di Carlo Rapicavoli –
Le più recenti diposizioni legislative si distinguono sempre più per originalità. Non ci si può più stupire.
Ma che, per rendere “spedito” lo svolgimento del processo amministrativo, si arrivi a disporre con legge anche il numero di pagine in cui debba essere contenuto il ricorso, supera ogni possibile immaginazione,
Nella legge di conversione del D. L. 90/2014 di riforma della pubblica amministrazione si dispone che: “Al fine di consentire lo spedito svolgimento del giudizio in coerenza con il principio di sinteticità di cui all’articolo 3, comma 2, le parti contengono le dimensioni del ricorso e degli altri atti difensivi nei termini stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio di Stato, sentiti il Consiglio nazionale forense e l’Avvocato generale dello Stato, nonché le associazioni di categoria riconosciute degli avvocati amministrativisti. Con il medesimo decreto sono stabiliti i casi per i quali, per specifiche ragioni, può essere consentito superare i relativi limiti. Il medesimo decreto, nella fissazione dei limiti dimensionali del ricorso e degli atti difensivi, tiene conto del valore effettivo della controversia, della sua natura tecnica e del valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti. Dai suddetti limiti sono escluse le intestazioni e le altre indicazioni formali dell’atto. Il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti; il mancato esame delle suddette questioni costituisce motivo di appello avverso la sentenza di primo grado e di revocazione della sentenza di appello”.
Dunque la legge prevede che:
1) Un decreto del Presidente del Consiglio di Stato disporrà i “limiti dimensionali” (numero di pagine, righe, impaginazione, corpo del carattere….) del ricorso;
2) Con lo stesso decreto si specificano le possibili eccezioni;
Il legislatore si preoccupa addirittura di precisare – a fugare ogni possibile questione ermeneutica – che dai limiti sono escluse le intestazioni e le altre indicazioni formali dell’atto (!).
Ma soprattutto la legge specifica che il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti.
Ciò che è scritto nelle pagine esorbitanti i limiti può essere impunemente ignorato. Però il mancato esame delle questioni trattate nelle pagine lecite costituisce motivo di appello avverso la sentenza di primo grado e di revocazione della sentenza di appello.
Così i processi miracolosamente saranno più “spediti”; meno pagine da leggere, più rapida la decisione.
In quante pagine deve essere contenuta la sentenza non è precisato.
Una novità assoluta, credo, per l’ordinamento giuridico.
I motivi di ricorso, i vizi di un provvedimento incontrano un limite: il numero di pagine.
Ma davvero qualcuno può seriamente pensare che la lentezza e i problemi della giustizia amministrativa in Italia dipendono dalla grafomania degli avvocati?
Non sarebbe meglio chiedersi perché vi è un eccesso di contenzioso amministrativo? Per un’innata litigiosità degli Italiani o forse perché la nostra legislazione, in modo sempre più accentuato negli ultimi anni, è sempre più confusa e determina incertezze?
La prolificità del legislatore si scontra con una pessima tecnica legislativa, con norme che si succedono mal coordinate, di impossibile lettura per chi non è specialista, con circolari interpretative ancora più confuse, con violazione dei principi costituzionali e delle fonti del diritto.
Non è certo un fenomeno recente; ad esempio già nel 1986 i Presidenti delle Camere ed il Presidente del Consiglio dei Ministri, d’intesa fra loro, emanarono tre circolari di identico testo contenenti una serie di regole e raccomandazioni di carattere tecnico dirette a rendere più chiari e comprensibili i testi legislativi.
Tali circolari sono state trasfuse in una “Lettera circolare sulle regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei testi legislativi” adottata il 20 aprile 2001 dai Presidenti delle Camere e dal Presidente del Consiglio dei Ministri.
La Corte Costituzionale con sentenza 303/2003 ha affermato che la certezza e la chiarezza normativa sono un valore costituzionale ed assumono rilevanza in un giudizio di legittimità costituzionale.
Nel 2007, in sede di Conferenza Unificata, è stato sancito l’impegno di Stato, Regioni e Province autonome ad unificare i manuali statali e regionali in materia di drafting di testi normativi.
Tali tentativi sono stati evidentemente infruttuosi.
Allora, di fronte all’incapacità del legislatore, la soluzione è quella di eliminare o ridimensionare gli ambiti e le opportunità di tutela giurisdizionale del cittadino? Se è vero che bisogna disincentivare liti temerarie o con finalità meramente dilatorie, è chiaro che la soluzione non può essere la compressione dei diritti dei cittadini, tutelati, per quanto in discussione, dall’art. 103 della Costituzione.
In molti, recentemente, anche autorevoli commentatori, hanno sollevato dubbi perfino sulla Corte Costituzionale, che – a dire di questi – vanifica l’intento e la spinta riformatrice degli ultimi Governi.
Ecco: all’incapacità della classe politica, rappresentata in Parlamento, di dettare norme davvero efficaci, chiare ed applicabili, vera responsabile dell’attuale caos normativo, si sostituisce e prevale l’idea che per uscire dalla crisi bisogna riformare la Corte Costituzionale, eliminare, o fortemente ridimensionare, la giustizia amministrativa (Consiglio di Stato e TAR), sopprimere livelli di governo e di rappresentanza democratica (Senato, Province).
Adesso la soluzione a tutti i problemi: scrivere meno.
“Roba da basso impero – scrive il prof. Giovanni Virga – , che dovrebbe far vergognare e che forse giustifica, sia pure ex post, la proposta avanzata appena un anno addietro di questi tempi dal Presidente Romano Prodi, di abolire non già le sole sedi staccate, ma l’intero sistema di giustizia amministrativa, così faticosamente costruito nel tempo ma che evidentemente, grazie all’intervento di qualche potente lobby, non regge più. Perché il diritto di esistere per una istituzione non si eredita, ma occorre guadagnarselo sul campo, giorno dopo giorno, senza furbate tipo la spartizione del contributo unificato per guadagnare sempre di più od il ricorso abbreviato per lavorare sempre di meno”.