di Carlo Rapicavoli –
Il breve esame dei contenuti della riforma costituzionale, sulla quale saremo chiamati ad esprimerci il 4 dicembre, svolto nelle ultime settimane, è stato articolato nelle quattro parti essenziali:
a) Il superamento del bicameralismo perfetto e il nuovo procedimento legislativo;
b) Il nuovo Senato
c) La riforma del titolo V – la ridefinizione delle competenze regionali – la sorte delle autonomie locali
d) Le garanzie costituzionali – il Presidente della Repubblica – la Corte Costituzionale – gli strumenti di partecipazione popolare.
Si è cercato, in tal modo, di evidenziarne contenuti e criticità, senza alcuna pretesa di esaustività, data la complessità degli argomenti e tutti gli aspetti che una riforma, di così ampia portata, investe.
Si possono trarre a questo punto alcune valutazioni conclusive.
Va evidenziato, innanzitutto, come il dibattito che sta animando, da mesi, la campagna referendaria è focalizzato solo in minima parte sui contenuti della riforma, assumendo una connotazione di contrapposizione politico-partitica del tutto estranea alla materia costituzionale.
Tale eccessiva caratterizzazione del confronto ha snaturato la natura stessa del referendum e determinato una diffusa disinformazione sul merito della riforma.
Non si può non constatare come gli stessi messaggi “istituzionali”, per loro finalità destinati ad informare i cittadini, finiscono per assumere valenza di parte, a tale scopo indotti o facilitati dalla stessa formulazione del quesito (corrispondente al titolo della legge) che evidenzia, in modo efficace, le finalità della riforma con valenza mediatica.
Ci si è spinti al punto da prospettare catastrofi inenarrabili in caso prevalga il no alla riforma, con il compiacente avallo dell’informazione che da mesi enfatizza la prossima scadenza e le dichiarazioni apodittiche di un gran numero di soggetti, anche internazionali, che intervengono sul tema, in modo irrituale e disinformato.
Si è persa così di vista l’esigenza di un confronto serio e approfondito.
Le prospettive di esame variano sostanzialmente se si concentra l’attenzione sul complesso della riforma anziché su singole parti di essa.
L’artificio, certamente efficace sul piano comunicativo, di suddividere per punti le questioni, peraltro riportate nel titolo della legge e, conseguentemente, nel quesito referendario è parziale e fuorviante.
Titolo della legge e quesito scindono la riforma in cinque parti:
1) Superamento del bicameralismo paritario
2) Riduzione del numero dei parlamentari
3) Contenimento dei costi di funzionamento delle Istituzioni
4) Soppressione del CNEL
5) Revisione del titolo V
Non v’è dubbio che articolata in questi termini la proposta, appare difficilmente non condivisibile.
Chi, di principio, può essere contrario al contenimento dei costi delle Istituzioni o alla riduzione del numero dei parlamentari o allo stesso superamento del bicameralismo paritario?
La soppressione del CNEL è poi diventata un simbolo, una bandiera della portata riformatrice del progetto in discussione, con una campagna di denigrazione e delegittimazione, amplificata dalla stampa, senza sosta, senza il benché minimo sforzo di approfondimento.
In realtà scindere il progetto di riforma in punti, o peggio per slogan, non è operazione corretta.
L’approfondimento ed il dibattito dovrebbero concentrarsi sul progetto complessivo di modifica, meglio su come la “nuova” Costituzione, che deriverebbe dalla riforma, disegna il nostro ordinamento e il modello della nostra Repubblica.
Non si può infatti affermare che la revisione in atto ha solo l’obiettivo di “modernizzare” il Paese senza intaccare i principi fondamentali della Costituzione del 1948, soltanto perché formalmente non si modifica la prima parte. E’ ovvio ed evidente che la seconda parte, profondamente modificata, che disciplina l’ordinamento della Repubblica, deve discendere dalla parte sui principi ed essere a questi conforme, in un disegno unitario che è invece venuto meno.
Si può essere favorevoli o contrari, ma bisogna avere consapevolezza che la riforma introduce un nuovo e diverso modello di organizzazione della Repubblica.
Rinviando alla trattazione delle varie parti della riforma l’esame delle criticità, va evidenziato in conclusione che il modello che ne deriva:
a) limita notevolmente le autonomie locali e regionali
• Non chiarisce né risolve le principali questioni critiche derivanti dalla riforma del 2001; sancisce il ritorno al potere dello Stato, imprimendo al sistema delle relazioni tra Stato ed enti territoriali una netta svolta centralista, registrando una radicale inversione di rotta rispetto alla riforma del 2001, che, almeno nei punti fondanti, realizzava un disegno autonomistico della Repubblica, fondato sul maggior ruolo possibile, oltre che delle Regioni, specie sul piano legislativo, anche dei Comuni e delle Province o delle Città metropolitane, sulla base di quei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, che permangono affermati anche nel nuovo testo dell’art. 118, ma che vengono sostanzialmente disattesi nel nuovo assetto costituzionale.
• Viene limitato fortemente il potere legislativo delle Regioni; non si rinvengono elementi di chiarezza nella distribuzione delle competenze tali da far presumere il superamento del contenzioso, a meno di non assistere ad un frequente richiamo alla supremazia statale.
• Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie di competenza regionale quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale.
b) prevede un diverso procedimento legislativo che non supera del tutto il bicameralismo
• A fronte del condivisibile obiettivo del superamento del bicameralismo paritario, si è introdotto un sistema farraginoso, ricco di questioni non chiaramente definite, fonte di possibili frequenti contenziosi, sia in fase di svolgimento dell’iter di formazione delle leggi, sia successivamente, potendo sempre essere sollevata questione di legittimità di una norma perfezionatasi in violazione di norma costituzionale.
• Criticare il “bicameralismo perfetto” della Costituzione vigente non vuol dire necessariamente sottoscrivere un testo che “non funzionerà mai e complicherà in modo incredibile i lavori del Parlamento”.
c) rafforza in modo significativo il ruolo del Governo
• La riforma delinea un ruolo predominante del Governo, tale da scalfire in profondità il principio di separazione dei poteri chiaramente delineato dall’attuale Costituzione, in particolare nel nuovo testo dell’art. 72 che attribuisce al Governo un ruolo centrale, legittimato dalla Costituzione, sui lavori parlamentari.
E’ sufficiente qualificare il disegno di legge come “essenziale per l’attuazione del programma” per ottenere dalla Camera dei Deputati l’inserimento all’ordine del giorno e la pronuncia definitiva entro settanta giorni.
Chi può ritenere “essenziale” un disegno di legge per l’attuazione del programma se non il Governo stesso?
Trattasi evidentemente di valutazione esclusivamente politica e non giuridica difficilmente sanzionabile anche dalla stessa Corte Costituzionale.
• L’effetto combinato della decretazione d’urgenza (da convertire entro sessanta giorni o, novanta giorni nei casi in cui il Presidente della Repubblica abbia chiesto, a norma dell’articolo 74, una nuova deliberazione) e del “procedimento legislativo prioritario” richiesto, senza contraddittorio, dal Governo, determina sostanzialmente il venir meno di ogni ragionevole possibilità di organizzazione autonoma dei lavori parlamentari o di trattazione in tempi ragionevoli delle iniziative legislative parlamentari o di fonte regionale o popolare, sancendo di fatto e di diritto costituzionale la supremazia del Governo.
d) attenua in modo significativo le garanzie costituzionali e non favorisce gli strumenti di partecipazione popolare né facilita l’iniziativa dei cittadini nel costituirsi nei corpi intermedi
Sempre meno garantita è la partecipazione e l’occasione per concorrere a determinare le politiche del Paese; nessuna riforma è stata mai realizzata per adeguare i partiti al ruolo che la Costituzione attribuisce agli stessi.
Il tema della “modernizzazione” delle Istituzioni, per rendere il Paese al passo con i tempi, di indubbia attualità, sembra cedere il passo alle esigenze contingenti ed alla crisi del sistema politico-partitico, attribuendo alle Istituzioni i difetti e i limiti della classe politica.
e) comprime i livelli di partecipazione e di rappresentanza democratica
• Elimina il Senato elettivo
• Elimina le Province elettive
f) disegna un Paese con fortissime disomogeneità
• accentua le differenze tra le Regioni a statuto speciale, che non subiscono alcun effetto dalla riforma, dalle Regioni a statuto ordinario che, al contrario, vedono fortemente circoscritti gli ambiti di competenza legislativa.
Si accentua così il divario, che già segna il nostro ordinamento, e che si traduce, a vantaggio delle Regioni a statuto speciale, non solo in maggiori competenze legislative e amministrative, ma anche garanzie specifiche di maggiori risorse finanziarie rispetto a quelle ordinarie, in base a leggi speciali o alle previsioni dei rispettivi statuti, approvati con leggi costituzionali.
La riforma costituzionale subordina e rinvia la possibile applicazione alle Regioni speciali e alle Province autonome di Trento e Bolzano del nuovo titolo V a future intese con le istituzioni territoriali interessate.
Il termine “intese” non lascia spazio a dubbi interpretativi: dette Regioni possono esercitare un potere di veto, rifiutando l’intesa, su qualunque ipotesi di modifica statutaria o finanziaria o di assetto di competenze ritenute sfavorevoli.
Gli statuti speciali sono più garantiti della Costituzione medesima, giacché nel loro caso occorre un passaggio in più rispetto alla procedura di revisione costituzionale, l’intesa, con un procedimento ultrarafforzato, che impedisce di fatto ogni possibile modifica.
• riconosce tutela e autonomia costituzionale alle Città metropolitane (ad oggi 14 Enti di secondo livello corrispondenti ad altrettante ex Province) ma elimina le Province dagli Enti costitutivi della Repubblica per organizzare la rimanente parte del territorio nazionale in Enti di area vasta, anch’essi previsti in Costituzione, senza una precisa fisionomia istituzionale.
E’ evidente che intervenire in un assetto costituzionale definito, cancellando uno degli enti costitutivi della Repubblica, senza delineare un nuovo e diverso ordinamento, rischia di determinare gravi conseguenze.
Si dubita fortemente che questo processo di decostituzionalizzazione e di sostanziale regionalizzazione degli enti autonomi intermedi, salvo nelle aree metropolitane, sia compatibile col principio autonomistico, visto che queste istituzioni – espressive di comunità territoriali che non sono certo venute meno, anzi si sono nel tempo consolidate – erano state finora riconosciute e ricomprese tra le istituzioni costitutive della Repubblica, in applicazione di quanto sancito dall’art. 5 Cost.
Nasce dunque un nuovo ordinamento della Repubblica, senza un vero confronto nel Paese e senza un preventivo mandato popolare costituente.
Si segna una decisiva inversione di tendenza rispetto alla riforma del 2001, riaccentrando il potere a livello centrale, dopo aver individuato nel decentramento (o federalismo mai realizzato) la principale causa di inefficienza nell’utilizzo delle risorse.
Ma siamo così certi che centralizzare è la soluzione?
L’attuale debito pubblico non si è determinato a causa delle Regioni ed ancor meno degli enti locali. È passato dal 60% a oltre il 100% negli anni Ottanta del secolo scorso, prima della riforma del 2001.
Lo Stato ha sempre conservato ed esercitato, a norma dell’art. 119, la funzione di indirizzo e coordinamento finanziario. Nessuna modificazione è stata introdotta con la riforma del 2001 e la Corte costituzionale ha attribuito a tale funzione una capacità espansiva eccezionale, legittimando spesso interventi invasici della legge statale rispetto alle competenze regionali e locali.
La riforma costituzionale del 2012 ha ulteriormente rafforzato la centralità dello Stato nel sistema di finanza pubblica riducendo l’ambito di autonomia delle Regioni e degli Enti Locali prevista dal Titolo V della Costituzione.
L’appuntamento referendario, già complesso e di grande criticità, è stato caricato di argomenti e contenuti totalmente estranei, facendo perdere di vista il reale contenuto, già compresso dal dover esprimere un sì o un no su una riforma articolata e che potrebbe essere in parte condivisibile.
Fare dell’esito referendario un punto di non ritorno, che farà prevalere definitivamente chi vuole modernizzare il Paese oppure chi vuole cacciarlo nella crisi e nell’immobilismo, è irresponsabile.
Riportare il dibattito sul merito della riforma, spiegandone davvero i contenuti nonché il modello e la visione dello Stato che racchiude, sarebbe doveroso e auspicabile.
In ogni caso continuare a fare della riforma terreno di scontro fra fazioni, per finalità diverse e contingenti, del tutto estranee ad ogni processo costituente, rappresenta il più grande tradimento dei valori fondanti della nostra Carta Costituzionale e ne segna già il fallimento qualunque sia l’esito referendario.