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Che fine faranno le Centrali Uniche di Committenza, la loro qualificazione e gli obblighi precedentemente previsti in capo ai comuni non capoluogo? La norma che riguarda le Centrali Uniche di Committenza e la loro strutturazione pensata per questi uffici “super specializzati” aveva lo scopo di offrire ai comuni il supporto necessario nello svolgimento delle gare d’appalto al fine di limitare il contenzioso ma soprattutto per la riduzione delle Stazioni Appaltanti presenti sul nostro territorio.

Cosa ne sarà ora dei processi di adeguamento posti in essere dai molti Enti virtuosi e cosa ne sarà delle risorse spese da questi e messe in campo al fine di essere “pronti” alla fase di qualificazione?

Come mai nelle diverse modifiche al Codice dei Contratti si continuano a fare proclami sulla “Rivoluzione negli Appalti” grazie ai quali verrebbero sbloccate le Opere Pubbliche e velocizzate le procedure di gara senza che questi poi non si rivelino un pastrocchio?

 

L’approvazione del nuovo Codice dei Contratti Decreto Legislativo 50/2016 entrato in vigore il 19 aprile del 2016 ha istituzionalizzato la figura della “Centrale Unica di Committenza” precedentemente introdotta nell’art. 33, comma 3.bis[1] del D.lgs 163/2006 (Codice dei Contratti abrogato con l’entrata in vigore del D.lgs 50/2016) il quale stabiliva che I Comuni non capoluogo di provincia procedono all’acquisizione di lavori, beni e servizi nell’ambito delle unioni dei comuni di cui all’articolo 32 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici anche delle province, ovvero ricorrendo ad un soggetto aggregatore o alle province, ai sensi della legge 7 aprile 2014, n. 56. In alternativa, gli stessi Comuni possono acquisire beni e servizi attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da Consip S.p.A. o da altro soggetto aggregatore di riferimento.

 

Invero l’articolo 33, comma 1 del D.lgs 163/2006 prevedeva già che “Le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori possono acquisire lavori, servizi e forniture facendo ricorso a Centrali Uniche di Committenza, anche associandosi o consorziandosi”.

A tal proposito pare utile segnalare che in generale la figura delle Centrali Uniche di Committenza introdotta dalla normazione comunitaria, mutuandola dall’esperienza tedesca, ha destato nel nostro sistema in un momento iniziale qualche perplessità[2] come si dirà meglio oltre.

La Direttiva 2004/18/CE sugli Appalti Pubblici al Considerando n. 15 segnalava che In alcuni Stati si sono sviluppate tecniche di centralizzazione delle committenze. Diverse amministrazioni aggiudicatrici sono incaricate di procedere ad acquisti o di aggiudicare appalti pubblici/stipulare accordi quadro destinati ad altre amministrazioni aggiudicatrici. Tali tecniche consentono, dato il volume degli acquisti, un aumento della concorrenza e dell’efficacia della commessa pubblica. Occorre pertanto prevedere una definizione comunitaria di centrale di committenza destinata alle amministrazioni aggiudicatrici. Occorre altresì fissare le condizioni in base alle quali, nel rispetto dei principi di non discriminazione e di parità di trattamento, le amministrazioni aggiudicatrici che acquistano lavori, forniture e/o servizi facendo ricorso ad una centrale di committenza possono essere considerate come aventi rispettato le disposizioni della presente direttiva.

 

La, dunque, Direttiva prendeva atto che in alcuni paesi dell’Unione si stava sviluppando una nuova modalità di fare le procedure di gara e cioè di centralizzare gli acquisti al fine di ridurre i tempi di realizzazione, di aumentare la concorrenza e di abbassare i prezzi.

 

Con l’approvazione della nuova Direttiva Appalti 2014/24/UE il tema della centralizzazione è stato affrontato con maggior attenzione infatti al Considerando n.59 si sostiene che Nei mercati degli appalti pubblici dell’Unione si registra una forte tendenza all’aggregazione della domanda da parte dei committenti pubblici, al fine di ottenere economie di scala, ad esempio prezzi e costi delle transazioni più bassi nonché un miglioramento e una maggior professionalità nella gestione degli appalti. Questo obiettivo può essere raggiunto concentrando gli acquisti in termini di numero di amministrazioni aggiudicatrici coinvolte, oppure in termini di fatturato e di valore nel tempo.

La figura delle Centrali Uniche di Committenza entra, per così dire, a pieno regime nelle diverse procedure indicate nei Considerando e trova la sua definitiva collocazione nell’articolo 2, comma 1, rubricato “Definizioni” ove questa viene definita come un’amministrazione aggiudicatrice che fornisce attività di centralizzazione delle committenze e, se del caso, attività di committenza ausiliarie.

In relazione alle funzioni della Centrale Unica di Committenza, come indicato nella definizione, vengono inoltre previste delle attività di supporto alle Stazioni Appaltanti erogate da quest’ultima la quale può offrire un servizio di assistenza che si configura come «attività di committenza ausiliarie», il quale consiste nella prestazione di supporto alle attività di committenza, in particolare nelle forme seguenti:

  1. a) infrastrutture tecniche che consentano alle amministrazioni aggiudicatrici di aggiudicare appalti pubblici o di concludere accordi quadro per lavori, forniture o servizi;
  2. b) consulenza sullo svolgimento o sulla progettazione delle procedure di appalto;
  3. c) preparazione e gestione delle procedure di appalto in nome e per conto dell’amministrazione aggiudicatrice interessata;

In attesa dell’emanazione della norma nazionale di recepimento della Direttiva ed in relazione alle azioni di Spending Review, per i comuni non capoluogo, si previde che per l’acquisizione di lavori, beni e servizi nell’ambito di Unioni di Comuni o costituendo un accordo consortile questi soggetti dovevano avvalersi delle Province o di altri soggetti aggregatori. In alternativa, i comuni potevano comunque utilizzare gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da CONSIP S.P.A. o da altro soggetto aggregatore. I Comuni, con una popolazione superiore a 10.000 abitanti, potevano procedere autonomamente all’acquisizione di lavori, beni e servizi di valore inferiore a 40.000.

È di questo periodo la nascita dei Soggetti Aggregatori. Dopo la definizione delle regole generali, il DPCM 11 novembre 2014 ha dettato i requisiti che questi dovevano possedere: aver avviato procedure per l’acquisizione di beni e servizi per almeno 200 mln nell’ultimo triennio e comunque con un valore minimo di 50 mln di euro per ciascun anno.

Queste nuove regole, lo si ricorda, sono entrate in vigore dal 1 novembre 2015.

Questo passaggio ha permesso, a partire dal 2015, all’Autorità Anticorruzione (ANAC) di definire la lista delle Centrali di Committenza. Si trattava dello strumento per la gestione degli appalti centralizzati, che la Spending Review (Legge 89/2014) ha reso obbligatori per i comuni non capoluogo. Tra i soggetti aggregatori, come previsto dalla normativa sugli appalti centralizzati, rientrano di diritto CONSIP S.P.A., una Centrale di Committenza per ciascuna regione e 11 città Metropolitane.

S’era nel periodo in cui il legislatore aveva deciso di, riformare le province e di conseguenza di dimezzarne il personale, di ridimensionarne le funzioni ma, al tempo stesso, di ridisegnarne i ruoli. Tra le nuove funzioni dell’ente c’era proprio quella di diventare nucleo centrale e di supporto per tutti i Comuni, ricandenti sotto la loro giurisdizione, nelle procedure di gara. A tal proposito, come accennato sopra il nuovo articolo 33, comma 3.bis disponeva che I Comuni non capoluogo di provincia procedono all’acquisizione di lavori, beni e servizi nell’ambito delle unioni dei comuni di cui all’articolo 32 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici anche delle province, ovvero ricorrendo ad un soggetto aggregatore o alle province, ai sensi della legge 7 aprile 2014, n. 56.

La piccola rivoluzione non ci fù per via del fatto che le Province spogliate della metà del personale non potevano assolvere a questo compito per ovvie ragioni inoltre gli amministratori di molti comuni non aderirono a questa interessante, quanto innovativa, iniziativa perché avevano la sensazione di perdere parte del loro potere decisionale nella materia degli Appalti. Ovviamente non era vero, la loro era solo una percezione, sbagliata, ma bastò a non far decollare il progetto.

La centralizzazione, come anticipato anche nella Direttiva, avrebbe permesso di aumentare la qualità degli appalti, la riduzione dei tempi delle procedure, aumentare la concorrenza e prodotto delle economie di scala inoltre tale processo avrebbe permesso di ridurre il numero delle Stazioni Appaltanti.

Il progetto di centralizzazione delle procedure insieme alla digitalizzazione delle stesse era posto alla base dell’ammodernamento della PA in merito alla quale da anni si discute del suo rinnovamento.

Le difficoltà economiche che caratterizzano, ad esempio i comuni ma non solo, impongono l’adesione ad una nuova visione degli stessi che non possono più pensarsi come enti distinti ed autonomi ma parte di una rete nella quale avviene una condivisione delle soluzioni e delle esperienze.

L’impostazione prevista dalla Direttiva è stata recepita anche nel Codice dei Contratti D.lgs 50/2016 il quale all’art. 37, comma 1, prevede che le stazioni appaltanti, […] possono procedere direttamente e autonomamente all’acquisizione di forniture e servizi di importo inferiore a 40.000 euro (per un approfondimento sugli acquisti al sotto della soglia di 40.000 euro leggi anche – Gli acquisti infra 40.000 sulle Piattaforme Elettroniche)  e di lavori di importo inferiore a 150.000 euro, nonché attraverso l’effettuazione di ordini a valere su strumenti di acquisto messi a disposizione dalle centrali di committenza e dai soggetti aggregatori. Per effettuare procedure di importo superiore alle soglie indicate al periodo precedente, le stazioni appaltanti devono essere in possesso della necessaria qualificazione ai sensi dell’articolo 38.

La norma, correttamente, in relazione ad acquisti di modico importo prevedeva, e prevede ancora oggi, una deroga all’obbligo di ricorso alle Centrali Uniche di Committenza. Tale deroga si applica nel rispetto dei limiti dettati dall’art. 36 del Codice.

Al di sopra di dette soglie invece il successivo comma 2 prevedeva che salvo quanto previsto al comma 1, per gli acquisti di forniture e servizi di importo superiore a 40.000 euro e inferiore alla soglia di cui all’articolo 35, nonché per gli acquisti di lavori di manutenzione ordinaria d’importo superiore a 150.000 euro e inferiore a 1 milione di euro, le stazioni appaltanti in possesso della necessaria qualificazione di cui all’articolo 38 nonché gli altri soggetti e organismi di cui all’articolo 38, comma 1, procedono mediante utilizzo autonomo degli strumenti telematici di negoziazione messi a disposizione dalle centrali di committenza qualificate secondo la normativa vigente.

Diversamente, le Stazioni Appaltanti, procedono mediante le procedure ordinarie.

Di fatto il Codice, fino all’entrata in vigore del DL 32/2019, impediva alle stazioni appaltanti, non in possesso della qualificazione di cui all’art. 38, di procedere autonomamente imponendo invece a queste ultime di procedere secondo una delle seguenti modalità:

  1. a) ricorrendo a una centrale di committenza o a soggetti aggregatori qualificati;
  2. b) mediante unioni di comuni costituite e qualificate come centrali di committenza, ovvero associandosi o consorziandosi in centrali di committenza nelle forme previste dall’ordinamento.
  3. c) ricorrendo alla stazione unica appaltante costituita presso gli enti di area vasta ai sensi della legge 7 aprile 2014, n. 56.

L’impianto normativo degli Appalti, nonostante le modifiche occorse dal 2016 alla primavera 2019, era pensato per ridurre drasticamente le Stazioni Appaltanti al fine di diminuire il contenzioso, i tempi delle procedure, ed infine i costi oltre che assolvere al Principio della concorrenza. L’idea di fondo era quella di creare delle strutture, le Centrali Uniche di Committenza appunto, all’interno delle quali inserire personale specializzato in materie economico/tecnico/giuridiche, in grado di effettuare l’intera procedura di gara per conto degli enti e affiancare il personale di questi soggetti nella fase della progettazione oltre che dell’eventuale contenzioso.  Le CUC così organizzate avrebbero dovuto qualificarsi, successivamente alla pubblicazione dei requisiti tecnico/organizzativi di cui all’art. 38, in relazione al volume delle gare espletate, all’organico presente e la grado di soccombenza.

A questo proposito il presidente dell’ANAC, Raffaele Cantone, dichiarava sulle pagine de il Sole 24 Ore che «Nel corso del 2017, l’Autorità ha coadiuvato le attività del MIT in una simulazione di amministrazioni potenzialmente qualificabili in base ai contratti svolti nel periodo 2012-2016. Ciò è stato possibile attraverso l’utilizzo delle informazioni presenti nella BDNCP. Dal risultato di detta simulazione, il numero di stazioni appaltanti qualificabili nelle diverse classi si ridurrebbe sensibilmente. Per i lavori si passerebbe dall’attuale numero, di poco meno di 12.000, a un numero di poco superiore a 3.000, mentre per i servizi e le forniture, dalle attuali 25.000 si convergerebbe verso circa 5.000 stazioni appaltanti qualificabili».

Dunque grandi aspettative dall’applicazione delle norme del Codice.

A partire dal 2016 le amministrazioni hanno iniziato a sottoscrivere delle Convenzioni al fine di costituire delle Centrali Uniche di Committenza, tuttavia, non facendo proprio lo spirito della norma si è assistito alla nascita di micro Centrali Uniche di Committenza composte di due o tre comuni. Tale scelta non ha posto in essere una vera centralizzazione delle procedure di gara e la conseguente creazione delle strutture specializzate, di cui si è detto, ma un mero aggiramento della legge al solo fine di poter continuare ad operare. Situazione resa possibile dal fatto che a quasi tre anni dall’entrata in vigore dell’articolo 38 sulla qualificazione non è mai stato emanato il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (nel 2018 è circolata una bozza di DPCM mai approvata) che avrebbe dovuto definire gli ambiti territoriali di riferimento in applicazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, e stabilito i criteri e le modalità per la costituzione delle centrali di committenza in forma di aggregazione di comuni non capoluogo di provincia.

Dov’è finita la spinta all’innovazione di cui si parla tanto?

Con l’approvazione del DL 32/2019, oltre alle tante modifiche introdotte all’interno del Codice, è stato modificato il comma 4 dell’art. 37 “Aggregazione e centralizzazione delle committenze” il quale ora prevede che “Se la Stazione Appaltante è un comune non capoluogo di provincia, fermo restando quanto previsto al comma 1 e al primo periodo del comma 2, può procedere direttamente e autonomamente oppure secondo una delle seguenti modalità:

  1. a) ricorrendo a una centrale di committenza o a soggetti aggregatori qualificati;
  2. b) mediante unioni di comuni costituite e qualificate come centrali di committenza, ovvero associandosi o consorziandosi in centrali di committenza nelle forme previste dall’ordinamento.
  3. c) ricorrendo alla stazione unica appaltante costituita presso gli enti di area vasta ai sensi della legge 7 aprile 2014, n. 56”.

A seguito della suddetta modifica i comuni non capoluogo potranno procedere direttamente e autonomamente nei seguenti casi:

  • per servizi e forniture fino alla soglia di cui all’art. 35, dunque 221.000 euro;
  • per i lavori fino a 1.000.000 di euro (questa soglia precedentemente prevista all’art. 36, comma 2, lett. c) non è più presente perché abrogata proprio dal DL 32);

Praticamente con un colpo di spugna è stato cancellato il processo di creazione delle Centrali Uniche di Committenza e tutto il lavoro posto in essere da quei soggetti che avevano creduto e condiviso l’idea di introdurre uno strumento innovativo nella PA al fine di farla diventare smart ed al passo con i tempi.

Come sostenuto dallo scrivente in più occasioni, la creazione delle Centrali Uniche di Committenza insieme alla digitalizzazione delle procedure di gara, avrebbe fatto fare un salto di qualità di notevole portata alla Pubblica Amministrazione, invece, il legislatore, piuttosto che sostenere questo progetto, rendendo le maglie delle deroghe più strette le ha ampliate azzerando l’intero processo. Con questa modifica, tutti i comuni o enti di diritto pubblico di dimensione medio/piccola potranno evitare di effettuare le gare servendosi delle Centrali Uniche di Committenza visto che in genere le procedure poste in essere da questi soggetti non superano certo le soglie della nuova disposizione.

 

Il legislatore avrebbe potuto:

  • introdurre obblighi più stringenti in merito alla creazione e alla gestione delle Centrali Regionali, non tutte operative e non tutte ugualmente efficienti;
  • avrebbe potuto indurre al ricorso agli uffici appalti delle province ottenendone un potenziamento e la loro professionalizzazione;
  • avrebbe potuto sostenere gli enti per quanto riguarda le spese delle piattaforme di negoziazione (come sostenuto nel seguente articolo – Piattaforme di Negoziazione) rendendo meno onerosi i costi ordinari di gestione delle Centrali Uniche di Committenza;
  • avrebbe potuto indurre la creazione di Centrali Uniche di Committenza efficienti imponendo un numero minimo di comuni aderenti;

 

Insomma, avrebbe potuto fare scelte volte al miglioramento e all’efficientamento del “sistema” Pubblica Amministrazione, che passa dall’abbandono delle singole “unità” enti alla creazione di una rete di soggetti collegati ed interdipendenti che condividono saperi per offrire servizi sempre più vicini alle esigenze dei cittadini.

 

Si spera che nel processo di conversione del DL il legislatore dimostri maggiore coraggio.

[1] comma aggiunto dall’art. 23, comma 4, legge n. 214 del 2011, poi sostituito dall’art. 9, comma 4, legge n. 89 del 2014, poi modificato dall’art. 23-bis della legge n. 114 del 2014. Ai sensi dell’art. 23-ter, comma 3, legge n. 114 del 2014, come modificato dall’art. 1, comma 501, lettera b), della legge n. 208 del 2015, i comuni possono procedere autonomamente per gli acquisti di beni, servizi e lavori di valore inferiore a 40.000 euro, comma ora modificato

[2] TAR Puglia, Bari, 2 marzo 2010, sentenza n. 700;

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