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Di Stefano Nespor. Il Ministero per l’istruzione, l’università e la ricerca scientifica, MIUR, datore di lavoro con oltre un milione di dipendenti – una delle più grandi aziende del mondo per numero di addetti – utilizza da decenni docenti con rapporti di lavoro a termine per lo più annuali (ma spesso di durata più breve), ripetutamente rinnovati alla scadenza. Questi docenti sono adibiti non a supplenze su posti assegnati a un titolare assente per un periodo di tempo limitato (congedo, maternità ecc.) ma alla copertura di posti vacanti e disponibili nell’organico, c.d. organico di diritto, in attesa di effettuare concorsi che, appunto, da decenni non vengono banditi. Sono inoltre adibiti alla copertura di posti non concretamente vacanti ma disponibili al termine dell’anno scolastico (sono posti che restano spesso disponibili anno dopo anno).
In passato, tutti questi lavoratori, una volta raggiunto un predeterminato numero di anni di insegnamento, avevano diritto di partecipare a concorsi riservati per l’accesso in ruolo, banditi accanto ai concorsi per l’accesso in ruolo per titoli ed esami (via via sempre più rari). Questo sistema di accesso bipartito venne fissato dalla L. 417/1989. La normativa è stata poi più volte modificata.
Prima con il TU 164/94 n. 297 che ha previsto l’accesso in ruolo mediante concorsi in parte per soli titoli, per il personale con esperienza di insegnamento, immesso nelle apposite graduatorie, e in parte per titoli ed esami.
Poi, con la L. 3/5/99 n. 124 (si tratta delle consuete «disposizioni urgenti» con cui si introducono nell’ordinamento le modifiche più durature) che ha previsto l’accesso diretto in ruolo per il personale incluso nelle graduatorie, trasformate in graduatorie permanenti.
Poi con la L. 53/03 («riforma Moratti»).
Poi con la L. 296/06 (inserita nella «riforma Gelmini») che ha trasformato le graduatorie permanenti in graduatorie a esaurimento al dichiarato fine di «assorbire il precariato» (!). Ovviamente, bloccando l’accesso alle graduatorie, mentre viene prospettato un «assorbimento » del docente precario in attività, viene creato un «preprecariato» composto da tutti i giovani laureati che non hanno neppure questa speranza.
In questo modo ciascun lavoratore precario accumula punteggio per i periodi effettivamente lavorati e risale così nell’apposita graduatoria a esaurimento, acquisendo priorità sia per le chiamate per successivi rapporti a termine e sia per ottenere l’immissione in ruolo (senza alcuna prova selettiva e senza l’abilitazione un tempo prevista).
Pertanto, l’utilizzo da parte del Miur del rapporto a termine non solo non ha carattere eccezionale ma è un meccanismo normale con il quale i dipendenti acquisiscono posizioni di priorità nelle graduatorie e addirittura possono aspirare all’accesso a un posto stabile.
Va subito detto che l’impiego di lavoratori precari nella scuola, al di là del limite fisiologico dovuto all’utilizzazione di supplenti in caso di assenza di docenti titolari ed, eventualmente, di un ristretto quantitativo di docenti che garantisce la necessaria flessibilità del sistema non solo è illegittimo perché viola la normativa nazionale e comunitaria (sul punto, sono ormai migliaia i ricorsi che si addensano davanti ai Tribunali e alle Corti di appello del lavoro), ma è anche vistosamente contrario a un primario interesse pubblico: quello di erogare un’efficiente e competitiva istruzione scolastica.
Infatti, a prescindere dall’abolizione di fatto di qualsiasi meccanismo selettivo per l’individuazione dei più meritevoli (pur previsto dalla Costituzione), da un lato nessun docente precario investe ragionevolmente tempo e mezzi per curare la sua preparazione professionale e il suo rapporto con gli studenti, non avendo alcuna certezza di mantenere in futuro il posto di lavoro; d’altro lato, gli studenti si ritrovano ogni anno a dover subire un girotondo di insegnanti che, per effetto della progressione nelle graduatorie dei precari, si spostano allorché possono ottenere posti più ambiti (per esempio perché geograficamente più comodi).
Tutto ciò va tenuto presente quando si parla della necessità di vincere le sfide competitive della globalizzazione partendo dall’erogare un’istruzione qualificata: la sfida comincia, come dimostrano tutti gli studi realizzati in proposito, non dalle strutture o dall’impiego di mezzi telematici, ma garantendo agli studenti buoni docenti che abbiano la sicurezza di poter seguire gli studenti che sono loro affidati e che siano anche, sotto ogni profilo, responsabili della loro istruzione.
Bene, questo sistema illegittimo e contrario all’interesse pubblico si è consolidato e incrementato nel corso del tempo per l’irresponsabilità dei governi di ogni tipo e colore che negli anni si sono succeduti (spesso con il contributo delle organizzazioni sindacali): responsabilità dovuta a incuria, inefficienza e anche calcolo (perché tutto sommato, è sempre politicamente e clientelarmente utile avere lavoratori senza stabilità del posto di lavoro da poter manovrare).
Soluzioni ragionevoli e legittime a questa situazione sono pressoché impossibili.
È impossibile ricondurre il sistema a normalità e rispettare il dettato costituzionale, selezionando i docenti in base al merito sulla base di procedimenti concorsuali: verrebbero azzerate o comunque gravemente compromesse le aspettative, ormai consolidatesi, di tutti quei docenti che da anni sono costretti a un impiego precario e malpagato, con la speranza di giungere ad un rapporto stabile.
D’altro canto, la conversione dei rapporti a termine illegittimamente costituiti e prorogati da anni in rapporti a tempo indeterminato, oltre che stridente con i principi costituzionali, non è consentita dalla normativa nazionale, che preclude questa soluzione qualora il datore di lavoro sia la Pubblica Amministrazione (art.36 del TU 165\2001). La conversione dei rapporti a termine in rapporti a tempo indeterminato è poi preclusa anche dalla normativa speciale dell’ordinamento scolastico, adottata non per perseguire l’interesse pubblico di garantire ottimi docenti per formare studenti preparati e pronti ad entrare nel mondo del lavoro con strumenti conoscitivi adeguati, ma per gestire la lenta distruzione della scuola italiana.
(da una nota che sarà pubblicata su D&L – Rivista critica di diritto del lavoro privato e pubblico).

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