Corte Suprema di cassazione – Ufficio del massimario – Rel. n. III/02/2014 Roma, 17.02.2014
Novità legislative: L. 6 febbraio 2014, n. 6 “Conversione in legge del d.l. 10 dicembre 2013, n. 136, recanti disposizioni urgenti dirette a fronteggiare emergenze ambientali e industriali ed a favorire lo sviluppo delle aree interessate”.
Rif. Norm.: d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, artt. 255, 256 bis, 256, 259; disp. att. c.p.p. art. 129.
Sommario: Premessa – 1. L’introduzione dei reati in materia di combustione illecita di rifiuti. – 2. I nuovi obblighi di informazione gravanti sul pubblico ministero.
Premessa.
La legge 6 febbraio 2014, n. 6 (Gazz. Uff. 8 febbraio 2014, n. 32) ha convertito con modifiche il d.l. n. 136/2013, con il quale nello scorso dicembre erano state introdotte, tra l’altro, “disposizioni per una più incisiva repressione delle condotte di illecita combustione dei rifiuti”, nonché previsioni relative agli obblighi di informazione sull’azione penale gravanti sul pubblico ministero.
Di seguito, si esamineranno le disposizioni in questione alla luce delle modifiche apportate dalla legge di conversione, muovendo da quanto esposto nella Relazione di questo Ufficio sul decreto legge (Rel. n. III/04/2013).
1. L’introduzione dei reati in materia di combustione illecita di rifiuti.
A seguito di avvenimenti che hanno avuto grande risalto nei “media”, e dei sempre più preoccupati allarmi di pericolo per la salute pubblica derivanti dall’emergenza ambientale, il legislatore ha ritenuto di intervenire nuovamente nella disciplina del sistema sanzionatorio in materia di rifiuti, contenuto nel d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, cd. “Codice dell’Ambiente”, introducendo la nuova figura delittuosa di combustione illecita di rifiuti.
A fronte di una disciplina incentrata su illeciti contravvenzionali, salva l’ipotesi del reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, prevista dall’art. 260 del d.lgs. n. 152 del 2006, il “nuovo” art. 256 bis, introdotto dall’art. 3 del d.l. n. 136 del 2013, come convertito con modifiche nella legge n. 6 del 2014, nel medesimo d.lgs., prefigura ora due delitti di nuovo conio nei primi due commi, ai quali vengono affiancati tre circostanze aggravanti al primo, al terzo e al quarto comma, un’ipotesi di confisca al quinto comma, ed un illecito amministrativo che costituisce un limite alla rilevanza penale delle condotte suindicate al sesto comma; ancora, una ulteriore fattispecie di difficile classificazione è stata innestata proprio dalla legge di conversione nel secondo periodo del terzo comma.
A) Le nuove fattispecie di reato
La figura delittuosa prevista dal primo comma del ‘nuovo’ art. 256 d.lgs. n. 152 del 2006 è così delineata: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata è punito con la reclusione da due a cinque anni”.
La previsione incriminatrice, con riferimento all’elemento oggettivo, sembra ‘costruita’ in negativo rispetto a quella che punisce l’incendio, sia perché vi è l’espressa clausola di riserva “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, sia perché la condotta rilevante è descritta mediante l’impiego di una formula linguistica – “appicca il fuoco” – già utilizzata dal legislatore nell’art. 424 cod. pen. per indicare un’azione alla quale non segue necessariamente un incendio a norma dell’art. 423 cod. pen. e che, anzi, assumendo significato per l’ordinamento penale solo se da essa “sorge il pericolo di un incendio”, potrebbe essere inidonea, di per sé, persino a determinare quest’ultimo evento. La soluzione interpretativa appena indicata, inoltre, appare in linea anche con le indicazioni esposte nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione del d.l. in esame, laddove si evidenzia che la previsione delle nuove fattispecie è stata determinata dall’inadeguatezza del (pre)vigente sistema sanzionatorio, e, in particolare, (anche) della fattispecie prevista dall’art. 423 cod. pen., ad assicurare una sufficiente tutela per l’ambiente e per la salute collettiva.
Così prefigurata la condotta, l’oggetto materiale di essa – i “rifiuti abbandonati o depositati in maniera incontrollata” – sembra individuato avendo riguardo a quanto previsto dagli artt. 192, commi 1 e 2, 226, comma 2, e 231, commi 1 e 2, del d. lgs. n. 152 del 2006, in linea con il richiamo ad essi operato dall’art. 255 del medesimo d. lgs. nella parte in cui contempla l’illecito amministrativo di abbandono o deposito di rifiuti.
Può aggiungersi che, rispetto al testo del d.l., la legge di conversione ha eliminato l’inciso che condizionava la configurabilità del reato alla commissione della condotta in “aree non autorizzate”, e che avrebbe potuto dare luogo ad incertezze applicative, ad esempio inducendo ad interrogarsi se, alla luce delle parole, ora soppresse, l’appiccare il fuoco a rifiuti all’interno di una discarica integrasse o meno la fattispecie in questione.
Con riferimento alla colpevolezza, trattandosi di delitto, ed in assenza di specifiche indicazioni, appare possibile ritenere necessaria la forma del dolo generico.
La seconda fattispecie di delitto di nuova introduzione, alla quale si applicano le stesse pene previste per la prima, è quella di “colui che tiene le condotte di cui all’art. 255, comma 1, e le condotte di reato di cui agli articoli 256 e 259, in funzione della successiva combustione illecita di rifiuti”.
Per questa figura di reato, vi è un segmento che sembra identificarsi esattamente nelle azioni descritte dagli artt. 255, comma 1, 256 e 259 d.lgs. n. 152 del 2006, cui si aggiunge il profilo della funzionalizzazione alla successiva combustione illecita.
In riferimento al primo elemento, rispetto al d.l., che attribuiva rilievo alle sole condotte di cui all’art. 255, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006 – ossia all’abbandono o al deposito di rifiuti in violazione degli artt. 192, commi 1 e 2, 226, comma 2, e 231, commi 1 e 2, del medesimo d. lgs., ovvero all’immissione degli stessi nelle acque superficiali o sotterranee –, la legge di conversione ha introdotto una significativa novità, richiamando anche: a) le attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione, nonché quelle di realizzazione o gestione di discarica non autorizzata, e le altre ulteriori previste dall’art. 256 del d.lgs. cit.; b) le spedizioni di rifiuti, contemplate dall’art. 259 dello stesso testo normativo.
Il secondo elemento, quello della funzionalizzazione della condotta alla successiva combustione illecita, appare offrire aspetti problematici: in particolare, la formula linguistica impiegata dal legislatore potrebbe essere letta in una chiave marcatamente soggettivistica, in termini di qualificazione del dolo come dolo specifico, oppure come implicativa della necessità, ai fini dell’integrazione della fattispecie, anche del compimento di atti obiettivamente apprezzabili e diretti al fine della “combustione illecita di rifiuti”, oppure ancora come espressione che sottintende anche la consumazione di tale combustione. Probabilmente, la terza ipotesi di lettura potrebbe dare luogo ad una “interpretatio abrogans”, in quanto, da un lato, per il reato di cui all’art. 256 bis, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006 sono previste le “stesse pene” comminate per il reato di “combustione illecita di rifiuti”, e, dall’altro, la clausola “salvo che il fatto costituisca più grave reato” posta all’inizio della formulazione del testo che contempla questa figura, sembra assicurare in ogni caso la prevalenza di tale fattispecie rispetto a quelle previste dagli artt. 255, comma 1, 256 e 259 del d.lgs. cit. La seconda ipotesi di lettura, invece, potrebbe essere favorita dalla considerazione che le condotte previste dall’art. 255 del d. lgs. n. 152 del 2006 sono punite solo come illecito amministrativo, salvo se commesse dai titolari di imprese e dai responsabili di enti (cfr. l’art. 256, comma 2, del medesimo testo normativo), e che, quindi, ritenere l’inciso “in funzione della successiva combustione illecita di rifiuti” in una prospettiva di carattere oggettivo potrebbe essere maggiormente in linea con esigenze di tassatività, materialità ed offensività; resta tuttavia problematica, sotto il profilo della ragionevolezza, l’identità delle sanzioni edittali previste per le condotte assimilabili al tentativo di “combustione illecita di rifiuti” e per le condotte in cui l’evento in questione è, invece, compiutamente consumato.
In ogni caso, l’inciso normativo sembra richiedere la sussistenza del dolo specifico, ai fini dell’integrazione della colpevolezza per l’ipotesi (o le due ipotesi) di reato in questione, a differenza di quelle precedentemente descritte.
Non agevole, come si è detto, è l’inquadramento sistematico della fattispecie introdotta dalla legge di conversione attraverso l’inserimento di un secondo periodo del comma 3 del ‘nuovo’ art. 256 bis d.lgs. n. 152 del 2006. La disposizione, in effetti, prevede: “Il titolare dell’impresa o il responsabile dell’attività comunque organizzata è responsabile anche sotto l’autonomo profilo dell’omessa vigilanza sull’operato degli autori materiali del delitto comunque riconducibili all’impresa o all’attività stessa; ai predetti titolari d’impresa o responsabili dell’attività si applicano altresì le sanzioni previste dall’articolo 9, comma 2, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231”.
Il problema deriva dalla possibilità di diverse soluzioni interpretative.
Nel corso dei lavori parlamentari, si è evidenziato che la responsabilità per omessa vigilanza potrebbe essere intesa in termini di fattispecie implicante sia un contributo causale alla verificazione del fatto sia la rappresentazione e volizione dell’evento dannoso, oppure, invece, in termini di ipotesi configurante una responsabilità a titolo di colpa. Si è, però, aggiunto che la prima soluzione tenderebbe a privare di utilità la previsione, in quanto rischierebbe di ridurla a semplice riproposizione della disciplina generale del codice penale in tema di concorso di persone nel reato, mentre la seconda soluzione potrebbe far sorgere dubbi sulla ragionevolezza dell’identità di trattamento sanzionatorio riservata al concorrente a titolo di colpa rispetto a chi ha agito con dolo.
Una ulteriore ipotesi ricostruttiva, forse, potrebbe essere quella di attribuire alla nuova disposizione la funzione di tipizzare una specifica posizione di garanzia: in questo modo, la fattispecie sarebbe quella del reato omissivo doloso, ascrivibile al “titolare dell’impresa” o al “responsabile dell’attività comunque organizzata”, e consistente nel non impedire l’evento della “combustione illecita di rifiuti” determinata dall’azione di soggetti “comunque riconducibili all’impresa o all’attività stessa”.
B) Le circostanze aggravanti
Per quanto riguarda le circostanze aggravanti, il legislatore prefigura, alla luce anche di quanto disposto in sede di conversione, tre distinte ipotesi, precisamente nell’ultimo periodo del comma 1, nel primo periodo del comma 3 e nel comma 4 del ‘nuovo’ art. 256 bis d. lgs. n. 152 del 2006. La prima aggravante riguarda il “caso in cui sia appiccato il fuoco a rifiuti pericolosi”; per la stessa viene fissata “la pena della reclusione da tre a sei anni”. La seconda previsione, poi, stabilisce che “la pena è aumentata di un terzo se i delitti di cui al comma 1 siano commessi nell’ambito di un’attività di impresa o comunque di un’attività organizzata”. La terza fattispecie, infine, dispone che “la pena è aumentata di un terzo se i fatti di cui al comma 1 sono commessi in territori che, al momento della condotta e comunque nei cinque anni precedenti, siano o siano stati interessati da dichiarazioni di stato di emergenza nel settore dei rifiuti ai sensi della legge 24 febbraio 1992, n. 225”.
Sembra utile segnalare che, in relazione alla prima figura, il decreto legge poteva indurre a ritenere la sussistenza di un’autonoma fattispecie incriminatrice e non una circostanza aggravante sia perché per la stessa erano – e sono – previste pene autonomamente determinate rispetto a quelle della fattispecie base, sia, soprattutto, perché il legislatore, ai commi 3, 4 e 5 del medesimo art. 256 bis, laddove si riferisce alle circostanze aggravanti ed alle cose confiscabili, adoperava l’espressione “delitti di cui al comma 1”, impiegando espressamente il plurale. Già sotto la vigenza di quel testo, tuttavia, si era segnalato come non potesse ritenersi del tutto implausibile un inquadramento dell’ipotesi in termini di circostanza aggravante perché l’elemento differenziale rispetto alla fattispecie prevista dal primo periodo del medesimo comma era – ed è – costituito esclusivamente dall’oggetto materiale, i “rifiuti pericolosi”, la cui nozione è desumibile alla luce di quanto dispone l’art. 184, comma 4, del d.lgs. n. 152 del 2006, che fa riferimento, a tal fine, alle cose dotate delle “caratteristiche di cui all’allegato I della parte quarta del presente decreto”. Con le modifiche apportate in sede di conversione, ad ogni modo, il legislatore sembra aver scelto con decisione la formula della circostanza aggravante: invero, va sottolineata la cura con cui l’espressione “delitti di cui al comma 1”, precedentemente impiegata dal d.l. n. 136 del 2013 nei commi 3, 4 e 5 della medesima disposizione, è stata modificata dalla legge di conversione in quella di “delitto di cui al comma 1” (comma 3), “fatto di cui al comma 1” (comma 4), “reato di cui al comma 1” (comma 5).
Con riguardo alle altre due aggravanti, può evidenziarsi che l’aumento di pena è previsto nella misura fissa “di un terzo”; precisamente tale entità predeterminata era già prevista nel d.l. n. 136 del 2013 per l’ipotesi di cui al comma 3 del ‘nuovo’ art. 256 bis d.lgs. n. 152 del 2006, mentre è stata resa rigida per quella di cui al comma 4 del medesimo articolo dalla legge di conversione.
C) Possibili limiti alla rilevanza penale delle condotte tipizzate
In linea generale, poi, ai fini dell’individuazione dei limiti della rilevanza penale delle condotte, significativa è la disposizione contenuta nel sesto comma del medesimo art. 256 bis, per effetto del quale “si applicano le sanzioni di cui all’articolo 255 se le condotte di cui al comma 1 hanno ad oggetto i rifiuti di cui all’art. 184, comma 2, lett. e)”, ossia “i rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali”. In effetti, considerato, per un verso, che per questa fattispecie è espressamente prevista una sanzione amministrativa e, per altro verso, che i rifiuti in questione sono obiettivamente meno pericolosi per la salute della collettività, si potrebbe ragionevolmente concludere che la condotta di chi appicca il fuoco a rifiuti vegetali provenienti da aree verdi abbandonati o depositati in maniera incontrollata è priva di rilevanza penale, ed integra un mero illecito amministrativo.
Tuttavia, se questa soluzione interpretativa individua un limite alla rilevanza penale delle nuove fattispecie incriminatrici con riferimento al profilo ‘qualitativo’ dell’oggetto materiale del reato, altro discorso deve farsi sulla possibile rilevanza del profilo ‘quantitativo’ dello stesso. Nel silenzio del legislatore, l’individuazione del confine tra rilevanza ed irrilevanza penale delle condotte non attinenti a “rifiuti vegetali provenienti da aree verdi”, potrebbe essere fornito da una valutazione incentrata sul grado di offesa per l’interesse tutelato dalla norma. In questa prospettiva, appare utile considerare che il legislatore sembra aver inteso tutelare l’ambiente anche quando non venga direttamente in rilievo la salute collettiva: una conferma in proposito risulta offerta anche dall’art. 4 del d.l. n. 1536 del 2013, che, nell’introdurre un nuovo comma 3 ter all’art. 129 disp. att. cod. proc. pen., ha previsto l’obbligo per il pubblico ministero di informare il Ministero dell’Ambiente ogniqualvolta procede per uno dei reati previsti dal d. lgs. n. 152 del 2006, e, quindi, anche se si tratti del ‘nuovo’ art. 256 bis, e di informare, invece, il Ministero della Salute o il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali solo quando i predetti reati “arrechino un concreto pericolo alla tutela della salute o alla sicurezza agroalimentare”.
D) Le ipotesi di confisca
Il comma 5 dell’art. 256 bis d. lgs. n. 152 del 2006, incide sulla disciplina delle misure di sicurezza patrimoniali adottabili, prevedendo la confisca sia dei “mezzi di trasporto di rifiuti oggetto del reato di cui al comma 1 del presente articolo, inceneriti in aree o impianti non autorizzati […] salvo che il mezzo appartenga a persona estranea alle condotte di cui al citato comma 1 del presente articolo e che non si configuri concorso di persona nella commissione del reato”, sia “dell’area sulla quale è commesso il reato, se di proprietà dell’autore o del concorrente del reato, fatti salvi gli obblighi di bonifica e ripristino dello stato dei luoghi”.
La prima ipotesi di confisca, relativa ai mezzi utilizzati per il trasporto dei rifiuti, che, per il rinvio all’art. 259, comma 2, d.lgs. n. 156 del 2006, deve ritenersi obbligatoria, risulta limitata, almeno secondo la formula linguistica impiegata nella legge di conversione, alla situazione in cui detti rifiuti siano “inceneriti in aree o in impianti non autorizzati”. La seconda ipotesi di confisca, che appare essere anch’essa obbligatoria, perché si dispone che la stessa “consegue alla sentenza di condanna o alla sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.”, pone qualche problema ermeneutico laddove si riferisce specificamente alle aree di proprietà del “concorrente nel reato”: questa dizione, che sostituisce quella di “compartecipe del reato”, impiegata nel d.l. n. 136 del 2013, può sembrare un inciso superfluo, dato che ciascun concorrente risponde pienamente del reato a norma dell’art. 110 cod. pen.; potrebbe, forse, conservare qualche utilità se la fattispecie introdotta dalla legge di conversione nel secondo periodo del terzo comma del ‘nuovo’ art. 256 bis d.lgs. n. 152 del 2006 venisse configurata in termini di responsabilità colposa o di autonoma figura di reato omissivo improprio.
2. I nuovi obblighi di informazione gravanti sul pubblico ministero.
L’art. 4 del d.l. n. 136 del 2013 è intervenuto sulle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, introducendo un nuovo comma 3 ter all’art. 129.
Specificamente, la nuova previsione impone innanzitutto al pubblico ministero di informare il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio quando esercita l’azione penale per i reati previsti dal d.lgs. n. 152 del 2006, ovvero per i reati previsti dal codice penale o da leggi speciali comportanti un pericolo o un pregiudizio per l’ambiente, nonché, anche, il Ministero della Salute o il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, quando i predetti reati “arrechino un concreto pericolo alla tutela della salute o alla sicurezza agroalimentare”. Con riferimento all’obbligo di informazione per così dire ‘aggiuntivo’, sembra ragionevole ritenere che l’uso della particella disgiuntiva “o”, ripetuto due volte,e lo scopo della disposizione, determinino il dovere di informare: a) il solo Ministero della Salute, oltre che quello dell’Ambiente, nei casi in cui sia configurabile un pericolo per la tutela della salute, ma non anche per la sicurezza agroalimentare; b) il solo Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, oltre che quello dell’Ambiente, nei casi in cui vi è pericolo per la sicurezza agroalimentare, ma non anche per la tutela della salute; c) entrambi i Ministeri, oltre che quello dell’Ambiente, quando vi è pericolo per entrambi i beni giuridici.
Detto obbligo di informazione si estende anche alle sentenze ed ai “provvedimenti definitori di ciascun grado di giudizio”.
E’ venuto meno, invece, per effetto della legge di conversione, ogni riferimento a doveri di comunicazione nei casi di arresto, fermo o misura cautelare: in questo modo, sono state eliminate anche le perplessità interpretative, segnalate nella Rel. n. III/04/2013, che sorgevano dalla pertinente previsione contenuta nel testo originario dell’art. 4 del d.l. n. 136 del 2013 e che avevano riguardo alla esatta individuazione delle situazioni in cui sarebbe venuto in essere l’obbligo informativo gravante sul pubblico ministero.
Redattore: Antonio Corbo
Il vice direttore
Giorgio Fidelbo