SCIA
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di Daniela Di Paola. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 164 del 27 giugno 2012, ha affermato che la disciplina della SCIA, di cui all’art. 49, cc. 3-bis e 3-ter del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, è riferibile al livello essenziale delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali e, come tale trova diretta applicazione anche nelle regioni a statuto speciale.

La questione di legittimità costituzionale è stata proposta con ricorsi della Regione Autonoma Valle d’Aosta e delle regioni Toscana, Liguria, Emilia-Romagna, Puglia, che hanno investito in più parti il d.l. n. 78/2010: la Corte Costituzionale, riservando ad una successiva pronuncia la decisione sulla impugnazione delle altre norme, con la sentenza in esame ha scrutinato la sola questione relativa all’ art. 49, cc. . 3-bis e 3-ter del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 e all’art. 5, c.1, lett. b), e c. 2, lett. b) e c), del d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 106 del 2011, “nella parte in cui tale articolo conferma o dispone l’applicabilità della SCIA alla materia edilizia”, decretandone l’infondatezza.

Come è noto, l’art. 49, c. 3-bis, sostituendo l’art. 19 della L. n. 241/2010, ha introdotto l’istituto della Segnalazione certificata di inizio attività (Scia), attraverso cui il privato può dare inizio immediato all’attività, previa segnalazione all’amministrazione competente. L’amministrazione, entro 60 giorni (trenta per la Scia applicata alla materia edilizia), in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti legittimanti, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa, salva la possibilità che l’interessato provveda a conformare alla normativa vigente detta attività ed i suoi effetti entro un termine fissato dall’amministrazione.

Con il successivo c. 3-ter, è stabilito che la disciplina della Scia attiene alla tutela della concorrenza ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, e costituisce livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali ai sensi della lettera m) del medesimo comma; che le espressioni “segnalazione certificata di inizio attivita’” e “Scia” sostituiscono, rispettivamente, quelle di “dichiarazione di inizio attivita’” e “Dia”, ovunque ricorrano e che la disciplina della Scia sostituisce quella della dichiarazione di inizio attività recata da ogni normativa statale e regionale.

Secondo i ricorrenti, l’abrogazione immediata, diretta ed indiscriminata, di ogni normativa di settore adottata dalla Regione nella quale sia stata prevista la DIA, indipendentemente dall’ambito materiale coinvolto, e la contestuale sostituzione di tale normativa con quella dettata dal legislatore statale in tema di SCIA, si porrebbe in contrasto insanabile con le garanzie costituzionali concernenti il riparto delle competenze legislative tra lo Stato e le Regioni; se applicate all’attività edilizia, violerebbero le competenze regionali nella materia del governo del territorio, attribuito alla potestà legislativa concorrente delle Regioni ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost. (e, con specifico riferimento alla regione autonoma Valle d’Aosta, la competenza regionale primaria in materia urbanistica, prevista dall’art. 2, comma 1, lettera g) dello Statuto speciale). Analoghe prerogative regionali verrebbero inoltre lese per effetto dell’applicazione della disposizione ad ulteriori ambiti, diversi dall’edilizia, attribuiti alla legislazione residuale regionale, sui quali incide la disciplina della Scia (commercio, artigianato, turismo, attività produttive in genere).

Un ulteriore profilo di censura si incentra sul principio di ragionevolezza: mentre infatti – osserva la Regione Emilia-Romagna – “nel settore commerciale, la cui regolamentazione spetta per competenza residuale alla Regione, l’immediato inizio di attività in assenza dei presupposti richiesti non sarebbe particolarmente grave, in quanto l’attivazione del potere inibitorio e di rimozione degli eventuali effetti dannosi medio tempore cagionati potrebbe essere idoneo a tutelare gli interessi protetti dalle normative, l’attività edilizia determina immediatamente una materiale alterazione del territorio, anche se gli interventi potrebbero essere poi rimossi. Tuttavia, il ripristino della situazione pregressa non sempre sarebbe possibile, sia sotto il profilo materiale (come ricavabile dall’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, che si occupa dei profili sanzionatori di opere abusive in relazione alle quali non sia possibile il ripristino dello stato dei luoghi), sia per gli eccessivi costi che, pur se ricadenti sui privati trasgressori, risulterebbero nel concreto spesso non sostenibili dal privato che avrebbe l’obbligo di rimuovere gli effetti dannosi. Anche il meccanismo dell’esecuzione in danno rappresenterebbe una soluzione di disagevole attuazione pratica, come dimostra l’esperienza comune delle difficoltà che le amministrazioni incontrano nell’ottenere la demolizione degli interventi abusivi.” Ciò, a maggior ragione, ove si consideri l’estrema brevità del termine di trenta giorni previsto per l’esercizio del potere inibitorio da parte della pubblica amministrazione nella materia edilizia. La concreta possibilità che il territorio risulti permanentemente danneggiato configurerebbe quindi la lesione dell’art. 9, c. 2 della Costituzione, in riferimento alla tutela del paesaggio.

Le regioni ricorrenti contestano quindi l’”autoqualificazione” del comma 3-ter quale norma attinente le materie della concorrenza e della determinazione del livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.

La Corte Costituzionale, dopo aver premesso che la qualificazione legislativa non ha efficacia vincolante, non valendo ad attribuire alle norme una natura diversa da quella ad esse propria, quale risulta dalla loro oggettiva sostanza, ha espresso i seguenti principi:

– E’ inappropriato il richiamo alla tutela della concorrenza, effettuato dal citato art. 49, comma 4-ter, poiché la disciplina della Scia ha un ambito applicativo diretto alla generalità dei cittadini e perciò va oltre la materia della concorrenza. E’ possibile che vi siano casi nei quali quella materia venga in rilievo, ma si tratta di fattispecie da verificare in concreto (per esempio, in relazione all’esigenza di eliminare barriere all’entrata nel mercato).

– Viceversa, è corretto il riferimento alla materia della determinazione del livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali ,di cui all’art. 117, c. 2, lett. m), Cost.. La Scia costituisce infatti una prestazione specifica, circoscritta all’inizio della fase procedimentale strutturata secondo un modello ad efficacia legittimante immediata, che attiene al principio di semplificazione dell’azione amministrativa ed è finalizzata ad agevolare l’iniziativa economica (art. 41, primo comma, Cost.), tutelando il diritto dell’interessato ad un sollecito esame, da parte della pubblica amministrazione competente, dei presupposti di diritto e di fatto che autorizzano l’iniziativa medesima.

–  L’art. 117, c. 2, lett. m), Cost. permette una restrizione dell’autonomia legislativa delle Regioni, giustificata dallo scopo di assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti civili e sociali tutelati dalla stessa Costituzione

– Le considerazioni fin qui svolte vanno applicate anche alla SCIA in materia edilizia, come ormai in modo espresso dispone l’art. 5, comma 1, lettera b), e comma 2, lettere b) e c), del d.l. n. 70 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 106 del 2011, entro i limiti e con le esclusioni previsti. Infatti, ribadito che la normativa censurata riguarda soltanto il momento iniziale di un intervento di semplificazione procedimentale, e precisato che la SCIA non si sostituisce al permesso di costruire (i cui ambiti applicativi restano disciplinati in via generale dal d.P.R. n. 380 del 2001), non può porsi in dubbio che le esigenze di semplificazione e di uniforme trattamento sull’intero territorio nazionale valgano anche per l’edilizia. È ben vero che questa, come l’urbanistica, rientra nel «governo del territorio», materia appartenente alla competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni (art. 117, terzo comma, Cost.). Tuttavia, a prescindere dal rilievo che in tale materia spetta comunque allo Stato dettare i principi fondamentali (nel cui novero va ricondotta la semplificazione amministrativa), è vero del pari che nel caso di specie, sulla base degli argomenti in precedenza esposti, il titolo di legittimazione dell’intervento statale nella specifica disciplina della SCIA si ravvisa nell’esigenza di determinare livelli essenziali di prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, compreso quello delle Regioni a statuto speciale. In altri termini, si è in presenza di un concorso di competenze che, nella fattispecie, vede prevalere la competenza esclusiva dello Stato, essendo essa l’unica in grado di consentire la realizzazione dell’esigenza suddetta.

Andranno a questo punto rivisti gli orientamenti giurisprudenziali che, negando alla disciplina della DIA/SCIA la riconducibilità al livello essenziale delle prestazioni, ne hanno ridotto gli ambiti applicativi (cfr., con riferimento alle regioni autonome, cui lo statuto riconosca potestà normativa primaria in materia urbanistica, la recente sent. TAR VALLE D’AOSTA – 15 maggio 2012, n. 48).

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