di merito contro la spiccata capacità comunicativa, per slogan, che rappresenta l’immediato obiettivo politico-elettorale della riforma.
Si sono succedute dichiarazioni ad effetto sulla strabiliante portata innovatrice della riforma, addirittura “attesa da settant’anni” a sentire il Ministro, con buona pace del lavoro dei Costituenti che, ancor prima della promulgazione della Costituzione del 1948, vivevano già in un Paese in trepidante attesa dell’attuale riforma.
Nella nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza, approvato dal Consiglio dei Ministri il 27 settembre scorso, si legge: “Affinché tuttavia la politica di bilancio stimoli la crescita e la creazione di occupazione, e le riforme strutturali adottate producano benefici crescenti nel tempo, il Paese ha bisogno di stabilità politica e istituzionale; in tal senso le riforme istituzionali promosse mirano a rendere l’attuale sistema più stabile ed efficiente. In particolare la riforma costituzionale intende snellire il processo legislativo, superando il bicameralismo perfetto e realizzando una più efficiente allocazione delle competenze e una riduzione dei contenziosi tra centro e periferia; la legge elettorale intende garantire governabilità, stabilità e accountability”.
Si fa oggettivamente fatica a comprendere la correlazione tra la riforma costituzionale e i “benefici economici” a più riprese sottolineate dal Governo, spesso – oltre ogni prudenza – azzardando cifre miliardarie e punti percentuali di PIL. Non vi è traccia, peraltro, nello stesso DEF di una volontà di modifica della legge elettorale, ribadita dal Governo il giorno dopo l’approvazione del documento.
E il Governo tralascia di ricordare che, comunque, lo stesso si pone ad oggi al quarto posto per permanenza in carica tra tutti i Governi della Repubblica (e il bisogno di maggiore stabilità?). Qualche riflessione più seria, e meno ad uso comunicativo, dunque andrebbe fatta.
Mai come in questa occasione vi è la piena rappresentazione della mancata attuazione della nostra Costituzione, malgrado le citazioni utilizzate fuori contesto da molti sostenitori della riforma.
Piero Calamandrei scriveva nel 1947: “Quando l’Assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari deve rimanere il governo alla formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’assemblea sovrana”.
Più recentemente, a pochi anni dalla morte, Giuseppe Dossetti, prestigioso protagonista del processo costituente, commentando le iniziative di riforma costituzionale nella prima metà degli anni Novanta, scriveva: “Si tratta di impedire a una maggioranza, che non ha ricevuto alcun mandato al riguardo, di mutare la Costituzione: si arrogherebbe un compito che solo una nuova Assemblea Costituente, programmaticamente eletta per questo e a sistema proporzionale, potrebbe assolvere come veramente rappresentativa di tutto il nostro popolo. Altrimenti sarebbe un autentico colpo di Stato”.
Ma, al di là del ruolo del Governo nel processo di riforma costituzionale, va ricordata la ratio dell’art. 138 nella parte in cui prevede il referendum costituzionale.
Lo strumento del referendum è stato voluto dai Costituenti come strumento per le minoranze che non hanno condiviso i progetti di revisione costituzionale. E’ evidente la finalità: se si raggiunge la maggioranza qualificata dei due terzi (va ricordato peraltro che vigeva il regime elettorale proporzionale) non si ricorre al referendum, in quanto la maggioranza è altamente rappresentativa del popolo sovrano. In assenza della maggioranza qualificata, si può ricorrere al referendum se richiesto da un quinto dei parlamentari (o da cinquecentomila elettori o da cinque Consigli Regionali), che evidentemente rappresentano coloro che, in ciascuna Camera, si sono opposti alla emanazione della legge di revisione della Costituzione.
Ecco che la forte caratterizzazione politica, pro o contro il Governo, tradisce lo spirito della Costituzione.
Lo tradisce l’idea, alimentata costantemente, che il ricorso al referendum è stato “concesso” al popolo dallo stesso Governo “costituente”, per dimostrare il comune sentire dei cittadini con le scelte riformatrici.
Lo tradisce l’atteggiamento, almeno iniziale, della campagna referendaria, che lega all’esito della stessa la sorte del Governo e della stessa legislatura o il destino politico e personale dei principali protagonisti della riforma, a cui hanno dato il nome.
Il tentativo, forse velleitario, è quello di entrare nel merito della riforma, cercando di affrontare, con successivi interventi, i vari aspetti principali su cui va posta l’attenzione:
a) Il superamento del bicameralismo perfetto e il nuovo procedimento legislativo;
b) Il nuovo Senato
c) La riforma del titolo V – la ridefinizione delle competenze regionali – la sorte delle autonomie locali
d) Le garanzie costituzionali – il Presidente della Repubblica – la Corte Costituzionale – gli strumenti di partecipazione popolare.
L’esame delle varie questioni non potrà prescindere da un’avvertenza necessaria: l’ineludibile correlazione fra le varie parti del nuovo testo costituzionale.
Un intervento di modifica così ampio non può che porre problemi di coordinamento generale di sistema, non pienamente realizzato, con rischi concreti di disfunzioni e anomalie.
E’ auspicabile che nei prossimi due mesi, fino al referendum, si passi dagli scontri tra tifoserie ad un confronto sul merito.
Ma il punto è: stiamo parlando del futuro assetto del nostro ordinamento costituzionale, dei principi fondamentali che regoleranno la convivenza civile e politica del nostro Paese nei prossimi decenni o del successo elettorale e del futuro politico dei promotori della riforma?
Dalla qualità delle argomentazioni e del dibattito, un’idea finora è emersa abbasta nitida.
(continua)