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AFFONDANO I PIANI FOSSILI DELLA CROAZIA, “ORMAI RESTA SOLO RENZI A VOLERE LE TRIVELLE NEI NOSTRI MARI”.

Sembra essere durato poco più di un anno il “sogno fossile” della Croazia nell’Adriatico. L’assalto del governo di Zagabria ai propri mari alla ricerca di petrolio ha infatti subito in questi giorni una chiara battuta d’arresto, dato che i contratti con le compagnie petrolifere assegnatarie dei “lotti” di estrazione predisposti dal governo guidato da Zoran Milanovic non sono stati firmati. L’intero progetto di sfruttamento intensivo delle risorse di idrocarburi offshore croate è dunque rimandato, almeno sino all’elezione di un nuovo governo, prevista nei prossimi mesi.

Diversamente da quanto annunciato, nella sua ultima riunione prima dello scioglimento del Parlamento l’esecutivo croato non ha affrontato la questione trivelle, né avviato un nuovo round per ricevere nuove offerte dalle compagnie petrolifere per lo sfruttamento degli altri lotti disponibili.

Negli ultimi mesi, inoltre, alcune delle aziende che avevano avuto in concessione dieci delle ventinove aree in cui è suddiviso il piano croato hanno fatto marcia indietro. Sette di quei lotti erano stati assegnati a un consorzio che includeva la Marathon Oil e la OMV. Queste compagnie hanno rinunciato definitivamente alle aree opzionate, mancando persino di “congelare” le concessioni ottenute, che sono state quindi rimesse. Si fanno inoltre sempre più insistenti le voci che vorrebbero anche la INA – una delle altre aziende interessate – in procinto di ritirarsi da questa impresa. Dei dieci lotti già assegnati, l’unico che al momento manterrebbe qualche chance di sfruttamento in futuro sarebbe quello assegnato a un consorzio formato dall’italiana ENI e dalla MedoilGas, la stessa compagnia responsabile del progetto Ombrina Mare in Abruzzo.

«Siamo davanti a un fallimento clamoroso della strategia fossile croata, che fa venir meno lo sciocco mantra del “se lo fanno i nostri vicini, perché non farlo anche noi?”, ripetuto in questi mesi dalle lobby petrolifere e dal governo italiano», commenta Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia. «Il tutto avviene per giunta nei giorni in cui anche la Shell interrompe le sue attività petrolifere nell’Artico. In vista della Conferenza sul Clima di Parigi, le grandi superpotenze mostrano segnali inediti di impegno per la riduzione delle emissioni e le compagnie petrolifere arretrano. A non accorgersi della direzione in cui vanno l’industria energetica e il mondo restano solo Renzi e il suo esecutivo».

Non mancano, peraltro, segnali importanti di indebolimento del piano fossile italiano. Sono già otto i consigli regionali che – avvalendosi per la prima volta di questa facoltà prevista dalla Costituzione – hanno votato per indire un referendum sullo Sblocca Italia e sul Decreto Sviluppo, i congegni normativi che oggi accelerano e facilitano l’avanzata delle trivelle nei nostri mari. Al momento vi sono sul tavolo le sorti di ben 88 procedimenti per il rilascio di nuove concessioni.

Tra l’altro, l’avanzata delle trivelle si regge su fragili presupposti: le compagnie petrolifere sono ‘invitate’ a estrarre nei nostri mari, a fronte del versamento di royalties tra le più basse al mondo, con la garanzia di procedimenti di analisi delle loro istanze indeboliti, di iter di approvazione ultrasemplificati e valutazioni ambientali che ignorano i rischi peggiori di questi impianti. Diversamente, le misere e qualitativamente povere riserve di petrolio e gas sotto i nostri fondali non varrebbero un piano di investimenti, né la realizzazione di infrastrutture energetiche.

«La strategia energetica del governo Renzi è sbagliata e procede in direzione ottusa e contraria», aggiunge Boraschi. «Non genera ricchezza, né occupazione, né tanto meno ridurrà la dipendenza energetica dell’Italia. Le trivelle uniscono tantissimi cittadini, movimenti, associazioni e governi locali in un secco ‘no’: è ora che, almeno per pudore della democrazia, Renzi li ascolti»

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