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di Carlo Rapicavoli –

In un editoriale, pubblicato sul Gazzettino di oggi 11 agosto 2013, il Prof. Romano Prodi, analizzando le criticità principali che impediscono la crescita in Italia – ristrettezze di bilancio, obblighi comunitari, costo del lavoro e dell’energia, ecc. – si sofferma sulla nostra giustizia amministrativa, richiamando quanto dettogli da un imprenditore.

In sostanza si evidenzia l’incertezza che deriva dal frequente ricorso a TAR e Consiglio di Stato, su ogni materia, con il concreto rischio di paralisi.

Tanto da affermare che “se si abolissero i Tar e il Consiglio di Stato, il nostro Pil assumerebbe subito un cospicuo segno positivo, non solo senza spese ma con copiosi risparmi”.

Il prof. Prodi quindi si appella ai giuristi per la ricerca di rimedi finalizzati a ridurre drasticamente il contenzioso amministrativo.

Le valutazioni che si ricavano dall’editoriale hanno certamente fondamento. Non vi è dubbio.

Sul rimedio c’è molto da riflettere.

Perché vi è un eccesso di contenzioso amministrativo? Per un’innata litigiosità degli Italiani o forse perché la nostra legislazione, in modo sempre più accentuato negli ultimi anni, è sempre più confusa e determina incertezze?

La prolificità del legislatore si scontra con una pessima tecnica legislativa, con norme che si succedono mal coordinate, di impossibile lettura per chi non è specialista, con circolari interpretative ancora più confuse, con violazione dei principi costituzionali e delle fonti del diritto.

Non è certo un fenomeno recente; ad esempio già nel 1986 i Presidenti delle Camere ed il Presidente del Consiglio dei Ministri, d’intesa fra loro, emanarono tre circolari di identico testo contenenti una serie di regole e raccomandazioni di carattere tecnico dirette a rendere più chiari e comprensibili i testi legislativi.

Tali circolari sono state trasfuse in una “Lettera circolare sulle regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei testi legislativi” adottata il 20 aprile 2001 dai Presidenti delle Camere e dal Presidente del Consiglio dei Ministri.

La Corte Costituzionale con sentenza 303/2003 ha affermato che la certezza e la chiarezza normativa sono un valore costituzionale ed assumono rilevanza in un giudizio di legittimità costituzionale.

Nel 2007, in sede di Conferenza Unificata, è stato sancito l’impegno di Stato, Regioni e Province autonome ad unificare i manuali statali e regionali in materia di drafting di testi normativi.

Tali tentativi sono stati evidentemente infruttuosi.

Allora, di fronte all’incapacità del legislatore, la soluzione è quella di eliminare o ridimensionare gli ambiti e le opportunità di tutela giurisdizionale del cittadino? Se è vero che bisogna disincentivare liti temerarie o con finalità meramente dilatorie, è chiaro che la soluzione non può essere la compressione dei diritti dei cittadini, tutelati, per quanto in discussione, dall’art. 103 della Costituzione.

In molti, recentemente, anche autorevoli commentatori, hanno sollevato dubbi perfino sulla Corte Costituzionale, che – a dire di questi – vanifica l’intento e la spinta riformatrice degli ultimi Governi.

Ma nessuno pone l’attenzione su un principio fondamentale di uno Stato di diritto: il rispetto dei principi su cui poggia le sue basi il nostro sistema repubblicano.

Ecco: all’incapacità della classe politica, rappresentata in Parlamento, di dettare norme davvero efficaci, chiare ed applicabili, vera responsabile dell’attuale caos normativo, si sostituisce e prevale l’idea che per uscire dalla crisi bisogna riformare la Corte Costituzionale, eliminare, o fortemente ridimensionare, la giustizia amministrativa (Consiglio di Stato e TAR), sopprimere livelli di governo e di rappresentanza democratica (Province).

Si succedono comitati di saggi e comitati parlamentari per le riforme.

Ma si tralascia sempre l’unica e vera strada maestra, il rispetto e l’attuazione della nostra Costituzione.

Carlo Rapicavoli

Di seguito il testo dell’editoriale di Romano Prodi

“Ogni giorno si propongono nuovi rimedi per tentare di rilanciare l’economia italiana. Si parla di sollievi fiscali, ma ci si trova bloccati dalle ristrettezze di bilancio e dagli obblighi di Bruxelles. Si insiste sul costo del lavoro ma poi si deve constatare che esso, oneri sociali compresi, è in genere inferiore a quello della Germania e degli altri competitori dell’Europa occidentale (Spagna esclusa).

Si mette in luce la mobilità del lavoro ma gli imprenditori confessano che, salvo l’incancrenimento dei rapporti in alcune grandi imprese, il problema della mobilità non è certo più grave di quello della Francia e che, per i giovani, la mobilità è sostanzialmente totale perché il posto fisso non arriva mai. Il problema deriva piuttosto dall’inammissibile lentezza dei regolamenti di attuazione in materia. Certo tutti questi pilastri della vita economica hanno bisogno di modernizzazioni e cambiamenti, così come il costo dell’energia che, tra orpelli e costi aggiuntivi, ci rende diversi da tutti i Paesi del mondo.

Questi cambiamenti sono necessari ma costano. Quando però si fanno concreti ragionamenti con i potenziali investitori (siano essi italiani o stranieri, fatta esclusione per quelli che comprano i nostri marchi più prestigiosi), essi elencano prima di tutto l’incertezza che pende su ogni decisione economica per effetto del
modello organizzativo della nostra giustizia amministrativa.

Mi diceva con amara ironia uno di questi che, se si abolissero i Tar e il Consiglio di Stato, il nostro Pil assumerebbe subito un cospicuo segno positivo.

Un aumento del Pil non solo senza spese ma con copiosi risparmi.

E mi elencava l’enorme e senza confronti spazio di potere che queste istituzioni hanno assunto rispetto ai limiti rigorosi che esse hanno negli altri paesi.

Non sono un giurista per dire se questo sia possibile, ma certo non posso non notare che il ricorso a questi tribunali è diventato un fatto normale ogni volta in cui si procede a un appalto o che sia pronunciato l’esito di un concorso pubblico o una qualsivoglia decisioni che abbia un significato economico. Il tutto senza sostanziali limiti al ricorso. Il quale blocca regolarmente e per anni gli investimenti infrastrutturali, ferma per periodi quasi indefiniti i concorsi universitari e viene usato per scopi che il buon senso ritiene del tutto estranei a un’efficace difesa dei diritti. Con la giustizia amministrativa si è persino bloccato l’insegnamento in lingua inglese al politecnico di Milano e si ferma regolarmente l’assegnazione degli acquisti pubblici decisi da un organo dello Stato come la Consip, che è stato creato proprio per fornire una sicura garanzia nel delicato campo degli acquisti della Pubblica amministrazione.

Il ricorso al Tar è diventato un comodo e poco costoso strumento di blocco contro ogni decisione che non fa comodo, penetrando ormai in ogni aspetto della vita del paese. La conseguenza è che, in presenza di un’eterna incertezza, i capitali e le energie umane fuggono dall’Italia verso luoghi nei quali quest’incertezza non esiste. Non essendo giurista non riesco a suggerire rimedi che non cadano poi nella rete degli azzeccagarbugli ma, nella difficile realizzabilità del l’abolizione del Tar, chiedo di essere aiutato a fare in modo che i ricorsi siano ammessi nei rari casi in cui conviene che siano ammessi (cinque o dieci per cento dei casi rispetto a oggi?), che siano accompagnati dalle opportune garanzie finanziarie, che i ricorsi dichiarati infondati provochino le logiche conseguenze negative a chi li ha sollevati e che siano decisi nei tempi
coerenti con l’obiettivo di non legare le gambe all’Italia.

Possibile che non ci sia qualche giurista disposto ad aiutarmi nel risolvere questo problema?”

Romano Prodi, il Gazzettino, 11 agosto 2013, pag. 1

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