Mais OGM
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Il Consiglio di Stato si è nuovamente pronunciato sugli OGM, rigettando il ricorso del Signor Fidenato:

 

FATTO e DIRITTO

1. L’odierno appellante, intendendo seminare sui propri terreni (nelle Province di Pordenone e di Udine) la varietà di mais OGM MON 810, ha impugnato dinanzi al TAR del Lazio il d.m. adottato dal Ministero della salute, di concerto con quelli delle politiche agricole e dell’ambiente, in data 12 luglio 2013, con cui la coltivazione della predetta varietà è stata vietata fino La sentenza all’adozione di misure comunitarie d’urgenza di cui all’art. 54, comma 3, del regolamento (CE) n. 178/2002, e comunque per un periodo non superiore a diciotto mesi dalla data del provvedimento.

2. Il TAR del Lazio, con la sentenza appellata (III-quater, n. 4410/2014), ha respinto il ricorso.

2.1. A tal fine, ha innanzitutto individuato la disciplina di riferimento vigente. E’utile riprodurre anche in questa sede, con minime modifiche, l’esito di detta ricognizione.

(a) – a livello comunitario, la coltivazione di OGM a scopo sperimentale e commerciale è disciplinata dalla direttiva n. 2001/18/CE e dai regolamenti (CE) n. 1829/2003 e n. 1830/2003.

In particolare, per quanto più direttamente interessa ai fini della presente controversia, il regolamento n. 1829/2003: (a.1) – prevede (agli artt. 15-23) una procedura comunitaria per l’autorizzazione all’immissione in commercio di alimenti e mangimi prodotti da OGM, in base alla quale, in sintesi: le aziende interessate devono presentare una domanda di autorizzazione alla Commissione Europea, corredata da un dossier con le informazioni scientifiche disponibili utili a valutare la sicurezza per la salute umana, animale e dell’ambiente, su cui esprima il proprio parere l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare – EFSA; l’autorizzazione è temporanea e rinnovabile, e può essere sospesa o revocata (art. 22) qualora non soddisfi più le condizioni di legge; (a.2) – prevede, all’art. 34, che “Quando sia manifesto che prodotti autorizzati dal presente regolamento o conformemente allo stesso possono comportare un grave rischio per la salute umana, per la salute degli animali o per l’ambiente ovvero qualora, alla luce di un parere dell’Autorità formulato ai sensi degli articoli 10 e 22, sorga la necessità di sospendere o modificare urgentemente un’autorizzazione, sono adottate misure conformemente alle procedure previste agli articoli 53 e 54 del regolamento (CE) n. 178/2002”; a sua volta, detto art. 54 stabilisce che “Qualora uno Stato membro informi ufficialmente la Commissione circa la necessità di adottare misure urgenti e qualora la Commissione non abbia agito in conformità alle disposizioni dell’articolo 53, lo Stato membro può adottare misure cautelari provvisorie. Esso ne informa immediatamente gli altri Stati membri e la Commissione.” (par. 1). “Entro dieci giorni lavorativi, la Commissione sottopone la questione al comitato istituito dall’articolo 58, paragrafo 1, secondo la procedura di cui all’articolo 58, paragrafo 2 ai fini della proroga, modificazione od abrogazione delle misure cautelari provvisorie nazionali.” (par. 2). “Lo Stato membro può lasciare in vigore le proprie misure cautelari provvisorie fino all’adozione delle misure comunitarie.” (par. 3).

(b) – la Corte di Giustizia, con sentenza della IV Sezione in data 8 settembre 2011, in cause da C-58/10 a C-68/10, riguardo ai presupposti indicati dal suddetto art. 34, ha affermato che “…occorre considerare che le espressioni «manifesto» e «grave rischio» devono essere intese come atte a riferirsi a un serio rischio che ponga a repentaglio in modo manifesto la salute umana, la salute degli animali o l’ambiente. Questo rischio deve essere constatato sulla base di nuovi elementi fondati su dati scientifici attendibili. Infatti, misure di tutela adottate in forza dell’art. 34 del regolamento n. 1829/2003 non possono essere validamente motivate con un approccio puramente ipotetico del rischio, fondato su semplici supposizioni non ancora accertate scientificamente. Al contrario, siffatte misure di tutela, nonostante il loro carattere provvisorio e ancorché esse rivestano un carattere preventivo, possono essere adottate solamente se fondate su una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, che dimostrino che tali misure sono necessarie …”.

(c) – a livello nazionale, con il d.lgs. 212/2001 era stata prevista una autorizzazione nazionale alla coltivazione di sementi geneticamente modificate (che andava ad aggiungersi all’autorizzazione comunitaria relativa all’immissione in commercio), e con il d.l. 279/2004, convertito nella legge 5/2005, erano stati introdotti due principi fondamentali: (c.1) – quello della coesistenza della colture tramite la separazione delle filiere, prevedendosi a tal fine l’adozione, con decreto ministeriale di intesa con le Regioni e le Province autonome, di piani di coesistenza; (c.2) – quello della libertà di scelta del consumatore circa il tipo di prodotto da usare (biologico, convenzionale o transgenico).

(d) – la Corte di Giustizia, con sentenza della IV Sezione in data 6 settembre 2012, in C-36/11, riguardo al d.lgs. 212/2001, ha affermato che “…uno Stato membro non è libero di subordinare a un’autorizzazione nazionale, fondata su considerazioni di tutela della salute o dell’ambiente, la coltivazione di OGM autorizzati in virtù del regolamento n. 1829/2003 ed iscritti nel catalogo comune in applicazione della direttiva 2002/53.70 . Al contrario, un divieto o una limitazione della coltivazione di tali prodotti possono essere decisi da uno Stato membro nei casi espressamente previsti dal diritto dell’Unione. Fra tali eccezioni figurano, da un lato, le misure adottate in applicazione dell’articolo 34 del regolamento n. 1829/2003 nonché quelle disposte ai sensi degli articoli 16, paragrafo 2, o 18 della direttiva 2002/53 (…)e, dall’altro, le misure di coesistenza prese a titolo dell’articolo 26 bis della direttiva 2001/18”.

(e) – la Corte Costituzionale, con sentenza n. 116/2006, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 3, 4 e 6, comma 1 e 7, del d.l. 279/2004, in quanto la coesistenza delle colture rientra nella potestà legislativa esclusiva delle Regioni e delle Province Autonome, alle quali spetta disciplinare le modalità di applicazione del principio di coesistenza nei rispettivi territori, notoriamente molto differenziati dal punto di vista morfologico e produttivo.

(f) – in pendenza del giudizio di primo grado, è stata pubblicata la l.r. Friuli Venezia-Giulia 28 marzo 2014, n. 5, il cui art. 1, in applicazione del paragrafo 2.4 della raccomandazione della Commissione Europea 2010/C-200/01 in data 12 luglio 2010 (recante orientamenti per l’elaborazione di misure nazionali in materia di coesistenza per evitare la presenza di OGM nelle colture convenzionali e biologiche), ha disposto che la coltivazione di mais geneticamente modificato è vietata fino all’approvazione definitiva delle predette misure di coesistenza e comunque per un periodo non superiore a dodici mesi dall’entrata in vigore della legge.

2.2. Il TAR ha poi precisato le vicende procedimentali concernenti l’autorizzazione della varietà di mais OGM in questione (Zea Mays L. Linea MON 810).

(a) – l’immissione in commercio è stata autorizzata con decisione della Commissione in data 22 aprile 1998, 98/294/CE, ai sensi della direttiva 90/220, su richiesta della Monsanto Europe.

(b) – in data 11 luglio 2004, la Monsanto, in applicazione dell’art. 20, del regolamento n. 1829/2003, ha notificato alla Commissione il mais MON 810 quale «prodotto esistente», ed ha così potuto continuare ad immetterlo in commercio alle condizioni indicate nell’autorizzazione iniziale, in attesa di una decisione finale in esito al rinnovo.

(c) – in data 4 maggio 2007, la Monsanto ha chiesto il rinnovo dell’autorizzazione per il mais MON 810, sulla base dell’art. 20, par. 4, del regolamento n. 1829/2003.

(d) – a distanza di sette anni dalla presentazione dell’istanza di rinnovo, la Commissione non ha adottato alcuna formale definitiva determinazione in merito; va sottolineato che l’EFSA, dopo un parere favorevole rilasciato nel 2009, ha poi espresso ulteriori pareri, prendendo in considerazione nuovi aspetti per la valutazione del rischio ambientale sulla base di criteri non presi in considerazione nel parere del 2009.

2.3. Con riferimento al descritto quadro normativo e fattuale, il TAR ha ritenuto infondate le censure, sulla base delle argomentazioni appresso sintetizzate.

(a) – è errato ritenere che il decreto impugnato concluda negativamente una procedura di autorizzazione nazionale alla coltivazione degli OGM, basata sulla erronea applicazione della direttiva 18/2001/CE, dato che esso costituisce invece una misura di emergenza di cui all’art. 34 del regolamento n. 1829/2003, la cui adozione è stata ammessa dalla Corte di Giustizia (cfr. sent. del 6 settembre 2012, cit. ).

(b) – per lo stesso motivo, è parimenti errato ritenere che il decreto possa essere considerato un diniego di carattere nazionale o una misura di coesistenza, prevista dall’art.26 della direttiva 18/2001/CE (e come tale illegittimo poiché dette misure non consentono ad uno Stato membro di opporsi alla coltivazione di mais OGM).

(c) – contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, non può dirsi che mancassero i presupposti (esistenza di un rischio grave e manifesto per la salute o per l’ambiente, acclarato sulla base di elementi scientificamente attendibili) richiesti dall’art. 34, cit., per l’adozione della misura d’emergenza; infatti: (c.1) – l’autorizzazione rilasciata nel 1998 alla Monsanto si basava su una normativa superata da quella attualmente in vigore, tant’è che a distanza di ben sette anni dalla data di presentazione dell’istanza di rinnovo dell’autorizzazione nessuna decisione è stata adottata in merito dalla Commissione Europea; (c.2) – tale situazione di impasse è avvalorata dalla circostanza che l’EFSA, se nel 2009 aveva dato parere positivo, tuttavia successivamente, si era pronunciata diversamente, tenendo conto anche di altri aspetti del rischio ambientale non tenuti presente nel parere originario; (c.3) – in un simile contesto, il diffondersi di coltivazioni di mais transgenico sulla base di un’autorizzazione risalente nel tempo, la quale non poteva tener conto di una normativa successiva più restrittiva nonché delle problematiche connesse ai rischi ambientali successivamente emerse ed avvalorate dagli studi richiamati nel decreto, le quali avevano in sostanza precluso alla Commissione Europea di procedere al rinnovo dell’autorizzazione, poteva rappresentare un situazione di concreto ed attuale pericolo tale da giustificare l’adozione del decreto impugnato.

(d) – detta conclusione non può essere inficiata dal principio comunitario di precauzione, di cui anzi il provvedimento impugnato costituisce corretta applicazione.

3. La sentenza è stata appellata dal ricorrente.

Per le Amministrazioni statali appellate si è costituita in giudizio e controdeduce l’Avvocatura Generale dello Stato.

Si è altresì costituita e controdeduce la Regione Friuli Venezia Giulia.

Si sono costituiti anche gli interventori ad opponendum nel giudizio di primo grado, intimati dall’appellante -Coldiretti, CODACONS, Legambiente Onlus, Greenpeace Onlus, Slow Food Italia, Associazione sementieri mediterranei, Associazione nazionale Città del vino, Associazione italiana per l’agricoltura biologica, Federazione italiana agricoltura biologica e biodinamica – ed hanno controdedotto.

Sono intervenuti ad opponendum per la prima volta in appello Fare Verde Onlus e l’Associazione NOOGM.

4. Nell’appello, vengono prospettati i tre ordini di censure appresso indicati.

4.1. (I motivo: travisamento di fatto e violazione degli artt. 34 e 23 del regolamento (CE) n. 1829/2003 e conseguente violazione degli artt. 11 e 117, comma 1, Cost.).

Il TAR ha erroneamente ritenuto che dopo l’autorizzazione al MON 810 sarebbero emersi rischi ambientali sulla scorta degli studi richiamati nel decreto impugnato, tali da rappresentare una situazione di concreto ed attuale pericolo che potesse giustificare l’adozione del divieto.

Al contrario, la Commissione europea – alla quale è devoluta in via esclusiva l’individuazione, la valutazione e la gestione del rischio conseguente alla coltivazione del mais in questione – dopo aver ricevuto la richiesta da parte delle autorità italiane di adottare misure d’urgenza ai sensi dell’art. 34, ed aver acquisito i pareri dell’EFSA, ai sensi degli artt. 22, par. 1 e 2, e 34, del reg. n. 1829/2003, non ha mai ritenuto di adottare misure di sospensione, modifica o revoca dell’autorizzazione, in quanto detti pareri non hanno messo in evidenza rischi manifesti per la salute degli uomini, degli animali e dell’ambiente.

4.2. (II motivo: ulteriore travisamento dei fatti e violazione degli artt. 20 e 23 del regolamento (CE) n. 1829/2003).

Ad avviso dell’appellante, il TAR ha erroneamente ritenuto che il rinnovo dell’autorizzazione del 1998 sia stato precluso alla Commissione da successive problematiche connesse ai rischi ambientali.

La sentenza non tiene in debito conto gli artt. 20, par. 4, e 23, par. 4, del regolamento n. 1819/2003, in base ai quali l’autorizzazione per il MON 810 mantiene efficacia fino a contraria decisione assunta dalla Commissione; né della sentenza della CGE in data 6 settembre 2012, cit., che ha ritenuto precluso agli Stati membri di vietare le coltivazioni OGM nelle more dell’adozione delle misure di coesistenza.

Posto che da tali dati precettivi discende che il procedimento di rinnovo dell’autorizzazione non ha tempi certi e definiti, non si può prendere il trascorrere del tempo come prova di una sostanziale preclusione a procedere al rinnovo.

Peraltro, il tempo trascorso è dipeso da una situazione di stallo nel meccanismo di autorizzazione europeo (che prevede la codecisione) riguardo ai prodotti OGM, non a fattori scientifico-giuridici. Ma lo stallo non può essere superato mediante l’adozione di una misura d’urgenza, e l’Italia avrebbe dovuto contestare l’ingiustificato atteggiamento silenzioso della Commissione, non trasferire sul privato imprenditore le conseguenze dell’inerzia.

4.3. (III motivo: travisamento di fatto e violazione dell’art. 174, par. 2, del Trattato CE, oggi art. 191, par. 2, TFUE).

Il TAR ha travisato il contenuto delle opinioni scientifiche espresse dall’EFSA, in data 8 dicembre 2011, 11 dicembre 2012 e 13 dicembre 2013, posto che da esse si evince che non esiste alcuna prova, né alcun indizio dell’esistenza di una situazione in grado di comportare un rischio che ponga a repentaglio in modo manifesto la salute umana, quella degli animali o l’ambiente.

Contrariamente a quanto ritenuto dal TAR, non sussistevano i presupposti per applicare il principio di precauzione dettato dall’art. 191, par. 2, del TFUE, non essendovi indizi specifici ed oggettivi del rischio, tali da poter ragionevolmente concludere sulla base di dati scientifici che l’attuazione delle misure si presentava necessaria per evitare pregiudizi. In realtà, nell’adottare il divieto, i Ministeri si sono limitati ad un approccio puramente ipotetico, basato sulla lettura errata dei pareri EFSA.

5. Il Collegio deve anzitutto esaminare le eccezioni di improcedibilità dell’appello, formulate dalle parti resistenti, alla luce della sopravvenienza: (a)- della citata l.r. Friuli V-G 5/2014; (b) – dell’art. 4, comma 8, del d.l. 91/2014, convertito nella legge 116/2014 (che, sanzionando con una multa la violazione dei divieti di coltivazione, avrebbe legificato il provvedimento impugnato); (c) – della proposta, da parte del Consiglio UE in data 11 luglio 2014, di una nuova direttiva del Parlamento e del Consiglio volta a consentire agli Stati membri la facoltà di limitare o vietare la coltivazione di OGM.

L’eccezione va disattesa, tenuto conto che: (a) – al momento del passaggio in decisione dell’appello il divieto temporaneo di coltivazione spiegava ancora la sua efficacia; (b) – l’interesse all’accertamento dell’illegittimità del divieto temporaneo permane ai fini risarcitori in riferimento al periodo di vigenza; (c) – la l.r. Friuli Venezia Giulia 5/2014 non elimina detto interesse, in quanto non è retroattiva; senza contare che la compatibilità comunitaria della legge regionale (legge che comunque non appare idonea a risolvere alla radice la questione, dato che comporta un ulteriore divieto temporaneo, per un anno o, qualora intervenga prima della scadenza del termine annuale, fino all’adozione delle misure nazionali di coesistenza volte ad evitare la presenza di OGM nelle colture convenzionali e biologiche – la cui adozione, peraltro, è meramente facoltizzata dal paragrafo 2.4 della raccomandazione 2010/C-200/01 della Commissione Europea del 12 luglio 2010), affinché essa si possa applicare ai fini di una pronuncia di improcedibilità, contrariamente a quanto sembra ipotizzare la sentenza appellata, non esulerebbe dalthema decidendum ma dovrebbe essere scrutinata nel presente giudizio; (d) – la sanzionabilità penale della violazione del divieto di coltivazione non elimina, ma semmai rafforza l’interesse alla decisione sulla legittimità del divieto; (e) – .una mera proposta di direttiva non ha portata precettiva.

6. Passando al merito, il Collegio osserva che i motivi di appello, che sollevano problematiche tra loro intrecciate, comportano l’esame di tre ordini di questioni, in logica successione.

6.1. Il primo riguarda i rapporti tra il potere della Commissione europea di intervenire sull’efficacia delle autorizzazioni comunitarie in essere, e quello interinalmente esercitabile agli stessi effetti dagli Stati membri.

Dalla prospettazione dell’appellante, sembra desumibile in sostanza la tesi secondo la quale, una volta che la Commissione (come nel caso in esame) abbia ritenuto di non procedere, l’efficacia dell’autorizzazione è destinata a permanere fino all’ordinaria decisione sul rinnovo.

6.2. Con memoria finale, l’appellante ha precisato la propria tesi, nel senso che, come affermato dalla CGE con la citata sentenza in data 8 settembre 2011 (pronuncia pregiudiziale richiesta dal Conseil d’Etat su un caso analogo di divieto di semina): (a) – la valutazione e gestione di un rischio grave e manifesto compete in ultima istanza esclusivamente alla Commissione e al Consiglio sotto il controllo del giudice dell’Unione (punto 78); (b) – fino a che non sia stata adottata alcuna decisione riguardo alle misure di emergenza di cui all’art. 34 del reg. n. 1829/2003, i giudici nazionali aditi al fine di verificare la legittimità delle misure nazionali alla luce delle condizioni sostanziali ex art. 34, cit., e di quelle procedurali ex art. 54 del reg. n. 178/2002, quando nutrono dubbi sull’interpretazione di una disposizione, devono deferire una questione pregiudiziale alla Corte ai sensi dell’art. 267, TFUE (p. 79); (c) – per contro, quando la Commissione ha adito il Comitato permanente ed è stata adottata una decisione a livello dell’Unione, le relative valutazioni vincolano gli Stati membri ex art. 288, TFUE, giudici compresi (p. 80). Nel caso in esame, avendo la Commissione deciso di non attivare le misure di emergenza, si rientrerebbe in tale ultima ipotesi.

6.3. Il Collegio osserva che nel procedimento in esame, alla richiesta di introdurre per il MON 810 misure ai sensi dell’art. 34 del regolamento n. 1829/2003, formulata dalle autorità italiane in data 11 aprile 2013, la Commissione ha risposto in data 17 maggio 2013 di non ritenerlo necessario. Quindi, si ricade non nell’ipotesi considerata al punto 80 della sentenza invocata, bensì in quella considerata al punto 79. Tuttavia, in relazione a quanto ivi affermato, non sembra sussistano i presupposti per una pronuncia pregiudiziale della Corte, non sembrando dubbia (per quanto appresso esposto) l’interpretazione dell’art. 34 in ordine alle competenze ed ai poteri esercitabili, e risultando invece effettivamente opinabile (per quanto altresì appresso esposto) la sussistenza in concreto degli elementi di fatto in grado di giustificare le misure di emergenza, invano richieste dalle Amministrazioni italiane a livello comunitario e poi adottate a livello nazionale.

Va poi ricordato come la citata sentenza in data 8 settembre 2011, abbia sì negato la possibilità di utilizzare le misure di sospensione o divieto provvisorio dell’utilizzo o dell’immissione in commercio in applicazione dell’art. 23 della direttiva 2001/18/CE, ma abbia indicato come strumento praticabile l’art. 34 del regolamento, previa dimostrazione dell’urgenza e del rischio grave e manifesto; del resto, la Francia ha poi seguito l’indicazione della Corte, adottando in data 18 marzo 2012 misure cautelari provvisorie ex art. 54, comma 3, reg. n. 178/2002, impedendo la coltivazione del mais transgenico; e non risulta dagli atti che al riguardo siano intervenuti nuovi arresti giurisprudenziali.

6.4. Per tornare alla tesi di fondo, dall’art. 54 del regolamento n. 178/2002, richiamato dall’art. 34 del regolamento n. 1829/2003, si evince invece che, qualora la Commissione, nonostante la segnalazione dello Stato membro, non abbia adottato, in applicazione dell’art. 53 dello stesso regolamento n. 178/2002, le misure urgenti richiestele – deve ritenersi, sia nel caso in cui abbia motivatamente comunicato di non ritenere di dover intervenire, sia nel caso in cui sia semplicemente rimasta inerte – lo Stato membro può adottare egli stesso misure cautelari a titolo provvisorio, informandone subito gli altri Stati membri e la Commissione.

Queste misure sono, appunto, provvisorie, nel senso che la loro efficacia dura fino all’adozione delle misure comunitarie.

In altri termini, il potere decisionale ultimo spetta alla Commissione, la quale è tenuta a sottoporre la questione al Comitato permanente per la catena alimentare e la salute degli animali (di cui all’art. 58 del regolamento n. 178/2002), ed adottare le conseguenti determinazioni di proroga, modificazione o abrogazione delle misure cautelari provvisorie nazionali; nelle more di detta decisione definitiva, sulla sorte dell’autorizzazione oggetto di rivalutazione e verifica, lo Stato membro può decidere se e per quanto tempo mantenere in vigore le misure d’emergenza nazionali adottate.

Ciò che non sembra stabilito dalla disciplina comunitaria, è che, a seguito di una segnalazione sull’opportunità di intervenire (per modificare la perdurante efficacia di un’autorizzazione), la situazione debba restare confinata in un’impasse potenzialmente senza termine, fino a che il Comitato – organo presieduto dal rappresentante della Commissione ma comunque composto da rappresentanti degli Stati membri – si decida ad esprimere il proprio (imprescindibile) avviso.

Al contrario, qualora, come nel caso in esame, l’adozione delle misure d’emergenza avvenga in un contesto in cui si discute su una autorizzazione scaduta e sottoposta a proroga, l’efficacia interinale delle misure d’emergenza, adottate dallo Stato membro, assume anche la funzione di sollecitare l’adozione di una motivata decisione definitiva sul futuro dell’autorizzazione stessa.

6.5. La seconda questione da esaminare, riguarda gli elementi sui quali può essere basata l’adozione delle misure nazionali provvisorie, della cui astratta adottabilità si è detto.

L’appellante incentra le sue censure sul significato dei pareri dell’EFSA.

Nel caso in esame, va fin d’ora riconosciuto che l’EFSA non ha suggerito di intervenire sull’autorizzazione del mais MON 810, in relazione ai rischi connessi alla coltivazione. Nessuna presa di posizione esplicitamente negativa sulla perdurante efficacia dell’autorizzazione è rinvenibile in detti pareri, e le conclusioni formali cui è pervenuta EFSA, nonostante l’evidenziazione di nuovi parametri rilevanti e di nuovi criteri di valutazione del rischio, e dell’opportunità di porre in essere forme di cautela, appaiono in linea di sostanziale continuità con il parere favorevole del 2009.

Tanto sembra emergere anche dalla “scientific opinion” pubblicata sul bollettino dell’EFSA del 2013- n. 3371 (a quanto sembra, sopravvenuta all’adozione del decreto impugnato).

Il Collegio osserva, tuttavia, che l’art. 34, cit., non stabilisce un percorso conoscitivo e valutativo obbligato, in quanto, prima ancora di menzionare, come strumento qualificato di evidenziazione dei presupposti per la sospensione o la modifica di un’autorizzazione, i pareri dell’EFSA, indica i presupposti sostanziali per intervenire sulle autorizzazioni, ed anche testualmente (“ … ovvero qualora, alla luce di un parere dell’Autorità…”) non esclude che la sussistenza di detti presupposti venga desunta in altro modo.

Anche su tale aspetto, si tornerà in prosieguo.

6.6. La terza questione investe la possibilità di riscontrare o meno, nel caso in esame, detti presupposti sostanziali, rappresentati dall’esistenza di un rischio grave e manifesto per la salute o per l’ambiente.

Al riguardo, il Collegio osserva che non è particolarmente rilevante individuare i motivi per i quali l’iter di verifica e valutazione della autorizzazione si sia bloccato (aspetto al quale è dedicato parte del secondo motivo di appello).

Anzitutto, per quanto desumibile dall’attribuzione dell’autonomo potere di intervento in capo agli Stati membri, sono la stessa esistenza di un regime di protrazione degli effetti dell’autorizzazione scaduta, e di una situazione di stallo procedimentale sul suo rinnovo, a rafforzare le esigenze di un approfondimento dei dubbi sull’esistenza di rischi per la salute e per l’ambiente.

In ogni caso, non sembrano estranee allo stallo, considerazioni concernenti detti rischi. L’Avvocatura dello Stato ha sottolineato (e sul punto non si rinviene specifica ed adeguata confutazione di controparte) che, dal Rapporto del 10 giugno 2013 relativo all’ultima (in relazione all’instaurazione della controversia – per il prosieguo, il Collegio non può trarre dagli atti di causa ulteriori elementi) riunione del Comitato, emerga che gli Stati Membri, per giustificare la mancata approvazione della bozza della relativa decisione, abbiano fatto riferimento a ragioni eterogenee, quali: preoccupazioni relative alle valutazioni sulla sicurezza del polline del mais MON 810 condotte dall’EFSA, le quali sono state considerate inconcludenti; possibili incertezze relative alla protezione della salute umana; preoccupazioni relative ad un possibile effetto nocivo della proteina Crybt11; esistenza di divieti a livello nazionale; incertezze legali relative all’indicazione della presenza del polline nell’etichettatura del miele; mancanza di accordo a livello nazionale; ragioni politiche; opinione pubblica negativa. Dunque, accanto a ragioni lato sensu politiche, vi sono ragioni legate ai rischi derivanti dalle incertezze scientifiche sulla sicurezza dell’OGM.

L’appellante ha lamentato anche che il TAR non avrebbe tenuto conto di quanto affermato dalla Corte di Giustizia con la sentenza in data 6 settembre 2012, citata. Al riguardo, il Collegio ribadisce che, come sopra esposto, detta pronuncia riguarda l’illegittimità di un diniego generalizzato di coltivazione di mais OGM, nelle more dell’adozione di misure di coesistenza, che lascia aperta la porta all’adozione di una misura di emergenza.

6.7. Giungendo all’ultimo nodo della controversia, occorre tener conto che l’istruttoria sottesa al decreto 12 luglio 2013, come riassunta nelle premesse del provvedimento, ha preso in considerazione molteplici valutazioni scientifiche.

Infatti, anche se ciò è rimasto in ombra nel giudizio di primo grado, nelle predette premesse motivazionali risulta sottolineato, in particolare, quanto segue.

(a) – l’autorizzazione del 1998 è stata rilasciata ai sensi della direttiva 90/220/CE, e quindi in base a requisiti in materia di valutazione dei rischi inferiori a quelli stabiliti dalla direttiva 2001/18/CE;

(b) – il parere dell’EFSA in data 15 giugno 2009, favorevole al rinnovo dell’autorizzazione per il MON 810, non ha potuto tener conto: (b.1) – delle conclusioni raggiunte dal Consiglio UE nella sessione “Ambiente” in data 4 dicembre 2008 (sulla necessità di rafforzare le procedure di valutazione del rischio ambientale degli OGM, specialmente per quanto riguarda gli impatti sugli insetti non bersaglio, la definizione degli ambienti riceventi e gli impatti a lungo termine); (b.2) – delle linee guida pubblicate dalla stessa EFSA nel 1010.

(c) – il parere dell’EFSA in data 8 dicembre 2011, concernente il mais Bt11, ha rilevato impatti in relazione all’acquisizione di resistenze da parte di parassiti e sulla mortalità delle popolazioni di lepidotteri sensibili, ed ha ritenuto che tali risultati si applichino anche al MON 810 che produce la stessa tossina Cry1Ab, raccomandando pertanto un rafforzamento delle relative misure di gestione e di sorveglianza.

(d) – un dossier del Consiglio per la Ricerca e la sperimentazione in Agricoltura (CRA), allegato alla nota del 2 aprile 2013 (“Rassegna delle evidenze scientifiche posteriori al 2009 sugli impatti della coltivazione del mais MON 810, con particolare esame degli effetti su organismi non bersaglio e sulla persistenza della tossina Bt nell’ambiente”), ha concluso che il MON 810 avrà impatti sugli imenotteri parassitoidi specialisti di O.Nubilalis, potrebbe modificare le popolazioni di lepidotteri non bersaglio, e potrebbe favorire la sviluppo di parassiti secondari potenzialmente dannosi per le altre coltura.

(e) – anche la nota dell’ISPRA prot. 17903 in data 30 aprile, “Approfondimento tecnico-scientifico relativo al mais geneticamente modificato MON 810”, ha concluso che gli studi sugli impatti ambientali evidenziano rischi per le popolazioni di lepidotteri non target e non escludono la possibilità di impatto negativo sugli organismi acquatici sensibili alle tossine Cry1Ab.

6.8. In particolare, dalla lettura della citata nota di “Approfondimento” dell’ISPRA, versata in atti, si evince che l’ente pubblico preposto nel nostro ordinamento alla protezione ed alla ricerca ambientale, sulla base della analitica considerazione del citato dossier del CRA, dei pareri fino a quel momento espressi dall’EFSA, nonché di studi scientifici aggiornati, ha ritenuto che: (a) – le misure di gestione per limitare gli effetti sui lepidotteri non target debbano essere soggette a revisione sulla base dei risultati di un piano di monitoraggio caso-specifico, ed è quindi necessario attivare tale piano sia sui predetti lepidotteri non target, sia sugli organismi acquatici (non basterebbe una semplice sorveglianza basata sui questionari agli agricoltori e sull’utilizzo delle reti di monitoraggio esistenti, dato che non esistono in Italia reti utilizzabili per il monitoraggio dei lepidotteri, mentre per gli impatti sugli organismi acquatici andrebbe verificata la possibilità di utilizzare la rete nazionale di controllo sulla qualità delle acque); (b) – gli studi sugli impatti ambientali evidenziano rischi per le popolazioni di Lepidotteri non target e non escludono la possibilità di impatti negativi sugli organismi acquatici sensibili alla tossina Cry1Ab. Ed ha concluso nel senso che: (a) – i rischi individuati potrebbero essere ridotti attraverso l’adozione di specifiche misure di gestione del rischio, come suggerito da CRA ed EFSA, ed anche attraverso l’adozione dei piani di monitoraggio caso-specifico, predetti; (b) – l’attuale status autorizzativo del mais MON 810 non prevede l’adozione obbligatoria delle misure di gestione del rischio suggerite; (c) – pertanto si ritiene necessario che i gestori del rischio garantiscano l’adozione obbligatoria delle misure proposte attraverso gli opportuni strumenti normativi.

Il Collegio ritiene di poter desumere che ISPRA abbia condiviso le esigenze di adottare misure di gestione, già evidenziate dall’EFSA, approfondendone i contenuti, e, soprattutto, traendone logiche conseguenze in ordine agli interventi necessari.

Va sottolineato che l’appellante non ha confutato la rispondenza di dette considerazioni a corretti metodi scientifici, né ne ha motivatamente messo in dubbio la rilevanza nell’ambito complessivo dell’istruttoria che ha condotto all’adozione del decreto impugnato.

Deve perciò ritenersi che, sulla base di simili elementi di valutazione, correttamente i Ministeri resistenti abbiano ritenuto che, non prevedendo l’autorizzazione 98/294/CE alcuna misura di gestione, e non avendo la Commissione ritenuto di intervenire per imporne l’attuazione, ai sensi dell’art. 53 del regolamento n. 178/2002, il mantenimento della coltura del mais MON 810 senza adeguate misure di gestione non tutelasse a sufficienza l’ambiente e la biodiversità. Così da imporre l’adozione della misura di emergenza contestata dall’appellante.

Del resto, l’applicazione del principio di precauzione postula l’esistenza di un rischio potenziale per la salute e per l’ambiente, ma non richiede l’esistenza di evidenze scientifiche consolidate sulla correlazione tra la causa, oggetto di divieto o limitazione, e gli effetti negativi che ci si prefigge di eliminare o ridurre (cfr., da ultimo, Cons. Stato, V, 10 settembre 2014, n. 4588 e 11 luglio 2014, n. 3573); e comporta che quando non sono conosciuti con certezza i rischi connessi ad un’attività potenzialmente pericolosa, l’azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche, anche nei casi in cui i danni siano poco conosciuti o solo potenziali (cfr., da ultimo, Cons. Stato, IV, 11 novembre 2014, n. 5525).

Presupposti, quelli descritti, la cui sussistenza sembra adeguatamente evidenziata nel decreto impugnato.

6.9. Tutte le censure dedotte dall’appellante si dimostrano pertanto infondate.

La domanda risarcitoria (argomentata dall’appellante con riferimento ad un preteso comportamento delle Amministrazioni non lineare, parziale e negligente nella valutazione delle opinioni dell’EFSA, ma senza specificazione del tipo di danno subito) segue la sorte di quella di annullamento del provvedimento (senza che vi sia bisogno di valutare se, come sostengono le Amministrazioni appellate, si tratti di domanda non proposta in primo grado, e quindi inammissibile).

7. L’appello deve pertanto essere respinto, con conseguente conferma della sentenza appellata, sia pure con la motivazione (parzialmente) diversa esposta ai punti precedenti.

Considerata la novità di alcuni aspetti delle questioni affrontate, sussistono giustificati motivi per disporre l’integrale compensazione tra le parti anche delle spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

(omissis)

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