di Carlo Rapicavoli –
“La posta in gioco è alta. Per questo è giusto lanciare l’allarme”, scrive Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale.
L’urgenza delle riforme sta riempiendo le pagine dei giornali; il dibattito in Senato sulla riforma della Costituzione domina l’informazione.
Sarebbe un bene se si discutesse dei contenuti della riforma, se si informassero i cittadini e si alimentasse un dibattito di merito.
No, il tema dominante è soltanto l’urgenza anche se non si sa bene o non viene spiegato perché.
Si parla di ghigliottine, di tagliole del dibattito, di forzatura dei regolamenti, di contingentamento dei tempi di discussione…; chi esprime una voce critica viene tacciato come chi vuole ostacolare il processo riformatore, come chi rema contro l’interesse del Paese e vuole bloccare la crescita e il prestigio dell’Italia nel mondo.
Il Governo fissa date ultime, minaccia, impone tempi di discussione in un percorso di evidente anomalia costituzionale.
Un’anomalia già manifestatasi all’origine dell’iter parlamentare: si tratta infatti di un disegno di legge del Governo e non di iniziativa parlamentare; un intervento del Governo forte e decisivo, che detta i tempi e fissa i punti irrinunciabili della riforma, e quindi le parti non emendabili del proprio disegno, mentre è chiaro a tutti che il Governo – potere esecutivo – non dovrebbe intervenire assumersi la titolarità di una riforma di tale portata.
Inoltre si trascura di leggere il progetto di riforma costituzionale unitamente alla proposta di legge elettorale – l’Italicum – già approvato dalla Camera dei Deputati e in attesa di essere discussa ed approvata dal Senato.
Non secondario il ruolo del Presidente della Repubblica, che in pieno dibattito, anche conflittuale, all’interno dell’aula del Senato interviene affermando che “al primo posto nell’agenda dell’impegno di revisione costituzionale vi è il superamento del bicameralismo paritario. Una “anomalia tutta italiana” o “incongruenza costituzionale” risultata sempre più indifendibile e fonte di gravi distorsioni del processo legislativo e della dialettica Parlamento-governo; (…) rivolgo un pacato e fermo appello a superare un’estremizzazione dei contrasti, un’esasperazione in giusta e rischiosa – anche sul piano del linguaggio – nella legittima espressione del dissenso. E per serietà e senso della misura nei messaggi che dal Parlamento si proiettano versi i cittadini, non si agitino spettri di insidie e macchinazioni autoritarie. Né si miri a determinare in questo modo un nuovo nulla di fatto in materia di revisioni costituzionali”.
La riforma adesso sarà votata con tempi contingentati, entro una scadenza fissata dal Governo, come se si trattasse della conversione in legge di un decreto legge.
Infine, seppure nei limiti indicati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 1/2014, si tratta sempre di un Parlamento eletto con una legge elettorale dichiarata incostituzionale.
Questo contesto, forse, richiederebbe maggiore prudenza nelle dichiarazioni del Presidente del Consiglio e del Ministro per le riforme costituzionali e, contestualmente, maggiore rigore e capacità informativa da parte della stampa.
Senza entrare in questa sede approfonditamente nel merito della riforma, merita sottolineare alcuni aspetti di maggiore criticità.
La riforma del Senato si presenta come il grimaldello per trasformare la forma di governo, in quanto all’esclusione del Senato dal circuito fiduciario corrisponde un rafforzamento del polo di potere formato dalla maggioranza parlamentare alla Camera dei deputati e dal Governo da essa sostenuto.
La Camera, oltre ad essere titolare esclusiva del rapporto di fiducia col Governo, sarebbe titolare pressoché esclusiva della funzione legislativa in quanto l’esercizio collettivo col Senato è limitato, a seguito di emendamenti votati in commissione, all’approvazione delle sole seguenti leggi: leggi costituzionali; leggi di attuazione in materia di referendum popolare; leggi di autorizzazione dei (soli) trattati relativi alla partecipazione dell’Italia all’UE; leggi che danno attuazione alla legislazione statale in materia elettorale e di eleggibilità.
Per il resto, le altre competenze in materia legislativa che il “nuovo” art. 70 attribuisce al Senato sono più illusorie che effettive.
“Una siffatta concentrazione di potere in capo ad un solo organo e ad una sola coalizione (per non dire in capo ad un solo partito ed al suo leader) è impensabile in una democrazia liberale: una forma di Stato che presuppone la doverosa esistenza di “contro-poteri” (nella specie, il Senato), come ebbe ad affermare lo stesso Presidente Napolitano nel discorso per il 60° anniversario della Costituzione, prendendo le distanze dal semipresidenzialismo francese, una delle cui più rilevanti caratteristiche, e cioè il criticatissimo “voto bloccato”, è stato previsto ciò nondimeno, nel d.d.l. cost. Renzi-Boschi”. (Cfr. Alessandro Pace, Verso una forma di governo senza contro-poteri? Osservatorio Costituzionale, luglio 2014).
La soluzione portata avanti dal Presidente del Consiglio non è soltanto quella di modificare il bicameralismo paritario, tesi quasi generalmente condivisa, ma quella, esplicitamente sottolineata nei giorni scorsi, di annullare del tutto il ruolo del Senato in quanto potenziale contro-potere: obiettivo al cui fine convergono la limitata effettiva partecipazione alla funzione legislativa (appena un po’ migliorata in commissione) e la carente legittimazione popolare.
Di legittimazione popolare del Senato non può infatti parlarsi non solo alla luce della proposta iniziale che prevedeva i senatori-consiglieri regionali ma nemmeno con la c.d. elezione di secondo grado.
Le stesse argomentazioni addotte a sostegno della riforma appaiono smentite dai fatti; in primo luogo, perché le presunte lungaggini del procedimento legislativo sono smentite da statistiche condotte in tempo non sospetto dagli uffici del Senato della Repubblica con riferimento alla XVI legislatura; in secondo luogo, perché dell’utilità (se non addirittura della necessità) della c.d. “navetta” lo stesso Renzi potrebbe essere chiamato a testimoniare avendo più volte ad essa fatto ricorso.
Sta di fatto – come sottolineato da Gustavo Zagrebelsky nell’audizione del 13 maggio – che se la navetta si rende talvolta necessaria per riparare a veri propri errori, altre volte, come di recente avvenuto al Governo Renzi, si approva un dato d.d.l. allo scopo di alleggerire la tensione politica, nel presupposto condiviso che poi si ridiscuterà il tutto. “Ci si deve quindi chiedere: in mancanza della seconda lettura, cosa accadrebbe in futuro in caso di errore o di ripensamento? Si dovrà presentare un nuovo d.d.l. per inserire le modifiche oppure le future leggi saranno approvate “con riserva di modifica”, da apportare entro un dato termine da parte di un comitato ristretto?!”.
Chi difende la riforma cita modello la costituzione tedesca e come esempio il Bundesrat.
“Le istituzioni respirano della dimensione socio-culturale da cui promanano: la particolare fisionomia dello Stato italiano, la sua unificazione in epoca relativamente recente e l’adesione ad una forma di Stato necessariamente centralizzata (proprio per amalgamare ordinamenti eterogenei raccolti nel 1861 in una sola Nazione), così come la storia delle Regioni italiane, la loro travagliata affermazione e la non perfetta riuscita del c.d. federal-regionalismo inaugurato nel ventunesimo secolo, rendono del tutto originale l’impianto costituzionale italiano e difficilmente assimilabile il Senato alla seconda Camera tedesca. L’ordinamento costituzionale tedesco ha avuto uno specifico percorso storico (una Federazione nata dall’unione di diversi Regni, raccordati prima all’interno di una Confederazione e ancor prima incorporati all’interno del Sacro romano impero), che ha generato un’architettura istituzionale ad hoc, al cui interno il Bundesrat – grazie all’apporto degli Esecutivi locali – sintetizza un bilanciamento in chiave federale che risulta pienamente democratico e coerente con il proprio retroterra socio-culturale e con la strutturazione storicamente decentrata dei poteri dello Stato. Ma proprio per questo il paradigma tedesco non può essere impiantato in toto in un contesto storico e ordinamentale del tutto differente da quello che l’ha generato, pur se molte scelte costituzionali rappresentano soluzioni utili che possono essere tradotte nel sistema italiano (si pensi all’art. 21 della Legge fondamentale tedesca sui partiti politici)”. (Cfr. Francesca Sgrò, Riforma del Senato e Contrappesi democratici, Rivista AIC N°: 2/2014).
Così accade che, pur sostenendo come un mantra davanti alle telecamere che la riforma è chiesta e voluta dalla stragrande maggioranza dei cittadini, si ignora del tutto l’esigenza di ridare agli elettori la possibilità di scegliere gli eletti.
I cittadini continueranno a non scegliere i deputati e non eleggeranno neppure i senatori, né il sindaco della Città Metropolitana, né il Presidente della Provincia, né i consiglieri metropolitani o provinciali.
C’è un passo indietro nel punto più delicato del bilanciamento dei poteri. Un partito minoritario che raccoglie meno del 20% degli aventi diritto al voto può vincere il premio di maggioranza e utilizzarlo per eleggere le massime cariche dello Stato, la Corte Costituzionale e la Presidenza della Repubblica.
La relazione Stato-Regioni diventa ancora più confusa, anche per la scarsa cura che la Commissione ha dedicato all’argomento, pur essendo tecnicamente più complesso degli altri.
La vera portata innovativa contenuta nella riforma è il principio di supremazia dello Stato inserita nella proposta di riforma dell’art. 117: “Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie o funzioni non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”, così comprimendo chiaramente le autonomie regionali.
Sul fronte delle autonomie locali, è caduto nel vuoto l’appello di 44 costituzionalisti che appena pochi mesi fa, a proposito della riforma delle Province, approvata poi con la Legge 56/2014 che oggi sta già mostrando tutti i suoi limiti ed incongruenze, da più parti segnalati ma inascoltati, proponevano interventi di riforma coerenti e ragionati:
a) accelerare il processo di individuazione delle funzioni fondamentali di Comuni e Province (e Città metropolitane), tenendo conto anche del principio di “unicità” per la distribuzione delle funzioni (ad evitare la sovrapposizioni di compiti), nonché della distinzione tra funzioni di prossimità e di area vasta nel riassetto delle funzioni locali;
b) mantenere alla legge statale la definizione degli elementi di base della Provincia (funzioni fondamentali, organi, elezione), salvo a riconoscere un ruolo maggiore alle Regioni: nell’attribuzione di nuove funzioni (ora accentrate a livello regionale o gestite da enti strumentali); nella determinazione di strumenti di raccordo interistituzionale infraregionale (al di là dei Consigli delle autonomie previsti dall’art. 123, ultimo comma, Cost.); nei procedimenti di revisione territoriale delle Province. A quest’ultimo proposito potrebbe essere riscritto (non soppresso) l’art. 133, primo comma, Cost., attribuendo alla Regione un ruolo di proposta in un procedimento di legge statale volto ad una revisione complessiva dei territori delle Province (con una loro significativa riduzione rispetto alla recente proliferazione) entro un tempo breve e certo;
c) approvare norme statali di guida e stimolo alla revisione, necessariamente regionale, dei territori comunali, ricorrendo a forme associative “forti” (quanto a dimensioni minime e massime, a funzioni, a organi di governo, a fiscalità propria) o a processi di fusione che producano – entro tempi brevi e certi – il risultato della riduzione degli apparati amministrativi (e dei centri di spesa) comunali;
d) ricondurre, in tempi brevi e certi, agli enti autonomi territoriali le funzioni amministrative attualmente esercitate dalla miriade di enti e società strumentali regionali e locali (pubblici o privati in controllo pubblico), in larga misura da sopprimere (semplificando e risparmiando non poco), anche perché figli di una pessima concezione dell’autonomia politica degli enti territoriali, con scarsa trasparenza e controlli nelle gestioni e quindi anche fonti frequenti di sprechi e di fenomeni corruttivi.
Proposte chiare ed efficaci; ma totalmente ignorate.
Un certo numero di costituzionalisti, nei giorni trascorsi, ha denunciato con toni d’allarme il pericolo d’involuzione autoritaria, anzi padronale, del nostro sistema politico.
Volendo vedere solo e isolatamente la questione della riforma del bicameralismo, scrive il prof. Zagrebelsky, la denuncia è apparsa eccessiva, allarmistica. Tuttavia, si parlava in quella circostanza della riforma del Senato non in sé stessa, ma come elemento d’un quadro costituzionale, formale e materiale, assai più complesso.
“Il quadro è composto, sì, dalla marginalizzazione della seconda Camera, ma anche dalle prospettive in cui si annuncia la riforma della legge elettorale, in vista di soluzioni fortemente maggioritarie e debolmente rappresentative, tali da configurare una “democrazia d’investitura” dell’uomo solo al comando, tanto più in quanto i partiti, da associazioni di partecipazione politica, secondo l’art. 49 della Costituzione, si sono trasformati, o si stanno trasformando in appendici di vertici personalistici, e in quanto i parlamentari, dal canto loro, hanno scarse possibilità d’autonomia, di fronte alla minaccia di scioglimento anticipato e al rischio di non trovare più posto, o posto adeguato, in quelle liste bloccate che la riforma elettorale non sembra orientata a superare. La denuncia dunque veniva, e ancora viene, da quello che i giuristi chiamano un “combinato disposto”.
La visione d’insieme è quella d’un sistema politico che vuole chiudersi difensivamente su se stesso, contro la concezione pluralistica e partecipativa della democrazia, che è la concezione della Costituzione del 1948.
La posta in gioco è alta. Per questo è giusto lanciare l’allarme”.