di Carlo Rapicavoli –
Viviamo un periodo storico caratterizzato dalla voglia di “cambiamento”.
La crisi economica, l’inadeguatezza della politica a dare risposte, gli sprechi che hanno riempito, negli ultimi tempi, le cronache, hanno rafforzato nell’opinione pubblica la consapevolezza che il nostro sistema debba essere profondamente riformato.
Una consapevolezza certamente fondata e che richiederebbe analisi approfondite.
A tale spinta corrisponde però spesso approssimazione, annunci e ricerca di immediato e facile consenso.
Nell’euforia del cambiamento, in risposta alla giusta rabbia alimentata dalle difficoltà crescenti per disoccupazione e crisi economica, si risponde con la furia abolizionista.
Il nuovo è tale se annuncia tagli; non importa come, bisogna tagliare, abolire, cancellare.
Se si tratta di tagli alla politica, allora il consenso è assicurato.
Il problema però, frutto di anni di assenza della vera politica, è che oggi nessuno distingue più fra politica e Istituzioni, si assimila e confonde il costo (lo spreco) della politica con il costo necessario delle Istituzioni e della democrazia, le persone coinvolte in mille scandali con le Istituzioni che hanno occupato ed utilizzato per i propri interessi.
Più volte, commentando le varie ipotesi di soppressione delle Province, abbiamo evidenziato questo rischio.
I recenti annunci di riforme costituzionali inquietano molto per le modalità e la spinta che le determina.
La nostra Costituzione è nata quale reazione alla cancellazione della democrazia e delle libertà e per questo, grazie al concorso di menti illuminate, ha dato vita ad un ordinamento repubblicano fondato su un sistema di equilibri tra poteri, che, nella volontà ispiratrice, assicura al popolo ed al singolo cittadino la centralità e la sovranità.
Non si vuole negare l’esigenza di una riforma che renda più “moderne”, più consone ai tempi, le nostre Istituzioni.
Ma il rimedio proposto non appare francamente adeguato se non per ottenere quel consenso immediato di cui dicevamo e per dare in pasto alla rabbia collettiva risposte facilmente assimilabili da tutti.
Inizio dalla parte meno significativa e meno rilevante della bozza di riforma costituzionale, annunciata con stile moderno e slide ad effetto, dal Presidente del Consiglio il 12 marzo, ma che rende chiara l’idea degli obiettivi e dello stile riformatore.
La proposta di modifica dell’art. 122 della Costituzione del Governo prevede: “Con legge dello Stato sono
stabiliti gli emolumenti complessivamente spettanti al Presidente della Giunta regionale e ai membri degli
organi regionali, che non possono in ogni caso superare l’importo di quelli spettanti ai Sindaci dei comuni capoluogo della Regione. Non possono essere corrisposti rimborsi o analoghi trasferimenti monetari recanti
oneri a carico della finanza pubblica in favore dei gruppi politici presenti nei Consigli regionali”.
Ma davvero una riforma costituzionale, che si pone l’obiettivo di modernizzare le Istituzioni del Paese, deve preoccuparsi di inserire nella Costituzione che i membri degli organi regionali non possono guadagnare più dei sindaci?
Obiettivo condivisibile certo, ma che è totalmente estraneo ai contenuti che devono caratterizzare la Carta Costituzionale.
La Costituzione fissa l’attribuzione delle competenze e delle funzioni fra gli organi costitutivi della Repubblica, non il dettaglio.
Ma è evidente che, a livello mediatico, tali previsioni esaltano la volontà riformatrice e paradossalmente mettono in secondo piano contenuti effettivi e sostanziali della proposta. Molti consiglieri regionali non hanno certo onorato il loro mandato istituzionale agli occhi dell’opinione pubblica e la risposta non può che essere percepita favorevolmente.
Ma andiamo alla sostanza della proposta.
Ed ecco emergere in tutta la sua evidenza che riforma è diventato sinonimo di abolizione.
La riforma costituzionale non affronta una visione organica del nostro ordinamento ma persegue:
1) L’abolizione del Senato e quindi del bicameralismo;
2) L’abolizione delle Province
3) L’abolizione del CNEL (art. 99 della Costituzione)
Ed ecco, senza una relazione illustrativa, senza alcun apparente approfondimento, si cancellano le parole Senato e Provincia ove ricorrono, il plurale Camere si trasforma nel singolare Camera, e si cerca di abbozzare una “Assemblea delle Autonomie” – non un “Senato delle Autonomie” di cui negli ultimi anni si è teorizzato molto perché la parola Senato, per esigenze di comunicazione, deve sparire per sempre – di cui non si comprende a pieno la ratio.
L’Assemblea delle Autonomie, si legge, “rappresenta le istituzioni territoriali”.
Rappresenta nei confronti di chi o di cosa non è molto chiaro.
Ma siccome ciascun deputato “rappresenta” la nazione, occorreva fissare correlativamente una funzione rappresentativa della nuova assemblea, che, proseguendo la lettura della proposta di riformulazione dell’art. 55 della Costituzione, dovrebbe “esercitare la funzione di raccordo tra lo Stato e le Regioni, le Città metropolitane e i Comuni”.
Difficile determinarne l’effettiva funzionalità.
In concreto risulta che l’Assemblea delle Autonomie concorre all’approvazione delle leggi costituzionali, mantenendo così, solo per la revisione costituzionale, il bicameralismo per non modificare l’art 138, e partecipa, in seduta comune con la Camera dei Deputati, all’elezione del Presidente della Repubblica.
Per tutta l’attività legislativa ordinaria esprime pareri, peraltro non vincolanti, alla Camera dei Deputati, con l’unico effetto di una successiva deliberazione della Camera che si esprime sui pareri. Svolge inoltre attività di iniziativa legislativa. Nomina due giudici costituzionali.
L’Assemblea delle autonomie è composta dai Presidenti delle Giunte regionali e delle Province autonome di Trento e di Bolzano, nonché, per ciascuna Regione, da due membri eletti, con voto limitato, dai Consigli regionali tra i propri componenti e da tre Sindaci eletti da una assemblea dei Sindaci della Regione.
Naturalmente senza un’indennità costituzionalmente garantita.
E’ abbastanza agevole considerare che, per svolgere con una certa continuità ed efficacia la propria azione, l’assemblea necessita di riunirsi frequentemente per l’esame dei testi di legge approvati dalla Camera, per esprimere il parere.
Ma come è possibile conciliare il mandato di Presidenti delle Regioni o di Sindaci con l’obbligo di riunirsi frequentemente nell’assemblea delle autonomie?
Ha senso questa concentrazione di ruolo nelle stesse persone? In che modo possono effettivamente esercitarlo?
Quando si elegge il Sindaco, il cittadino deve sapere che contemporaneamente, nella stessa persona, sta eleggendo il sindaco della propria città, forse il Presidente della Provincia, attraverso l’elezione di secondo grado o il sindaco della città metropolitana, nonché un senatore, o meglio un componente dell’assemblea delle autonomie che sostituisce il senato. Un po’ troppo effettivamente.
Riformare il bicameralismo, nel senso di svincolare il Governo dalla responsabilità politica nei confronti del Senato della Repubblica, sembra una strada più che obbligata.
Ma ciò presuppone un ripensamento complessivo del sistema.
Varie aspetti problematici sono contenuti nella Relazione finale della Commissione per le riforme costituzionali, presentata dal Governo nel settembre scorso, e che appaiono del tutto ignorati dalla proposta del nuovo Governo.
La scelta del superamento del bicameralismo perfetto e della istituzione di una Camera delle Autonomie dovrebbe essere il frutto di due motivazioni di fondo:
a) la necessità di garantire al governo nazionale, certezza di disporre di una maggioranza politica, maggiore rapidità nelle decisioni; e dunque stabilità;
b) l’esigenza di portare a compimento il processo di costruzione di un sistema autonomistico compiuto con una Camera che sia espressione delle autonomie territoriali.
E’ chiaro che andrebbe effettuato un ripensamento delle funzioni, dell’assetto delle autonomie, dei ruoli effettivi delle due Camere.
Pensare ad un’assemblea delle autonomie che concorre solo all’elezione del Presidente della Repubblica o alle leggi di revisione costituzionale, è riduttivo e svuota di senso la previsione di un organo costituzionale stabile e rilevante, che, seppure consultivamente, interviene in tutto il procedimento legislativo.
Se il bicameralismo perfetto non è più attuale, non vanno trascurati i vantaggi del sistema, per interventi normativi rilevanti per l’assetto e l’organizzazione dello Stato, la normativa comunitaria, le norme elettorali.
Se oggi non ci fosse il bicameralismo, la riforma elettorale votata dalla Camera nei giorni scorsi, e che tutti affermano che necessita di correttivi (es. parità di genere) da introdurre al Senato, oggi sarebbe legge dello Stato.
E proprio la vicenda della legge elettorale è emblematica del modo di concepire il sistema che si sta pericolosamente affermando: si approva la nuova legge elettorale solo per la Camera perché tanto – si dice – il Senato sarà abolito.
Modo singolare e innovativo di interpretare il nostro ordinamento costituzionale.
Allora sarebbe necessaria una riflessione più profonda sul procedimento legislativo, su un Senato che sia davvero espressione delle Autonomie, non solo nei suoi componenti, ma sulle funzioni e competenze, sulla rappresentatività popolare e territoriale, sul rapporto con il Governo, del tutto assente nella proposta di riforma.
Una vera riforma dell’ordinamento non può essere proposta in fretta, per vincere scommesse sui tempi o per salvare la faccia; necessita di bilanciamenti e riflessioni complessive.
La riforma del titolo V, proposta dal Governo, nella stessa bozza, va in direzione opposta alla previsione dell’assemblea delle autonomie, perché rappresenta di fatto la compressione significativa delle autonomie regionali verso il centralismo statale.
Se la riforma del 2001 ha lasciato aperte molte questioni in particolare sulla legislazione concorrente, la riforma Renzi cancella del tutto la legislazione concorrente e sottrae alle Regioni funzioni fondamentali che caratterizzano oggi le autonomie regionali.
Diventano così assegnate alla legislazione esclusiva dello Stato:
a) Le norme generali sul governo del territorio e l’urbanistica;
b) Programmazione strategica del turismo.
c) Il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario;
d) Il sistema della protezione civile;
e) Il coordinamento delle professioni intellettuali;
f) L’ordinamento della comunicazione;
g) La tutela e sicurezza del lavoro;
h) La produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia;
i) Le grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale e relative norme di sicurezza;
j) Porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale;
k) Norme generali sul procedimento amministrativo;
l) Disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche;
m) L’ordinamento scolastico; istruzione universitaria e programmazione strategica della ricerca scientifica
Inoltre la legge dello Stato può intervenire in materie o funzioni non riservate alla legislazione esclusiva quando ricorrono esigenze di tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica o di realizzazione di riforme economico-sociali di interesse nazionale.
Viene eliminata anche la previsione oggi contenuta nell’art. 116 di concedere ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, alle Regioni a statuto ordinario, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali.
Si completa così il percorso neo-centralista. già affermato ed entrato nella Costituzione con la legge costituzionale 1/2012 che ha introdotto il principio del pareggio di bilancio, in vigore dal 2014.
Un rafforzamento della centralità dello Stato già costituzionalizzato sotto molteplici profili:
1) l’ “armonizzazione dei bilanci pubblici” è già oggi materia di potestà esclusiva dello Stato e non più di competenza concorrente con le Regioni;
2) il principio del concorso delle Regioni e degli Enti Locali all’adempimento dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione Europea è diventato principio costituzionale;
3) il principio dell’“equilibrio” valido per i conti pubblici dello Stato è esteso anche ai bilanci di Regioni, Province e Comuni;
4) il ricorso all’indebitamento per le spese di investimento può essere operato da parte degli enti locali “con la contestuale definizione di piani di ammortamento e a condizione che per il complesso degli Enti di ciascuna Regione sia rispettato l’equilibrio di bilancio”.
Già ridotta in questo modo l’autonomia finanziaria, la proposta di riforma incide adesso anche sulle funzioni.
Un esempio per tutti.
Nella proposta di riforma viene sottratto alle Regioni la competenza sul governo del territorio e quindi sulla pianificazione territoriale ed urbanistica che torna di competenza esclusiva dello Stato.
Togliere alle Regioni la competenza sul governo del territorio significa menomare alla radice uno dei pilastri del regionalismo e dell’autonomia.
Sulle autonomie locali infine la proposta si limita a cancellare dalla Costituzione la parola Province dalla Costituzione, senza ulteriori modifiche e mantenendo invece le “città metropolitane” come enti costitutivi della Repubblica.
Come più volte abbiamo sottolineato, e ribadendo l’appello di numerosi costituzionalisti di qualche mese fa, la decostituzionalizzazione, che consistere nella soppressione della parola Provincia in Costituzione, salvo a consentire alle Regioni di costituire con proprie leggi enti intermedi per svolgere le funzioni di area vasta – come di recente prospettato anche da opinioni espresse nell’ambito della “Commissione per le riforme costituzionali” – appare assai opinabile, perché cade in una contraddizione evidente: se si riafferma l’esistenza di funzioni di area vasta (né comunali, né regionali), queste funzioni non possono essere attribuite ad enti di incerta e variabile natura (in qualche regione enti o uffici dipendenti, in altre enti locali a base associativa, in altre enti locali elettivi).
Occorre, invece, una garanzia generale dell’esistenza di enti locali “necessari” di area vasta per tutto il territorio nazionale (salvo forse il caso delle Regioni più piccole) di cui la Costituzione e la legge statale devono continuare a tracciare gli elementi di base, a partire dalle funzioni e dal carattere direttamente elettivo degli organi.
Nel contempo andrebbe ridotta drasticamente la miriade di enti e altri soggetti strumentali e di società a vario titolo costituite da Regioni e Enti locali, che complicano, spesso duplicano e comunque costano, sfuggendo anche al controllo democratico e alle garanzie che debbono offrire autonomie effettivamente responsabili.
L’affidamento eventuale di funzioni di area vasta ad enti o soggetti politici (burocratici o solo indirettamente elettivi), appare oltretutto, chiaramente in contrasto anche con l’articolo 3, comma 2, della Carta europea delle autonomie locali, trattato internazionale che vincola direttamente il nostro legislatore, anche ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost., costituendo altresì un parametro per il giudizio sulla costituzionalità delle leggi.
In questa prospettiva, sul piano delle misure di carattere ordinamentale riguardanti le autonomie locali anziché procedere alle soppressioni ed abolizioni, si dovrebbe:
– accelerare, in primo luogo, il processo di individuazione delle funzioni fondamentali di Comuni e Province (e Città metropolitane), tenendo conto anche del principio di “unicità” per la distribuzione delle funzioni (ad evitare la sovrapposizioni di compiti), nonché della distinzione tra funzioni di prossimità e di area vasta nel riassetto delle funzioni locali;
– mantenere alla legge statale la definizione degli elementi di base della Provincia (funzioni fondamentali, organi, elezione), salvo a riconoscere un ruolo maggiore alle Regioni: nell’attribuzione di nuove funzioni (ora accentrate a livello regionale o gestite da enti strumentali); nella determinazione di strumenti di raccordo interistituzionale infraregionale (al di là dei Consigli delle autonomie previsti dall’art. 123, ultimo comma, Cost.); nei procedimenti di revisione territoriale delle Province;
– approvare norme statali di guida e stimolo alla revisione, necessariamente regionale, dei territori comunali, ricorrendo a forme associative “forti” (quanto a dimensioni minime e massime, a funzioni, a organi di governo, a fiscalità propria) o a processi di fusione che producano – entro tempi brevi e certi – il risultato della riduzione degli apparati amministrativi (e dei centri di spesa) comunali;
– ricondurre, in tempi brevi e certi, agli enti autonomi territoriali le funzioni amministrative attualmente esercitate dalla miriade di enti e società strumentali regionali e locali (pubblici o privati in controllo pubblico), in larga misura da sopprimere (semplificando e risparmiando non poco), anche perché figli di una pessima concezione dell’autonomia politica degli enti territoriali, con scarsa trasparenza e controlli nelle gestioni e quindi anche fonti frequenti di sprechi e di fenomeni corruttivi”.
Proposte queste di fonte autorevole e di evidente ragionevole visione complessiva dell’ordinamento degli Enti Locali e per questo di scarso appeal mediatico.
Meglio un tratto di penna che cancelli le parole dalla Costituzione e possa facilmente tradursi in inneggianti titoli di giornale o sintetizzabile in un tweet.
La proposta di riforma costituzionale si chiude con un “auspicio” o meglio con una necessità: quella di un coordinamento con la prima parte della Costituzione.
L’esigenza è riferita alla circoscrizione estero (art. 48) e con le norme necessarie per le modalità di elezione dell’assemblea delle autonomie.
I novelli costituenti spesso trascurano l’art. 5: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
Forse perché non vi è la parola “Province” e quindi non vi è nulla da cancellare!
Ma i principi fondamentali della Costituzione non possono che ispirare e determinare l’ordinamento.
La Repubblica:
– “riconosce e promuove”, non sopprime o cancella le autonomie locali;
– “attua”, non comprime, il più ampio decentramento;
– “adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento” non centralizza le funzioni e le competenze.
E non può essere certo una “Assemblea delle Autonomie”, dalla fisionomia incerta e confusa, a salvare dalla contraddizione con i principi dell’art. 5 la proposta disorganica di riforma oggi in discussione e che, nelle intenzioni, dovrebbe segnare la svolta buona del Paese.