ADDEBITO DELLA SEPARAZIONE GIUDIZIALE:
analisi critica della giurisprudenza di legittimità e di merito in materia, con particolare riferimento alla interruzione di gravidanza.
A cura di Giulio La Barbiera
L’art. 151 c.c. prevede che la separazione possa essere richiesta al giudice quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio alla prole.1
In giurisprudenza, si afferma, al riguardo, che: “la formula adottata nel nuovo testo dell’art. 151 c.c. si presta anche a un’interpretazione aperta a valorizzare elementi di carattere soggettivo, costituendo la “intollerabilità” un fatto psicologico squisitamente, individuale riferibile alla formazione culturale, alla sensibilità e al contesto interno alla vita dei coniugi”.
Ne deriva che: “la possibilità attribuita dal nuovo testo della norma a ciascun coniuge, a prescindere dalle responsabilità o dalle colpe nel fallimento del matrimonio, di richiedere la separazione, ne ha eliminato il carattere sanzionatorio ed ha modificato la posizione giuridica dei coniugi in relazione alla continuazione del rapporto quando l’affectio coniugalis sia venuto meno” e dunque “pur dovendo, ai sensi del novellato art. 151 c.c. la separazione dei coniugi trovare causa di giustificazione in situazioni di intollerabilità della convivenza oggettivamente apprezzabili e giuridicamente controllabili, per la sua pronuncia non è necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere dalle condizioni di disaffezione e di distacco spirituale di una sola delle parti”.
Per tali motivi il giudice per pronunciare la separazione deve verificare, in base ai fatto obbiettivi emersi, “ivi compreso il comportamento processuale delle parti, con particolare riferimento alle risultanze del tentativo di conciliazione ed a prescindere da qualsivoglia elemento di addebitabilità, la esistenza, anche in un solo coniuge, di una condizione di disaffezione al matrimonio tale da rendere incompatibile, allo stato, pur a prescindere da elementi di addebitabiità a carico dell’altro, la convivenza” (Cass. civ., sez. I, 9 ottobre 2007, n. 21099 – conforme: Cass. civ., sez. I, 29 marzo 2011, n. 7125).
Va, inoltre, sottolineato, che “l’intollerabilità della convivenza non si può ritenere esclusa per il solo fatto che uno dei coniugi assuma un atteggiamento di accettazione e di disponibilità ,potendo tale atteggiamento trovare spiegazione in motivi pratici e nella prevalenza di concezioni etiche, ovvero in prospettive di recupero del rapporto” (Cass. civ., sez. I, 26 marzo 2010, n. 7264).2
Tale giurisprudenza di legittimità può, però, prestare il fianco a contestazioni di non poco momento, circa i limiti di pronuncia dell’addebito, nel momento in cui viene affiancata alla giurisprudenza di merito, alla luce dei valori tesi alla conservazione della genuinità del nucleo familiare, ai sensi degli articoli 29, secondo comma, 31, secondo comma, della Costituzione della Repubblica Italiana ed ex. art. 12 della Legge 4 agosto 1955 n. 848 (“Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmata a Parigi il 20 marzo 1952 – Gazzetta Ufficiale n. 221 del 24 settembre 1955”).
Tali contraddizioni si evidenziano palesemente, ad esempio, nella sentenza emessa dal tribunale di Monza in data 26 gennaio 2006. In tale pronuncia, i giudici di merito affermano che: “non è pronunciabile l’addebito della separazione a carico della moglie, la quale abbia deciso di interrompere la gravidanza senza aver coinvolto il marito-padre nella decisione” e pertanto non è accoglibile “la richiesta di pronunciare l’addebito della separazione per allontanamento dalla casa familiare , ove tale scelta sia l’effetto di un matrimonio già finito”.3
Il vulnus di tale dictum giudiziale risiede in due punti: 1)il diritto di esclusiva della donna a ricorrere alla interruzione di gravidanza in seno al rapporto matrimoniale, oltre che moralmente discutibile, viola la quintessenza del matrimonio come concepito dai Padri Costituenti, in quanto viene meno l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, dato che il padre viene ad essere ridotto ad un mero collaboratore procreativo e non ad un soggetto avente diritto ad espletare in maniera piena e soddisfacente il suo ruolo genitoriale.
Si viene in pratica a creare, in seno al consorzio coniugale, una bigenitorialità depotenziata che finisce, inevitabilmente, per tradursi per il padre in un danno esistenziale ex articolo 2059 c.c., qualificabile come “danno da mancata nascita desiderata”.
Venendo così violato l’art. 143 c.c. viene automaticamente violato sia l’art. 12 della Legge 848 del 4 agosto 1955 precedentemente citata che l’articolo , primo comma, della Legge 194 del 1978 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza (Pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale Gazzetta Ufficiale del 22 maggio 1978, n. 140) , con riferimento al “diritto alla procreazione cosciente e responsabile”, in quanto viene ad essere escluso dalle vicende relative al puerperio femminile la figura maritale e paterna che rappresenta, indiscutibilmente, al pari della donna-moglie-madre, una figura fondamentale nella dimensione etico-sociale del nucleo familiare.
Esemplificando: non può escludersi, nel contesto sociale attuale, che possa essere utilizzato, anche a causa dell’agire di personale medico come minimo poco accorto, il ricorso allo pratica dell’aborto per fini di pura convenienza materiale ( ad es. il rifiuto della donna-moglie e potenziale madre di voler cambiare il proprio stile di vita in virtù della nascita di un figlio o di una figlia), facendoli passare per motivi sussumibili come “grave pericolo per la vita della donna” (art. 6 Lett. a) della Legge 194/1978), pure laddove, alla luce dei recenti ritrovati della scienza medica, potrebbe risultare perfettamente curabile e guaribile sia qualsiasi patologa del feto o derivante alla gestante.
Detto in altri termini, l’intento legislativo originario di salvaguardia della salute della donna rischia, oggigiorno, di essere facilmente violato. In questa prospettiva, non si può, dunque, escludere che un aborto, richiesto ed ottenuto dalla donna, possa fare diventare soggetto leso il marito, facendo decadere in capo a lei ogni diritto alla richiesta di separazione giudiziale, che potrebbe, di conseguenza essere legittimamente richiesta da marito privato della sua realizzazione esistenziale scaturente dalla paternità, in quanto l’agire della moglie ciò configurerebbe una condotta pregressa deliberatamente violativa degli obblighi di assistenza materiale e morale connotanti il vincolo matrimoniale.4
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Da: Nel Diritto – Compendio di diritto civile – tomo primo – il diritto civile in tasca (Roma , novembre 2013) pagg. 75 – 76.
[2] Le suindicate sentenze sono tratte da: art. 151 par 12 “Intollerabilità che giustifica la separazione giudiziale tra i coniugi: valenza soggettiva” – Luigi Tramontano – codici civile e penale annotati con la giurisprudenza per l’esame di avvocato 2013 – Cedam.
[3] art. 151 par 13 “limiti di pronunciabilità dell’addebito” Idem.
[4] Si legga in tal senso: Cass. civ., sez. I, settembre 2005, n. 17710: “Il comportamento tenuto dal coniuge successivamente al venir meno della convivenza, ma in tempi immediatamente prossimi a detta cessazione, sebbene privo, in sé, di efficacia autonoma nel determinare l’intollerabilità della convivenza stessa, può nondimeno rilevare i fini della dichiarazione di addebito della separazione allorchè costituisca una conferma del passato e concorra ad illuminare una condotta pregressa. Da: art. 151 par 6 “Comportamento dei coniugi successivo alla separazione” – Luigi Tramontano – Codici civile e penale annotati con la giurisprudenza per l’esame di avvocato 2013 – Cedam.