Aiuto al suicidio assistito – condizioni di non punibilità.
CORTE COSTITUZIONALE, 25 settembre 2019, SENTENZA n.242 (Data deposito in cancelleria 22 novembre 2019)
Giudizio di legittimita’ costituzionale in via incidentale. Reati e pene – Aiuto al suicidio – Agevolazione dell’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli – Non punibilita’ se la condotta agevolativa sia prestata con le modalita’ procedurali legislativamente previste per l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale (ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della sentenza in Gazzetta Ufficiale, sia stata prestata con modalita’ equivalenti), e le condizioni e modalita’ di esecuzione siano state verificate da strutture pubbliche del SSN previo parere del comitato etico territorialmente competente – Omessa previsione – Irragionevole limitazione della liberta’ di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze – Illegittimita’ costituzionale in parte qua. – Codice penale, art. 580. – Costituzione, artt. 2, 13, 32, secondo comma, e 117, primo comma, in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali. (T-190242) (GU 1a Serie Speciale – Corte Costituzionale n. 48 del 27-11-2019)
N. 242 SENTENZA 25 settembre – 22 novembre 2019
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Reati e pene - Aiuto al suicidio - Agevolazione dell'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli - Non punibilita' se la condotta agevolativa sia prestata con le modalita' procedurali legislativamente previste per l'interruzione dei trattamenti di sostegno vitale (ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della sentenza in Gazzetta Ufficiale, sia stata prestata con modalita' equivalenti), e le condizioni e modalita' di esecuzione siano state verificate da strutture pubbliche del SSN previo parere del comitato etico territorialmente competente - Omessa previsione - Irragionevole limitazione della liberta' di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze - Illegittimita' costituzionale in parte qua. - Codice penale, art. 580. - Costituzione, artt. 2, 13, 32, secondo comma, e 117, primo comma, in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali.
(GU n.48 del 27-11-2019 )
LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente:Giorgio LATTANZI; Giudici :Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 580 del codice penale, promosso dalla Corte di assise di Milano, nel procedimento penale a carico di M. C., con ordinanza del 14 febbraio 2018, iscritta al n. 43 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell'anno 2018. Visti l'atto di costituzione di M. C., nonche' l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella udienza pubblica del 24 settembre 2019 il Giudice relatore Franco Modugno; uditi gli avvocati Filomena Gallo e Vittorio Manes per M. C. e l'avvocato Generale dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.- Con ordinanza del 14 febbraio 2018, la Corte d'assise di Milano ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 580 del codice penale: a) «nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio», per ritenuto contrasto con gli artt. 2, 13, primo comma, e 117 della Costituzione, in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848; b) «nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione dell'esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso deliberativo dell'aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 [recte: 12] anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione», per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost. Con riguardo alle questioni sub a), il riferimento all'art. 3 (anziche' all'art. 2) Cost. che compare nel dispositivo dell'ordinanza di rimessione deve considerarsi frutto di mero errore materiale, alla luce del tenore complessivo della motivazione e delle «[c]onclusioni» che precedono immediatamente il dispositivo stesso. 1.1.- Secondo quanto riferito dal giudice a quo, le questioni traggono origine dalla vicenda di F. A., il quale, a seguito di un grave incidente stradale avvenuto il 13 giugno 2014, era rimasto tetraplegico e affetto da cecita' bilaterale corticale (dunque, permanente). Non era autonomo nella respirazione (necessitando dell'ausilio, pur non continuativo, di un respiratore e di periodiche asportazioni di muco), nell'alimentazione (venendo nutrito in via intraparietale) e nell'evacuazione. Era percorso, altresi', da ricorrenti spasmi e contrazioni, produttivi di acute sofferenze, che non potevano essere completamente lenite farmacologicamente, se non mediante sedazione profonda. Conservava, pero', intatte le facolta' intellettive. All'esito di lunghi e ripetuti ricoveri ospedalieri e di vari tentativi di riabilitazione e di cura (comprensivi anche di un trapianto di cellule staminali effettuato in India nel dicembre 2015), la sua condizione era risultata irreversibile. Aveva percio' maturato, a poco meno di due anni di distanza dall'incidente, la volonta' di porre fine alla sua esistenza, comunicandola ai propri cari. Di fronte ai tentativi della madre e della fidanzata di dissuaderlo dal suo proposito, per dimostrare la propria irremovibile determinazione aveva intrapreso uno "sciopero" della fame e della parola, rifiutando per alcuni giorni di essere alimentato e di parlare. Di seguito a cio', aveva preso contatto nel maggio 2016, tramite la propria fidanzata, con organizzazioni svizzere che si occupano dell'assistenza al suicidio: pratica consentita, a certe condizioni, dalla legislazione elvetica. Nel medesimo periodo, era entrato in contatto con M. C., imputato nel giudizio a quo, il quale gli aveva prospettato la possibilita' di sottoporsi in Italia a sedazione profonda, interrompendo i trattamenti di ventilazione e alimentazione artificiale. Di fronte al suo fermo proposito di recarsi in Svizzera per il suicidio assistito, l'imputato aveva accettato di accompagnarlo in automobile presso la struttura prescelta. Inviata a quest'ultima la documentazione attestante le proprie condizioni di salute e la piena capacita' di intendere e di volere, F. A. aveva alfine ottenuto da essa il "benestare" al suicidio assistito, con fissazione della data. Nei mesi successivi alla relativa comunicazione, egli aveva costantemente ribadito la propria scelta, comunicandola dapprima agli amici e poi pubblicamente (tramite un filmato e un appello al Presidente della Repubblica) e affermando «di viverla come "una liberazione"». Il 25 febbraio 2017 era stato quindi accompagnato da Milano (ove risiedeva) in Svizzera, a bordo di un'autovettura appositamente predisposta, con alla guida l'imputato e, al seguito, la madre, la fidanzata e la madre di quest'ultima. In Svizzera, il personale della struttura prescelta aveva novamente verificato le sue condizioni di salute, il suo consenso e la sua capacita' di assumere in via autonoma il farmaco che gli avrebbe procurato la morte. In quegli ultimi giorni, tanto l'imputato, quanto i familiari, avevano continuato a restargli vicini, rappresentandogli che avrebbe potuto desistere dal proposito di togliersi alla vita, nel qual caso sarebbe stato da loro riportato in Italia. Il suicidio era peraltro avvenuto due giorni dopo (il 27 febbraio 2017): azionando con la bocca uno stantuffo, l'interessato aveva iniettato nelle sue vene il farmaco letale. Di ritorno dal viaggio, M. C. si era autodenunciato ai carabinieri. A seguito di ordinanza di "imputazione coatta", adottata ai sensi dell'art. 409 del codice di procedura penale dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Milano, egli era stato tratto quindi a giudizio davanti alla Corte rimettente per il reato di cui all'art. 580 cod. pen., tanto per aver rafforzato il proposito di suicidio di F. A., quanto per averne agevolato l'esecuzione. Il giudice a quo esclude, peraltro, la configurabilita' della prima ipotesi accusatoria. Alla luce delle prove assunte nel corso dell'istruzione dibattimentale, F. A. avrebbe, infatti, maturato la decisione di rivolgersi all'associazione svizzera prima e indipendentemente dall'intervento dell'imputato. La Corte rimettente ritiene, invece, che l'accompagnamento in auto di F. A. presso la clinica elvetica integri, in base al diritto vivente, la fattispecie dell'aiuto al suicidio, in quanto condizione per la realizzazione dell'evento. L'unica sentenza della Corte di cassazione che si e' occupata del tema ha, infatti, affermato che le condotte di agevolazione, incriminate dalla norma censurata in via alternativa rispetto a quelle di istigazione, debbono ritenersi percio' stesso punibili a prescindere dalle loro ricadute sul processo deliberativo dell'aspirante suicida. La medesima sentenza ha precisato, altresi', che, alla luce del dettato normativo (in forza del quale e' punito chiunque agevola «in qualsiasi modo» l'esecuzione dell'altrui proposito di suicidio), la nozione di aiuto penalmente rilevante deve essere intesa nel senso piu' ampio, comprendendo ogni tipo di contributo materiale all'attuazione del progetto della vittima (fornire i mezzi, offrire informazioni sul loro uso, rimuovere ostacoli o difficolta' che si frappongono alla realizzazione del proposito e via dicendo, ovvero anche omettere di intervenire, qualora si abbia l'obbligo giuridico di impedire l'evento) (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 6 febbraio-12 marzo 1998, n. 3147). 1.2.- Su questo presupposto, la Corte d'assise milanese dubita, tuttavia, della legittimita' costituzionale della norma censurata, anzitutto nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio anche quando esse non abbiano contribuito a determinare o a rafforzare il proposito della vittima. Il giudice a quo rileva come la disposizione denunciata presupponga che il suicidio sia un atto intriso di elementi di disvalore, in quanto contrario al principio di sacralita' e indisponibilita' della vita in correlazione agli obblighi sociali dell'individuo, ritenuti preminenti nella visione del regime fascista. La disposizione dovrebbe essere, pero', riletta alla luce della Costituzione: in particolare, del principio personalistico enunciato dall'art. 2 - che pone l'uomo e non lo Stato al centro della vita sociale - e di quello di inviolabilita' della liberta' personale, affermato dall'art. 13; principi alla luce dei quali la vita - primo fra tutti i diritti inviolabili dell'uomo - non potrebbe essere «concepita in funzione di un fine eteronomo rispetto al suo titolare». Di qui, dunque, anche la liberta' della persona di scegliere quando e come porre termine alla propria esistenza. Il diritto all'autodeterminazione individuale, previsto dall'art. 32 Cost. con riguardo ai trattamenti terapeutici, e' stato, d'altronde, ampiamente valorizzato prima dalla giurisprudenza - in particolare, con le pronunce sui casi Welby (Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma, sentenza 23 luglio-17 ottobre 2007, n. 2049) ed Englaro (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748) - e poi dal legislatore, con la recente legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), che sancisce in modo espresso il diritto della persona capace di rifiutare qualsiasi tipo di trattamento sanitario, ancorche' necessario per la propria sopravvivenza (compresi quelli di nutrizione e idratazione artificiale), nonche' il divieto di ostinazione irragionevole nelle cure, individuando come oggetto di tutela da parte dello Stato «la dignita' nella fase finale della vita». La conclusione sarebbe avvalorata, inoltre, dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. Essa avrebbe conosciuto una evoluzione, il cui approdo finale sarebbe rappresentato dall'esplicito riconoscimento, sulla base degli artt. 2 e 8 CEDU (che riconoscono e garantiscono, rispettivamente, il diritto alla vita e il diritto al rispetto della vita privata), del diritto di ciascun individuo «di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finira'». A fronte di cio', il bene giuridico protetto dalla norma denunciata andrebbe oggi identificato, non gia' nel diritto alla vita, ma nella liberta' e consapevolezza della decisione del soggetto passivo di porvi fine, evitando influssi che alterino la sua scelta. In quest'ottica, la punizione delle condotte di aiuto al suicidio che non abbiano inciso sul percorso deliberativo della vittima risulterebbe ingiustificata e lesiva degli artt. 2, 13, primo comma, e 117 Cost. In tale ipotesi, infatti, la condotta dell'agevolatore rappresenterebbe lo strumento per la realizzazione di quanto deciso da un soggetto che esercita una liberta' costituzionale, risultando quindi inoffensiva. 1.3.- La Corte d'assise milanese censura, per altro verso, la norma denunciata nella parte in cui punisce le condotte di aiuto al suicidio, non rafforzative del proposito dell'aspirante suicida, con la stessa severa pena - reclusione da cinque a dieci [recte: dodici] anni - prevista per le condotte di istigazione. La disposizione violerebbe, per questo verso, l'art. 3 Cost., unitamente al principio di proporzionalita' della pena al disvalore del fatto, desumibile dagli artt. 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost. Le condotte di istigazione al suicidio sarebbero, infatti, certamente piu' incisive, anche sotto il profilo causale, rispetto a quelle di chi abbia semplicemente contribuito alla realizzazione dell'altrui autonoma determinazione. Del tutto diverse risulterebbero, altresi', nei due casi, la volonta' e la personalita' del partecipe. 2.- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha eccepito, in via preliminare, l'inammissibilita' delle questioni sotto plurimi profili: per difetto di rilevanza, avendo il rimettente gia' escluso, alla luce dell'istruttoria svolta, che il comportamento dell'imputato sia valso a rafforzare il proposito di suicidio di F. A.; per richiesta di un avallo interpretativo e omessa sperimentazione dell'interpretazione conforme a Costituzione, non preclusa dall'esistenza di un'unica pronuncia di segno contrario della Corte di cassazione risalente al 1998, inidonea a costituire diritto vivente; per richiesta, infine, di una pronuncia manipolativa in materia rimessa alla discrezionalita' del legislatore - quale quella dell'individuazione dei fatti da sottoporre a pena e della determinazione del relativo trattamento sanzionatorio - e in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata. Nel merito - ad avviso dell'interveniente - le questioni risulterebbero, comunque sia, infondate. Erroneo risulterebbe il riferimento alla disciplina di cui alla legge n. 219 del 2017, posto che il riconoscimento del diritto a rifiutare le cure non implicherebbe affatto quello di ottenere un aiuto al suicidio, non potendo il paziente chiedere, in ogni caso, al medico trattamenti contrari alla legge o alla deontologia professionale. Quanto alla denunciata violazione delle disposizioni della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, quest'ultima ha, in realta', affermato che l'art. 2 della Convenzione, dato il suo tenore letterale, deve essere interpretato nel senso che esso contempla il diritto alla vita e non il suo opposto. Esso non conferisce, quindi, il «diritto a morire», ne' con l'intervento della pubblica autorita', ne' con l'assistenza di una terza persona (Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito). Secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il divieto assoluto di aiuto al suicidio sarebbe, inoltre, del tutto compatibile con l'art. 8 della Convenzione, restando affidata al margine di apprezzamento dei singoli Stati la valutazione se l'eventuale liberalizzazione del suicidio assistito possa far sorgere rischi di abuso a danno dei pazienti piu' anziani e vulnerabili. L'incriminazione dell'aiuto al suicidio risulterebbe, d'altra parte, intrinsecamente ragionevole, anche qualora si ritenga che alle sue finalita' di tutela non resti estranea la liberta' di autodeterminazione del titolare del bene protetto. Tale liberta', quando si orienti nel senso di porre fine alla propria esistenza, dovrebbe essere, infatti, «assicurata usque ad vitae supremum exitum»: ottica nella quale l'esecuzione di quell'estremo proposito dovrebbe rimanere riservata esclusivamente all'interessato, cosi' da assicurare fino all'ultimo istante l'efficacia di un possibile ripensamento. Quanto, poi, alla censurata omologazione del trattamento sanzionatorio delle condotte di istigazione e di agevolazione al suicidio, essa non contrasterebbe con i parametri evocati, potendo il giudice valorizzare, comunque sia, la diversa gravita' delle condotte stesse in sede di determinazione della pena nell'ambito della cornice edittale, ovvero ai fini del riconoscimento di circostanze attenuanti. 3.- Si e' costituito, altresi', M. C., imputato nel giudizio a quo, il quale, con una successiva memoria - contestate le eccezioni di inammissibilita' dell'Avvocatura generale dello Stato - ha rilevato come, di la' dalla generica formulazione del petitum, le questioni debbano ritenersi radicate sul caso di specie. Alla luce dello sviluppo argomentativo dell'ordinanza di rimessione, i dubbi di legittimita' costituzionale dovrebbero reputarsi circoscritti, in particolare, alle ipotesi di agevolazione del suicidio di un soggetto che versi «in uno stato di malattia irreversibile che produce gravi sofferenze, essendo tenuto in vita grazie a presidi medici in assenza dei quali andrebbe incontro, sia pure in modo lento e doloroso per se' e per i suoi cari, alla fine della propria esistenza». In tali termini, le questioni risulterebbero pienamente fondate. 3.1.- Al riguardo, la parte costituita osserva come, nel disegno del legislatore del codice penale del 1930, la norma censurata fosse destinata a proteggere la vita, intesa come bene non liberamente disponibile da parte del suo titolare. Nella visione dell'epoca, infatti, la tutela dell'individuo era secondaria rispetto a quella della collettivita' statale: il suicidio era visto, di conseguenza, in termini negativi, come l'atto di chi, togliendosi la vita, sottraeva forza lavoro e cittadini alla Patria. Non ritenendosi di dover sanzionare il suicida (neppure qualora cio' fosse materialmente possibile, ossia nel caso di semplice tentativo), si apprestava quindi una tutela di tipo indiretto, punendo chi avesse contribuito, sul piano psicologico o materiale, alla realizzazione del proposito di suicidio altrui. Con l'entrata in vigore della Costituzione, tuttavia, il bene della vita dovrebbe essere riguardato unicamente in una prospettiva personalistica, come interesse del suo titolare volto a consentire il pieno sviluppo della persona, secondo il disposto dell'art. 3, secondo comma, Cost. Di qui la maggiore attenzione verso la liberta' di autodeterminazione individuale, anche nelle fasi finali della vita, specie quando si tratti di persone che versano in condizioni di eccezionale sofferenza: atteggiamento che ha trovato la sua espressione emblematica nella sentenza della Corte di cassazione relativa al caso di Eluana Englaro (Cass., n. 21748 del 2007). Di fondamentale rilievo, in questa cornice, risulterebbe l'intervento normativo realizzato con la legge n. 219 del 2017, la quale, nel quadro della valorizzazione del principio costituzionale del consenso informato, ha «positivizzato» il diritto del paziente di rifiutare le cure e di "lasciarsi morire". 3.2.- Tale assetto normativo renderebbe ancor piu' evidente l'incoerenza dell'art. 580 cod. pen., nella parte in cui punisce anche la mera agevolazione del suicidio di chi abbia liberamente maturato il relativo proposito al fine di porre termine a uno stato di grave e cronica sofferenza, provocato anche dalla somministrazione di presidi medico-sanitari non voluti sul proprio corpo. Per questo verso, la norma censurata si porrebbe in contrasto con il «principio personalista», di cui all'art. 2 Cost., e con quello di inviolabilita' della liberta' personale, affermato dall'art. 13 Cost.: precetto costituzionale, quest'ultimo, che, unitamente all'art. 32 Cost. (non evocato nel dispositivo dell'ordinanza di rimessione, ma ripetutamente richiamato in motivazione), assicura la piena liberta' dell'individuo di scegliere quali interferenze esterne ammettere sul proprio corpo e di tutelare, in questo senso, la sua dignita'. Emblematico, al riguardo, risulterebbe il caso oggetto del giudizio a quo, nel quale il soggetto che aveva liberamente deciso di concludere la propria esistenza - senza essere peraltro in grado di provvedervi autonomamente - risultava sottoposto a trattamenti sanitari molto invasivi, la cui interruzione, ove pure accompagnata dalla sedazione profonda, lo avrebbe portato alla morte solo dopo diversi giorni, generando un prolungato stato di sofferenza nei familiari. La liberta' di rifiuto di simili presidi, senza che la dignita' del malato sia vulnerata con l'avvio di una fine lenta e dolorosa, esigerebbe il riconoscimento della possibilita' di accedere, anche tramite l'aiuto di terzi, a un farmaco letale. La norma censurata violerebbe, in quest'ottica, anche il principio di ragionevolezza, imponendo un sacrificio assoluto di liberta' di primario rilievo costituzionale, senza distinguere le condotte realmente lesive del bene protetto da quelle volte invece a consentire l'attuazione del diritto all'autodeterminazione nelle scelte di fine vita, non realizzabili da parte del diretto interessato. 3.3.- La norma denunciata si porrebbe in contrasto, ancora, con l'art. 8 CEDU e, di conseguenza, con l'art. 117, primo comma, Cost. Nella prospettiva della Corte EDU, infatti, il diritto all'autodeterminazione individuale, anche con riguardo alle scelte inerenti il fine vita, costituisce il terreno su cui poggia l'interpretazione del citato art. 8 della Convenzione, che prevede il «diritto al rispetto della vita privata e familiare». Cio' comporta che le interferenze statali su tale diritto possono ritenersi legittime solo entro i limiti indicati dal paragrafo 2 dello stesso art. 8, cioe' solo a condizione che siano normativamente previste, oltre che necessarie e proporzionate rispetto a uno degli scopi indicati dalla predetta disposizione. Al riguardo, verrebbe in rilievo, come leading case, la sentenza Pretty contro Regno Unito del 2002, con la quale si e' ritenuto che la previsione di un generale divieto di aiuto al suicidio non si ponesse, nella specie, in contrasto con il canone della proporzionalita' dell'interferenza statale, di cui al citato art. 8, paragrafo 2, CEDU, in quanto l'ordinamento penale britannico e' improntato al principio di flessibilita'. In quel sistema, infatti, vige un regime di azione penale discrezionale e non e', inoltre, previsto un minimo edittale di pena per l'aiuto al suicidio, cosicche' e' consentito al giudice di parametrare o addirittura di escludere la risposta punitiva, in rapporto al concreto disvalore del fatto. Lo standard di proporzionalita' desumibile dall'art. 8 CEDU apparirebbe, per converso, apertamente violato dall'art. 580 cod. pen., che stabilisce un divieto generalizzato e incondizionato di agevolazione dell'altrui proposito suicida, in un sistema, quale quello italiano, governato dal regime di obbligatorieta' dell'azione penale, prevedendo, per di piu', una pena minima edittale di cinque anni di reclusione. 3.4.- La norma denunciata vulnererebbe, ancora, i principi di offensivita' e di proporzionalita' e la funzione rieducativa della pena, ponendosi cosi' in contrasto con gli artt. 13, 25, secondo comma - anche in riferimento all'art. 3 -, e 27, terzo comma, Cost. L'art. 580 cod. pen. rappresenterebbe, infatti, una ipotesi eccezionale di incriminazione del concorso in un fatto lecito altrui, giustificabile - anche per quanto attiene al particolare rigore della risposta punitiva - solo sulla base di una anacronistica visione statalista del bene giuridico della vita: visione inconciliabile, per le ragioni indicate, con l'attuale assetto costituzionale. In questa prospettiva, la condotta di chi si limiti ad agevolare la realizzazione di un proposito di suicidio liberamente formatosi dovrebbe essere considerata come un «comportamento "penalmente inane"», essendo volta a garantire il diritto fondamentale all'autodeterminazione sulle scelte del fine vita, riferite a una esistenza ritenuta - per circostanze oggettive - non piu' dignitosa dal suo titolare. 3.5.- Evidente sarebbe anche la violazione del principio di eguaglianza, sotto plurimi profili. La norma censurata determinerebbe, infatti, una disparita' di trattamento tra chi e' in grado di porre fine alla propria vita da solo, senza bisogno di aiuto esterno, e chi, invece, e' fisicamente impossibilitato a farlo per la gravita' delle proprie condizioni patologiche, con conseguente discriminazione a scapito proprio dei casi maggiormente meritevoli di considerazione. Irragionevolmente discriminatoria risulterebbe, inoltre, una disciplina penale che riconosca la liceita' dell'interruzione delle cure con esito letale, e dunque la non antigiuricidita' di una condotta attiva di interruzione di un decorso causale immediatamente salvifico, punendo invece la condotta attiva di agevolazione della causazione immediata della morte in condizioni analoghe. La violazione del principio di eguaglianza-ragionevolezza si apprezzerebbe anche all'interno della struttura della fattispecie, che vede equiparate quoad poenam condotte - la determinazione e il rafforzamento del proposito suicidario, da un lato, e la semplice agevolazione, dall'altro - caratterizzate da un coefficiente di offensivita' radicalmente diverso. Una simile irragionevole equiparazione si risolverebbe anche in un difetto di proporzionalita' del trattamento sanzionatorio, atta a compromettere la funzione rieducativa della pena. 3.6.- Sulla base di tali considerazioni, la parte costituita ha chiesto, quindi, che l'art. 580 cod. pen. venga dichiarato costituzionalmente illegittimo «nella parte in cui punisce la condotta di chi abbia agevolato l'esecuzione della volonta', liberamente formatasi, della persona che versi in uno stato di malattia irreversibile che produce gravi sofferenze, sempre che l'agevolazione sia strumentale al suicidio di chi, alternativamente, avrebbe potuto darsi la morte rifiutando i trattamenti sanitari»; ovvero, in subordine, «nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione al suicidio che non abbiano inciso sulla formazione del proposito suicidario siano punite allo stesso modo della istigazione al suicidio». 4.- Sono intervenuti, inoltre, ad opponendum, il Centro Studi «Rosario Livatino», la libera associazione di volontariato «Vita e'» e il Movimento per la vita italiano. Tali interventi sono stati dichiarati inammissibili da questa Corte con ordinanza pronunciata all'udienza pubblica del 23 ottobre 2018. 5.- In esito alla medesima udienza, questa Corte ha pronunciato l'ordinanza n. 207 del 2018, con la quale: a) ha rilevato come - pur in assenza di una espressa indicazione in tal senso da parte del giudice a quo - le questioni attinenti al trattamento sanzionatorio della fattispecie criminosa dell'aiuto al suicidio debbano ritenersi logicamente subordinate a quelle attinenti al suo ambito applicativo; b) ha ritenuto non fondate le eccezioni di inammissibilita' formulate dall'Avvocatura generale dello Stato; c) ha escluso che - contrariamente a quanto sostenuto in via principale dal rimettente - l'incriminazione dell'aiuto al suicidio, ancorche' non rafforzativo del proposito della vittima sia, di per se', incompatibile con la Costituzione: essa si giustifica, infatti, in un'ottica di tutela del diritto alla vita, specie delle «persone piu' deboli e vulnerabili»; d) ha individuato, nondimeno, una circoscritta area di non conformita' costituzionale della fattispecie, corrispondente segnatamente ai casi in cui l'aspirante suicida si identifichi (come nel caso oggetto del giudizio a quo) in una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli»: evenienza nella quale il divieto indiscriminato di aiuto al suicidio «finisce [...] per limitare la liberta' di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un'unica modalita' per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignita' umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive»; e) ha escluso, tuttavia, di poter porre rimedio - «almeno allo stato» - «al riscontrato vulnus», tramite una pronuncia meramente ablativa riferita ai pazienti che versino nelle condizioni sopra indicate: in assenza di una disciplina legale della prestazione dell'aiuto verrebbero, infatti, a crearsi situazioni gravide di pericoli di abuso nei confronti dei soggetti in condizioni di vulnerabilita'; tale disciplina dovrebbe, d'altro canto, investire una serie di profili, variamente declinabili in base a scelte discrezionali, spettanti in linea di principio al legislatore; f) ha escluso, pero', al tempo stesso, di poter ricorrere alla tecnica decisoria precedentemente adottata in casi similari, costituita dalla dichiarazione di inammissibilita' delle questioni accompagnata da un monito al legislatore per l'introduzione della disciplina necessaria, alla quale dovrebbe fare seguito, nel caso il cui il monito resti senza riscontro, la declaratoria di incostituzionalita': tale tecnica, infatti, ha «l'effetto di lasciare in vita - e dunque esposta a ulteriori applicazioni, per un periodo di tempo non preventivabile - la normativa non conforme a Costituzione»; effetto che «non puo' considerarsi consentito nel caso in esame, per le sue peculiari caratteristiche e per la rilevanza dei valori da esso coinvolti»; g) ha ritenuto, percio', di dover percorrere una via alternativa: facendo leva, cioe', sui «propri poteri di gestione del processo costituzionale», questa Corte ha rinviato il giudizio in corso, fissando una nuova discussione delle questioni all'udienza del 24 settembre 2019, «in esito alla quale potra' essere valutata l'eventuale sopravvenienza di una legge che regoli la materia in conformita' alle segnalate esigenze di tutela». In questo modo, si e' lasciata pur sempre al Parlamento la possibilita' di assumere le necessarie decisioni rimesse alla sua discrezionalita', evitando, pero', che la norma censurata potesse trovare applicazione medio tempore (il giudizio a quo e' rimasto, infatti, sospeso, mentre negli altri giudizi i giudici hanno avuto modo di valutare se analoghe questioni fossero rilevanti e non manifestamente infondate). 6.- In prossimita' della nuova udienza, la parte costituita ha depositato una ulteriore memoria, rilevando come l'invito rivolto al Parlamento da questa Corte non sia stato accolto. Nessun seguito hanno, infatti, avuto le proposte di legge presentate, che prospettavano, peraltro, soluzioni sensibilmente diverse tra loro. A fronte di cio', la dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 580 cod. pen., nei contorni gia' tracciati dall'ordinanza n. 207 del 2018, non sarebbe ulteriormente procrastinabile: e cio' per ragioni radicate, oltre che nei fondamentali diritti del malato e nella sua dignita', anche nei diritti inviolabili dell'imputato, il quale si vedrebbe altrimenti infliggere una sanzione penale sulla base di una norma incostituzionale per cause «ordinamentali a lui non addebitabili». Il principio di leale collaborazione istituzionale, al quale e' stata accordata la priorita' in una prima fase, non potrebbe, dunque, che recedere, allo stato, dinanzi alle esigenze di ripristino della costituzionalita' violata. Ne' gioverebbe obiettare che il mantenimento di una "cintura di protezione" penalmente presidiata e' giustificata, nell'ipotesi in esame, da esigenze di tutela del bene supremo della vita umana. Le funzioni di prevenzione generale e speciale continuerebbero, infatti, a essere assolte dall'art. 580 cod. pen., quale risultante all'esito della pronuncia di accoglimento, stante la verificabilita' ex post, da parte del giudice penale, della sussistenza delle quattro condizioni lato sensu scriminanti indicate dall'ordinanza n. 207 del 2018: condizioni la cui coesistenza risulterebbe largamente idonea a evitare che la dichiarazione di incostituzionalita' possa preludere a una vanificazione della tutela dei soggetti vulnerabili. In questa cornice, una sentenza di «accoglimento manipolativo», che inserisca tali condizioni nel testo dell'art. 580 cod. pen., rappresenterebbe una «garanzia di certezza in senso pieno», risultando percio' preferibile tanto a una pronuncia interpretativa di rigetto, quanto a una sentenza additiva di principio: decisione, quest'ultima, che farebbe gravare sul singolo giudice l'impropria responsabilita' di ricavare la regola attuativa del principio posto dalla Corte costituzionale, quando invece l'art. 25, secondo comma, Cost. impone che i confini della norma penale siano determinati e precisi. A fronte dell'inerzia legislativa, la Corte potrebbe, d'altra parte, ricercare in norme gia' vigenti nell'ordinamento idonei criteri ai quali parametrare l'accertamento preventivo dei requisiti di liceita' del suicidio assistito. Cio' particolarmente alla luce dei piu' recenti orientamenti della giurisprudenza costituzionale, dai quali emerge una netta attenuazione della tesi per cui gli interventi di accoglimento manipolativo esigerebbero l'esistenza di strette "rime obbligate": ritenendosi, di contro, sufficiente, a tal fine, che il sistema offra «precisi punti di riferimento» e «soluzioni gia' esistenti». Nella specie, la Corte potrebbe utilmente attingere alla disciplina delle modalita' di raccolta della volonta' di revoca del consenso alle cure, di cui all'art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017. I passaggi procedurali prefigurati da tale disposizione risponderebbero a molte delle esigenze di regolamentazione poste in evidenza dall'ordinanza n. 207 del 2018: in particolare, che sia un medico a verificare ex ante, all'interno dell'alleanza terapeutica con il paziente, le condizioni indicate da detta ordinanza, attestando il suo controllo mediante idonea documentazione e prospettando le possibili alternative al suicidio assistito, compresa la possibilita' di ridurre le sofferenze tramite, ad esempio, le cure palliative. La parte costituita conclude, pertanto, chiedendo che l'art. 580 cod. pen. sia dichiarato costituzionalmente illegittimo «nella parte in cui prevede che l'aiuto al suicidio sia punibile anche se la persona che ha inteso porre fine alla propria vita e' "(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli"». Considerato in diritto 1.- La Corte d'assise di Milano dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 580 del codice penale, che prevede il reato di istigazione o aiuto al suicidio, sotto due distinti profili. 1.1.- La Corte rimettente pone in discussione, in primo luogo, il perimetro applicativo della disposizione censurata, lamentando che - secondo il diritto vivente - essa incrimini le condotte di aiuto al suicidio «in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio». La disposizione denunciata violerebbe, per questo verso, gli artt. 2 e 13, primo comma, della Costituzione, i quali, sancendo rispettivamente il «principio personalistico» - che pone l'uomo, e non lo Stato, al centro della vita sociale - e quello di inviolabilita' della liberta' personale, riconoscerebbero la liberta' della persona di autodeterminarsi anche in ordine alla fine della propria esistenza, scegliendo quando e come essa debba aver luogo. La medesima disposizione si porrebbe, altresi', in contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, i quali, nel salvaguardare, rispettivamente, il diritto alla vita e il diritto al rispetto della vita privata, comporterebbero - in base all'interpretazione della Corte europea dei diritti dell'uomo - che l'individuo abbia il diritto di «decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finira'» e che l'intervento repressivo degli Stati in questo campo possa avere soltanto la finalita' di evitare rischi di indebita influenza nei confronti di soggetti particolarmente vulnerabili. Alla luce di tutti i parametri evocati, risulterebbe, dunque, ingiustificata la punizione delle condotte di agevolazione dell'altrui suicidio che costituiscano mera attuazione di quanto autonomamente deciso da chi esercita la liberta' in questione, senza influire in alcun modo sul percorso psichico del soggetto passivo, trattandosi di condotte non lesive del bene giuridico tutelato. 1.2.- La Corte milanese contesta, in secondo luogo, il trattamento sanzionatorio riservato alle condotte in questione, censurando l'art. 580 cod. pen. «nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione dell'esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso deliberativo dell'aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 [recte: 12] anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione». Sotto questo profilo, la norma censurata si porrebbe in contrasto con l'art. 3 Cost., essendo le condotte di istigazione al suicidio certamente piu' gravi, sotto il profilo causale, rispetto a quelle di chi abbia semplicemente contribuito alla realizzazione dell'altrui autonoma determinazione di porre fine alla propria esistenza, e risultando del tutto diverse, nei due casi, la volonta' e la personalita' dell'agente. Sarebbero violati, inoltre, gli artt. 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost., in forza dei quali la liberta' dell'individuo puo' essere sacrificata solo a fronte della lesione di un bene giuridico non altrimenti evitabile e la sanzione deve essere proporzionata alla lesione provocata, cosi' da prevenire la violazione e provvedere alla rieducazione del reo. 2.- Con l'ordinanza n. 207 del 2018, questa Corte ha gia' formulato una serie di rilievi e tratto una serie di conclusioni in ordine al thema decidendum. Gli uni e le altre sono, in questa sede, confermati. A essi si salda, in consecuzione logica, l'odierna decisione. 2.1.- Con la citata ordinanza, questa Corte ha rilevato, anzitutto, come tra le questioni sollevate intercorra un rapporto di subordinazione implicita: interrogarsi sul quantum della pena ha, infatti, un senso solo ove le condotte avute di mira restino penalmente rilevanti e, dunque, solo in caso di mancato accoglimento delle questioni volte a ridisegnare i confini applicativi della fattispecie criminosa. Ha ritenuto, altresi', infondate le plurime eccezioni di inammissibilita' formulate dall'Avvocatura generale dello Stato, ivi compresa quella di omessa sperimentazione dell'interpretazione conforme a Costituzione, rilevando come la prospettata interpretazione adeguatrice risulti incompatibile con il tenore letterale della norma censurata. 2.2.- Nel merito, questa Corte ha escluso che - contrariamente a quanto sostenuto in via principale dal giudice a quo - l'incriminazione dell'aiuto al suicidio, ancorche' non rafforzativo del proposito della vittima, possa ritenersi di per se' in contrasto con la Costituzione. Per sostenere il contrasto, non e' pertinente, infatti, il riferimento del rimettente al diritto alla vita, riconosciuto implicitamente - come «primo dei diritti inviolabili dell'uomo» (sentenza n. 223 del 1996), in quanto presupposto per l'esercizio di tutti gli altri - dall'art. 2 Cost. (sentenza n. 35 del 1997), nonche', in modo esplicito, dall'art. 2 CEDU. «Dall'art. 2 Cost. - non diversamente che dall'art. 2 CEDU - discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello - diametralmente opposto - di riconoscere all'individuo la possibilita' di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire. Che dal diritto alla vita, garantito dall'art. 2 CEDU, non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire, e' stato, del resto, da tempo affermato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, proprio in relazione alla tematica dell'aiuto al suicidio (sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito)» (ordinanza n. 207 del 2018). Neppure, poi, e' possibile desumere la generale inoffensivita' dell'aiuto al suicidio da un generico diritto all'autodeterminazione individuale, riferibile anche al bene della vita: diritto che il rimettente ricava dagli artt. 2 e 13, primo comma, Cost. A prescindere dalle concezioni di cui era portatore il legislatore del 1930, la ratio dell'art. 580 cod. pen. puo' essere agevolmente scorta, alla luce del vigente quadro costituzionale, nella «tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone piu' deboli e vulnerabili, che l'ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante attualita', di tutelare le persone che attraversano difficolta' e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere» (ordinanza n. 207 del 2018). Le medesime considerazioni valgono, altresi', ad escludere che la norma censurata si ponga, sempre e comunque sia, in contrasto con l'art. 8 CEDU, il quale sancisce il diritto di ciascun individuo al rispetto della propria vita privata: conclusione, questa, confermata dalla pertinente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. 2.3.- All'interno del petitum principale del rimettente, questa Corte ha individuato, nondimeno, una circoscritta area di non conformita' costituzionale della fattispecie criminosa, corrispondente segnatamente ai casi in cui l'aspirante suicida si identifichi - come nella vicenda oggetto del giudizio a quo - in una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli» (ordinanza n. 207 del 2018). Si tratta di «situazioni inimmaginabili all'epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali». In tali casi, l'assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita puo' presentarsi al malato come l'unico modo per sottrarsi, secondo le proprie scelte individuali, a un mantenimento artificiale in vita non piu' voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all'art. 32, secondo comma, Cost. Parametro, questo, non evocato nel dispositivo nell'ordinanza di rimessione, ma piu' volte richiamato in motivazione. Nei casi considerati - ha osservato questa Corte - la decisione di accogliere la morte potrebbe essere gia' presa dal malato, sulla base della legislazione vigente, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua. Cio', in forza della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), la cui disciplina recepisce e sviluppa, nella sostanza, le conclusioni alle quali era gia' pervenuta all'epoca la giurisprudenza ordinaria - in particolare a seguito delle sentenze sui casi Welby (Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma, sentenza 23 luglio-17 ottobre 2007, n. 2049) ed Englaro (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748) - nonche' le indicazioni di questa Corte riguardo al valore costituzionale del principio del consenso informato del paziente al trattamento sanitario proposto dal medico (ordinanza n. 207 del 2018): principio qualificabile come vero e proprio diritto della persona, che trova fondamento nei principi espressi negli artt. 2, 13 e 32 Cost. (sentenze n. 253 del 2009 e n. 438 del 2008). La citata legge n. 219 del 2017 riconosce, infatti, ad «[o]gni persona capace di agire» il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorche' necessario alla propria sopravvivenza, comprendendo espressamente nella relativa nozione anche i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale (art. 1, comma 5): diritto inquadrato nel contesto della «relazione di cura e di fiducia» tra paziente e medico. In ogni caso, il medico «e' tenuto a rispettare la volonta' espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo», rimanendo, «in conseguenza di cio', [...] esente da responsabilita' civile o penale» (art. 1, comma 6). Integrando le previsioni della legge 15 marzo 2010, n. 38 (Disposizioni per garantire l'accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore) - che tutela e garantisce l'accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore da parte del paziente, inserendole nell'ambito dei livelli essenziali di assistenza - la legge n. 219 del 2017 prevede che la richiesta di sospensione dei trattamenti sanitari possa essere associata alla richiesta di terapie palliative, allo scopo di alleviare le sofferenze del paziente (art. 2, comma 1). Lo stesso art. 2 stabilisce inoltre, al comma 2, che il medico possa, con il consenso del paziente, ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, per fronteggiare sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari. Disposizione, questa, che «non puo' non riferirsi anche alle sofferenze provocate al paziente dal suo legittimo rifiuto di trattamenti di sostegno vitale, quali la ventilazione, l'idratazione o l'alimentazione artificiali: scelta che innesca un processo di indebolimento delle funzioni organiche il cui esito - non necessariamente rapido - e' la morte» (ordinanza n. 207 del 2018). La legislazione oggi in vigore non consente, invece, al medico di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non gia' ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte. Pertanto, il paziente, per congedarsi dalla vita, e' costretto a subire un processo piu' lento e piu' carico di sofferenze per le persone che gli sono care. Ne e' testimonianza il caso oggetto del giudizio principale, nel quale, «[s]econdo quanto ampiamente dedotto dalla parte costituita, [...] l'interessato richiese l'assistenza al suicidio, scartando la soluzione dell'interruzione dei trattamenti di sostegno vitale con contestuale sottoposizione a sedazione profonda (soluzione che pure gli era stata prospettata), proprio perche' quest'ultima non gli avrebbe assicurato una morte rapida. Non essendo egli, infatti, totalmente dipendente dal respiratore artificiale, la morte sarebbe sopravvenuta solo dopo un periodo di apprezzabile durata, quantificabile in alcuni giorni: modalita' di porre fine alla propria esistenza che egli reputava non dignitosa e che i propri cari avrebbero dovuto condividere sul piano emotivo» (ordinanza n. 207 del 2018). Al riguardo, occorre in effetti considerare che la sedazione profonda continua, connessa all'interruzione dei trattamenti di sostegno vitale - sedazione che rientra nel genus dei trattamenti sanitari - ha come effetto l'annullamento totale e definitivo della coscienza e della volonta' del soggetto sino al momento del decesso. Si comprende, pertanto, come la sedazione terminale possa essere vissuta da taluni come una soluzione non accettabile. Nelle ipotesi configurate nel dettaglio all'inizio di questo punto 2.3. vengono messe in discussione, d'altronde, le esigenze di tutela che negli altri casi giustificano la repressione penale dell'aiuto al suicidio. Se, infatti, il fondamentale rilievo del valore della vita non esclude l'obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l'interruzione dei trattamenti sanitari - anche quando cio' richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) - non vi e' ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all'accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso piu' lento conseguente all'anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale. Quanto, poi, all'esigenza di proteggere le persone piu' vulnerabili, e' ben vero che i malati irreversibili esposti a gravi sofferenze appartengono solitamente a tale categoria di soggetti. Ma e' anche agevole osservare che, se chi e' mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale e' considerato dall'ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l'interruzione di tale trattamento, non si vede la ragione per la quale la stessa persona, a determinate condizioni, non possa ugualmente decidere di concludere la propria esistenza con l'aiuto di altri. La conclusione e' dunque che entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonche' irragionevolmente la liberta' di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un'unica modalita' per congedarsi dalla vita. 2.4.- Con la stessa ordinanza n. 207 del 2018, questa Corte ha ritenuto, peraltro, di non poter porre rimedio - «almeno allo stato» - «al riscontrato vulnus», tramite una pronuncia meramente ablativa, riferita ai pazienti che versino nelle condizioni sopra indicate. Una simile soluzione avrebbe, infatti, generato il pericolo di lesione di altri valori costituzionalmente protetti, lasciando «del tutto priva di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in tali condizioni, in un ambito ad altissima sensibilita' etico-sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi». In assenza di una specifica disciplina della materia, infatti, «qualsiasi soggetto - anche non esercente una professione sanitaria - potrebbe lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento, assistenza al suicidio a pazienti che lo desiderino, senza alcun controllo ex ante sull'effettiva sussistenza, ad esempio, della loro capacita' di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta da essi espressa e dell'irreversibilita' della patologia da cui sono affetti». Conseguenze, quelle ora indicate, delle quali «questa Corte non puo' non farsi carico» (ordinanza n. 207 del 2018). Una regolazione della materia, intesa ad evitare simili scenari, gravidi di pericoli per la vita di persone in situazione di vulnerabilita', e' suscettibile peraltro di investire plurimi profili, ciascuno dei quali, a sua volta, variamente declinabile sulla base di scelte discrezionali: «come, ad esempio, le modalita' di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l'aiuto, la disciplina del relativo "processo medicalizzato", l'eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale, la possibilita' di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura». La disciplina potrebbe essere inoltre «introdotta, anziche' mediante una mera modifica della disposizione penale di cui all'art. 580 cod. pen., in questa sede censurata, inserendo la disciplina stessa nel contesto della legge n. 219 del 2017 e del suo spirito, in modo da inscrivere anche questa opzione nel quadro della "relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico", opportunamente valorizzata dall'art. 1 della legge medesima» (ordinanza n. 207 del 2018). Potrebbe prospettarsi, ancora, l'esigenza di «introdurre una disciplina ad hoc per le vicende pregresse», anch'essa variamente calibrabile. Deve quindi, infine, essere sottolineata l'esigenza di adottare opportune cautele affinche' «l'opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilita' di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza [...] in accordo con l'impegno assunto dallo Stato con la citata legge n. 38 del 2010». Il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire, infatti, «un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente» (come gia' prefigurato dall'ordinanza n. 207 del 2018). Peraltro, nel parere del 18 luglio 2019 («Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito»), il Comitato nazionale per la bioetica, pur nella varieta' delle posizioni espresse sulla legalizzazione del suicidio medicalmente assistito, ha sottolineato, all'unanimita', che la necessaria offerta effettiva di cure palliative e di terapia del dolore - che oggi sconta «molti ostacoli e difficolta', specie nella disomogeneita' territoriale dell'offerta del SSN, e nella mancanza di una formazione specifica nell'ambito delle professioni sanitarie» - dovrebbe rappresentare, invece, «una priorita' assoluta per le politiche della sanita'». Si cadrebbe, altrimenti, nel paradosso di non punire l'aiuto al suicidio senza avere prima assicurato l'effettivita' del diritto alle cure palliative. 2.5.- Questa Corte ha rilevato, da ultimo, come, in casi simili, essa abbia dichiarato l'inammissibilita' della questione sollevata, accompagnandola con un monito al legislatore per l'introduzione della disciplina necessaria a rimuovere il vulnus costituzionale: pronuncia alla quale, ove il monito fosse rimasto senza riscontro, ha fatto seguito, di norma, una declaratoria di incostituzionalita'. Tale soluzione e' stata ritenuta, tuttavia, non percorribile nella specie. La ricordata tecnica decisoria ha «l'effetto di lasciare in vita - e dunque esposta a ulteriori applicazioni, per un periodo di tempo non preventivabile - la normativa non conforme a Costituzione. La eventuale dichiarazione di incostituzionalita' conseguente all'accertamento dell'inerzia legislativa presuppone, infatti, che venga sollevata una nuova questione di legittimita' costituzionale, la quale puo', peraltro, sopravvenire anche a notevole distanza di tempo dalla pronuncia della prima sentenza di inammissibilita', mentre nelle more la disciplina in discussione continua ad operare. Un simile effetto non puo' considerarsi consentito nel caso in esame, per le sue peculiari caratteristiche e per la rilevanza dei valori da esso coinvolti» (ordinanza n. 207 del 2018). Questa Corte ha ritenuto, quindi, di dover procedere in altro modo. Facendo leva sui «propri poteri di gestione del processo costituzionale», ha fissato, cioe', una nuova udienza di trattazione delle questioni, a undici mesi di distanza (segnatamente, al 24 settembre 2019): udienza in esito alla quale avrebbe potuto essere valutata l'eventuale sopravvenienza di una legge regolatrice della materia in conformita' alle segnalate esigenze di tutela. In questo modo, si e' lasciata al Parlamento la possibilita' di assumere le necessarie decisioni rimesse alla sua discrezionalita', ma si e' evitato che, nel frattempo, la norma potesse trovare applicazione. Il giudizio a quo e' rimasto, infatti, sospeso. 3.- Deve pero' ora prendersi atto di come nessuna normativa in materia sia sopravvenuta nelle more della nuova udienza. Ne', d'altra parte, l'intervento del legislatore risulta imminente. I plurimi progetti di legge pure presentati in materia, di vario taglio, sono rimasti, infatti, tutti senza seguito. Il relativo esame - iniziato presso la Camera dei deputati, quanto alle proposte di legge A.C. 1586 e abbinate - si e', infatti, arrestato alla fase della trattazione in commissione, senza che sia stato possibile addivenire neppure all'adozione di un testo unificato. 4.- In assenza di ogni determinazione da parte del Parlamento, questa Corte non puo' ulteriormente esimersi dal pronunciare sul merito delle questioni, in guisa da rimuovere il vulnus costituzionale gia' riscontrato con l'ordinanza n. 207 del 2018. Non e' a cio' d'ostacolo la circostanza che - per quanto rilevato nella medesima ordinanza e come poco sopra ricordato - la decisione di illegittimita' costituzionale faccia emergere specifiche esigenze di disciplina che, pur suscettibili di risposte differenziate da parte del legislatore, non possono comunque sia essere disattese. Il rinvio disposto all'esito della precedente udienza risponde, infatti, con diversa tecnica, alla stessa logica che ispira, nella giurisprudenza di questa Corte, il collaudato meccanismo della "doppia pronuncia" (sentenza di inammissibilita' "con monito" seguita, in caso di mancato recepimento di quest'ultimo, da declaratoria di incostituzionalita'). Decorso un congruo periodo di tempo, l'esigenza di garantire la legalita' costituzionale deve, comunque sia, prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalita' del legislatore per la compiuta regolazione della materia, alla quale spetta la priorita'. Come piu' volte si e' avuto modo di rilevare, «posta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa - tanto piu' se attinente a diritti fondamentali - la Corte e' tenuta comunque a porvi rimedio» (sentenze n. 162 del 2014 e n. 113 del 2011; analogamente sentenza n. 96 del 2015). Occorre, infatti, evitare che l'ordinamento presenti zone franche immuni dal sindacato di legittimita' costituzionale: e cio' «specie negli ambiti, come quello penale, in cui e' piu' impellente l'esigenza di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, incisi dalle scelte del legislatore» (sentenza n. 99 del 2019). Risalente, nella giurisprudenza di questa Corte, e' l'affermazione per cui non puo' essere ritenuta preclusiva della declaratoria di illegittimita' costituzionale delle leggi la carenza di disciplina - reale o apparente - che da essa puo' derivarne, in ordine a determinati rapporti (sentenza n. 59 del 1958). Ove, pero', i vuoti di disciplina, pure in se' variamente colmabili, rischino di risolversi a loro volta - come nel caso di specie - in una menomata protezione di diritti fondamentali (suscettibile anch'essa di protrarsi nel tempo, nel perdurare dell'inerzia legislativa), questa Corte puo' e deve farsi carico dell'esigenza di evitarli, non limitandosi a un annullamento "secco" della norma incostituzionale, ma ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorche' non a contenuto costituzionalmente vincolato, fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento (in questo senso, sentenze n. 40 del 2019, n. 233 e 222 del 2018 e n. 236 del 2016). 5.- Cio' posto, per quanto attiene ai contenuti della presente decisione, questa Corte ha gia' puntualmente individuato, nell'ordinanza n. 207 del 2018, le situazioni in rapporto alle quali l'indiscriminata repressione penale dell'aiuto al suicidio, prefigurata dall'art. 580 cod. pen., entra in frizione con i precetti costituzionali evocati. Si tratta in specie - come si e' detto - dei casi nei quali venga agevolata l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella trova intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Quanto, poi, all'esigenza di evitare che la sottrazione pura e semplice di tale condotta alla sfera di operativita' della norma incriminatrice dia luogo a intollerabili vuoti di tutela per i valori protetti, generando il pericolo di abusi «per la vita di persone in situazioni di vulnerabilita'» (ordinanza n. 207 del 2018), gia' piu' volte questa Corte, in passato, si e' fatta carico dell'esigenza di scongiurare esiti similari: in particolare, subordinando la non punibilita' dei fatti che venivano di volta in volta in rilievo al rispetto di specifiche cautele, volte a garantire - nelle more dell'intervento del legislatore - un controllo preventivo sull'effettiva esistenza delle condizioni che rendono lecita la condotta. Cio' e' avvenuto, ad esempio, in materia di aborto, con la sentenza n. 27 del 1975 (la quale dichiaro' illegittimo l'art. 546 cod. pen., nella parte in cui non prevedeva che la gravidanza potesse essere interrotta quando l'ulteriore gestazione implicasse «danno, o pericolo, grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile, per la salute della madre»); ovvero, piu' di recente, in materia di procreazione medicalmente assistita, con le sentenze n. 96 e n. 229 del 2015 (le quali hanno dichiarato illegittime, rispettivamente, le disposizioni che negavano l'accesso alle relative tecniche alle coppie fertili portatrici di gravi malattie genetiche, trasmissibili al nascituro, «accertate da apposite strutture pubbliche», e la disposizione che puniva ogni forma di selezione eugenetica degli embrioni, senza escludere le condotte di selezione volte a evitare l'impianto nell'utero della donna di embrioni affetti da gravi malattie genetiche trasmissibili accertate nei predetti modi). Nell'odierno frangente, peraltro, un preciso «punto di riferimento» (sentenza n. 236 del 2016) gia' presente nel sistema - utilizzabile ai fini considerati, nelle more dell'intervento del Parlamento - e' costituito dalla disciplina racchiusa negli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017: disciplina piu' volte richiamata, del resto, nella stessa ordinanza n. 207 del 2018. La declaratoria di incostituzionalita' attiene, infatti, in modo specifico ed esclusivo all'aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che gia' potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza, ai sensi dell'art. 1, comma 5, della legge ora citata: disposizione che, inserendosi nel piu' ampio tessuto delle previsioni del medesimo articolo, prefigura una "procedura medicalizzata" estensibile alle situazioni che qui vengono in rilievo. Il riferimento a tale procedura - con le integrazioni di cui si dira' in seguito - si presta a dare risposta a buona parte delle esigenze di disciplina poste in evidenza nell'ordinanza n. 207 del 2018. Cio' vale, anzitutto, con riguardo alle «modalita' di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l'aiuto». Mediante la procedura in questione e', infatti, gia' possibile accertare la capacita' di autodeterminazione del paziente e il carattere libero e informato della scelta espressa. L'art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017 riconosce, infatti, il diritto all'interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in corso alla persona «capace di agire» e stabilisce che la relativa richiesta debba essere espressa nelle forme previste dal precedente comma 4 per il consenso informato. La manifestazione di volonta' deve essere, dunque, acquisita «nei modi e con gli strumenti piu' consoni alle condizioni del paziente» e documentata «in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilita', attraverso dispositivi che le consentano di comunicare», per poi essere inserita nella cartella clinica. Cio', «[f]erma restando la possibilita' per il paziente di modificare la propria volonta'»: il che, peraltro, nel caso dell'aiuto al suicidio, e' insito nel fatto stesso che l'interessato conserva, per definizione, il dominio sull'atto finale che innesca il processo letale. Lo stesso art. 1, comma 5, prevede, altresi', che il medico debba prospettare al paziente «le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative», promovendo «ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica». In questo contesto, deve evidentemente darsi conto anche del carattere irreversibile della patologia: elemento indicato nella cartella clinica e comunicato dal medico quando avvisa il paziente circa le conseguenze legate all'interruzione del trattamento vitale e sulle «possibili alternative». Lo stesso deve dirsi per le sofferenze fisiche o psicologiche: il promovimento delle azioni di sostegno al paziente, comprensive soprattutto delle terapie del dolore, presuppone una conoscenza accurata delle condizioni di sofferenza. Il riferimento a tale disciplina implica, d'altro canto, l'inerenza anche della materia considerata alla relazione tra medico e paziente. Quanto all'esigenza di coinvolgimento dell'interessato in un percorso di cure palliative, l'art. 2 della legge n. 219 del 2017 prevede che debba essere sempre garantita al paziente un'appropriata terapia del dolore e l'erogazione delle cure palliative previste dalla legge n. 38 del 2010 (e da questa incluse, come gia' ricordato, nell'ambito dei livelli essenziali di assistenza). Tale disposizione risulta estensibile anch'essa all'ipotesi che qui interessa: l'accesso alle cure palliative, ove idonee a eliminare la sofferenza, spesso si presta, infatti, a rimuovere le cause della volonta' del paziente di congedarsi dalla vita. Similmente a quanto gia' stabilito da questa Corte con le citate sentenze n. 229 e n. 96 del 2015, la verifica delle condizioni che rendono legittimo l'aiuto al suicidio deve restare peraltro affidata - in attesa della declinazione che potra' darne il legislatore - a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale. A queste ultime spettera' altresi' verificare le relative modalita' di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignita' del paziente e da evitare al medesimo sofferenze. La delicatezza del valore in gioco richiede, inoltre, l'intervento di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze, il quale possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilita'. Nelle more dell'intervento del legislatore, tale compito e' affidato ai comitati etici territorialmente competenti. Tali comitati - quali organismi di consultazione e di riferimento per i problemi di natura etica che possano presentarsi nella pratica sanitaria - sono, infatti, investiti di funzioni consultive intese a garantire la tutela dei diritti e dei valori della persona in confronto alle sperimentazioni cliniche di medicinali o, amplius, all'uso di questi ultimi e dei dispositivi medici (art. 12, comma 10, lettera c, del d.l. n. 158 del 2012; art. 1 del decreto del Ministro della salute 8 febbraio 2013, recante «Criteri per la composizione e il funzionamento dei comitati etici»): funzioni che involgono specificamente la salvaguardia di soggetti vulnerabili e che si estendono anche al cosiddetto uso compassionevole di medicinali nei confronti di pazienti affetti da patologie per le quali non siano disponibili valide alternative terapeutiche (artt. 1 e 4 del decreto del Ministro della salute 7 settembre 2017, recante «Disciplina dell'uso terapeutico di medicinale sottoposto a sperimentazione clinica»). 6.- Quanto, infine, al tema dell'obiezione di coscienza del personale sanitario, vale osservare che la presente declaratoria di illegittimita' costituzionale si limita a escludere la punibilita' dell'aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato. 7.- I requisiti procedimentali dianzi indicati, quali condizioni per la non punibilita' dell'aiuto al suicidio prestato a favore di persone che versino nelle situazioni indicate analiticamente nel precedente punto 2.3., valgono per i fatti successivi alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica. In quanto enucleate da questa Corte solo con la presente sentenza, in attesa dell'intervento del legislatore, le condizioni procedimentali in questione non possono essere richieste, tal quali, in rapporto ai fatti anteriormente commessi, come quello oggetto del giudizio a quo, che precede la stessa entrata in vigore della legge n. 219 del 2017. Rispetto alle vicende pregresse, infatti, le condizioni in parola non risulterebbero, in pratica, mai puntualmente soddisfatte. Cio' impone una diversa scansione del contenuto della pronuncia sul piano temporale. Riguardo ai fatti anteriori la non punibilita' dell'aiuto al suicidio rimarra' subordinata, in specie, al fatto che l'agevolazione sia stata prestata con modalita' anche diverse da quelle indicate, ma idonee comunque sia a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti. Occorrera' dunque che le condizioni del richiedente che valgono a rendere lecita la prestazione dell'aiuto - patologia irreversibile, grave sofferenza fisica o psicologica, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e capacita' di prendere decisioni libere e consapevoli - abbiano formato oggetto di verifica in ambito medico; che la volonta' dell'interessato sia stata manifestata in modo chiaro e univoco, compatibilmente con quanto e' consentito dalle sue condizioni; che il paziente sia stato adeguatamente informato sia in ordine a queste ultime, sia in ordine alle possibili soluzioni alternative, segnatamente con riguardo all'accesso alle cure palliative ed, eventualmente, alla sedazione profonda continua. Requisiti tutti la cui sussistenza dovra' essere verificata dal giudice nel caso concreto. 8.- L'art. 580 cod. pen. deve essere dichiarato, dunque, costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., nella parte in cui non esclude la punibilita' di chi, con le modalita' previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017 - ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalita' equivalenti nei sensi dianzi indicati -, agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalita' di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. L'ulteriore questione sollevata in via principale per violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in riferimento agli artt. 2 e 8 CEDU, resta assorbita. Parimente assorbite restano le questioni subordinate, attinenti alla misura della pena. 9.- Questa Corte non puo' fare a meno, peraltro, di ribadire con vigore l'auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore, conformemente ai principi precedentemente enunciati.
per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilita' di chi, con le modalita' previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) - ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalita' equivalenti nei sensi di cui in motivazione -, agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalita' di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 settembre 2019. F.to: Giorgio LATTANZI, Presidente Franco MODUGNO, Redattore Roberto MILANA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 22 novembre 2019. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA