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di Luigi Oliveri –

Il disegno di legge proposto dal Ministro Delrio per modificare l’ordinamento locale e svuotare di competenze le province presenta rilevanti aspetti di incostituzionalità.

La previsione normativa supera certamente il principale vizio rilevato dalla sentenza della Corte costituzionale 220/2013: l’utilizzo improprio della decretazione d’urgenza per modificare l’ordinamento. Infatti, si tratta di una legge ordinaria, di iniziativa del Governo.

Tuttavia, il merito della norma si espone certamente a critiche rispetto alla sua legittimità costituzionale, anche se gli aspetti di costituzionalità risultano meno evidenti, rispetto a quelli che hanno determinato l’inevitabile rilevazione dei vizi delle manovre Monti.

Il disegno di legge, in tutti i suoi contenuti, addirittura sin dall’acronimo col quale il Governo lo denomina, “svuotaprovince”, rivela contrasti evidenti con due disposizioni della Costituzione.

La prima è l’articolo 5, norma importantissima, perché sta tra i principi generali posti nei primi 12 articoli della Carta, considerati sostanzialmente immutabili, a meno che non si nomini una nuova Assemblea costituente, col compito espresso di modificare totalmente la Costituzione.

L’articolo 5 dispone: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principî ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.

L’articolo 5 fonda un rapporto del tutto particolare tra Repubblica ed autonomie locali: la prima non istituisce e costituisce le seconde, ma le “riconosce”. Cioè, la Repubblica prende atto che le autonomie locali le preesistono e, per questo, riconosce il loro ruolo e le rende parte integranti dell’ordinamento.

E quali erano gli enti locali preesistenti? I comuni e le province. Le regioni, al contrario, sono state istituite dalla Costituzione e nei loro riguardi non opera il “riconoscimento” di enti fondanti, nella sostanza, insieme con la stessa Repubblica, l’intero ordinamento.

La seconda norma che rileva è, ovviamente, l’articolo 114, comma 1, della Costituzione, introdotto molti anni dopo, con la legge costituzionale 3/2001, ma che appare coerente esplicazione dell’articolo 5: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Dunque, comuni, province, città metropolitane e regioni, a Costituzione vigente, lo si ribadisce, vigente, costituiscono, con lo Stato, l’insieme ordinamentale che è la Repubblica. E’, dunque, la stessa Costituzione a specificare il significato proprio della prima parte dell’articolo 5.

Tornando proprio a tale norma, si deve rilevare che non solo la Repubblica riconosce enti preesistenti e fondanti, ma si impegna anche:
a) a promuoverli;
b) a fare in modo che la legislazione si adegui alle esigenze delle autonomie, proprio perché debbono essere valorizzate.

Ora, sulla base degli insegnamenti della dottrina e della giurisprudenza costituzionale dominanti, l’insieme delle norme riportate qualifica l’ordinamento italiano come “policentrico”, composto da una serie di enti territoriali con “pari dignità istituzionale”. Il che significa che non esiste una posizione di gerarchia tra essi, sebbene i poteri e le competenze di cui dispongono risultano di estensione e peso diversi e peculiari.

Le leggi statali e regionali dovrebbero, anche tenendo presente quanto dispone l’articolo 118 della Costituzione in tema di sussidiarietà verticale, sempre legiferare in modo da avvicinare l’attività amministrativa ai territori, tenendo ben presente che certe funzioni se risultano sproporzionate o inadeguate al livello da prendere in considerazione per primo, quello comunale, va assegnato su, nella progressione verticale, verso l’ente che risulti più idoneo e meglio organizzato allo scopo.

E’ evidente che il disegno di legge contrasti frontalmente con questi principi. A partire, intanto, dall’inconsueta formula contenuta nell’articolo 1, comma 1, che esplicita l’intenzione di regolare la disciplina di città metropolitane, province e unioni di comuni “anche in attesa della riforma costituzionale ad essi relativa”.

A parte l’osservazione che le unioni di comuni non sono per nulla contemplate dalla Costituzione, appare piuttosto evidente l’assoluta contrarietà a Costituzione di una formula di questo genere e di una legge che, alla luce dell’esplicita intenzione del legislatore, intende regolare la disciplina di enti “riconosciuti” dalla Repubblica, cioè le province, in modo antitetico a quanto prevede la Costituzione, in attesa che la Costituzione venga modificata.

E’ una formula che potrebbe aprire una china pericolosissima. Qualsiasi legge ordinaria, se passasse l’esempio del disegno di legge Delrio, potrebbe essere dotata di formule similari, per modificare la Costituzione non con leggi costituzionali, ma ordinarie, in attesa di possibili successive riforme della Costituzione.

Sta di fatto che, in assenza di una modifica alle norme costituzionali citate, qualsiasi disposizione di legge che operi in contrasto col riconoscimento delle autonomie locali, vìoli la pari dignità istituzionale degli enti territoriali, svuoti e renda più deboli alcuni enti (le province) a discapito di altri (città metropolitane, comuni e unioni di comuni), alcuni dei quali nemmeno sono previsti dalla Costituzione (unioni di comuni), non può che essere incostituzionale.

Ma sono proprio questi gli effetti del disegno di legge. Le province vengono assorbite dalle città metropolitane che verranno costituite, le quali, per altro, saranno solo l’estensione, la proiezione verso l’esterno del potere centrale del capoluogo.

Laddove le province resteranno, saranno appunto svuotate di competenza, in totale contraddizione col riconoscimento e la promozione del loro ruolo, previsti dall’articolo 5 della Costituzione. Ed anche la pari dignità istituzionale è platealmente vulnerata, visto che le province divengono una sorta di “colonia” dei comuni. Infatti, diverrebbe un ente “di secondo livello”, senza piena autonomia, perché governata dai sindaci, senza più rapporto diretto con un corpo elettorale.

Il ddl Delrio potrebbe forse più legittimamente, sul piano costituzionale, ridisegnare l’assetto ordinamentale degli enti territoriali solo dopo che la Costituzione venisse modificata. Ma, allo scopo, non basterebbe cancellare la parola “province”, come fa il disegno di legge costituzionale elaborato dal Governo all’indomani della sentenza della Consulta 220/2013. Occorrerebbe, infatti, anche modificare l’articolo 5 della Costituzione ed eliminare dall’ordinamento l’opera di riconoscimento delle autonomie preesistenti alla Repubblica.

L’operazione risulterebbe alquanto discutibile. Il riordino dei livelli di governo va certamente perseguito, ma non a scapito degli enti riconosciuti dalla Repubblica, bensì nei confronti di tutti quelli sorti dopo, per effetto dell’incontrollato fenomeno sia dell’associazionismo dei comuni, che ha generato enti di dubbia utilità, le unioni di comuni per prime, ma, sopratutto, da miriadi di leggi e leggine, statali e regionali, che hanno fatto proliferare enti regionali, aato, consorzi, enti pubblici economici ed agenzie, comunità montane. Molti dei quali, per altro, esercitano competenze e funzioni che potrebbero essere concentrati proprio nelle province, perseguendo sia una meritoria opera di semplificazione ordinamentale, sia la valorizzazione di un ente locale “riconosciuto”.

Non sono, poi, da trascurare ulteriori profili, probabilmente più sfumati, di incostituzionalità. Un tra essi, la violazione del principio di eguaglianza, che coinvolge sia i cittadini, sia i dipendenti delle province.

Nei confronti dei cittadini si lede il diritto a pretendere un eguale livello delle prestazioni e dei servizi offerti dall’ordinamento. Appare assai singolare, in effetti, che il disegno complessivo voglia portare a cancellare 97 province ed immaginare un sistema di erogazione dei servizi estremamente complesso e parcellizzato tra migliaia di enti, dove prima ve n’era uno solo, mentre in altre 10 l’organizzazione basata sul sistema provinciale resterà in piedi, sia pure sotto la diversa forma delle città metropolitane.

La disparità di trattamento, di modi di erogazione dei servizi, la forte complicazione del quadro amministrativo in 97 province, a fronte di una diversissima situazione in altre 10, oggettivamente sembrano un vulnus al diritto di ciascun cittadino di ricevere un nucleo di servizi e prestazioni eguale in tutto il territorio. Che, poi, in alcune zone caratterizzate da particolari situazioni di urbanizzazione possa anche esservi l’opportunità di un sistema di programmazione che guardi come un insieme capoluogo ed hinterland può andare bene. Nel merito, tuttavia, è difficile credere che sia paragonabile la situazione di urbanizzazione della cintura di Milano, Genova e Napoli con quella di Venezia o Reggio Calabria.

Proprio la qualificazione di città come Reggio Calabria, Firenze, Bari, come città metropolitane rende evidente l’irrazionalità della decisione di creare le città metropolitane come enti che assorbono le province, mentre da altre parti, in città e province anche molto più densamente abitate e caratterizzate da sistemi economici robustissimi e trainanti, le funzioni provinciali vengono disperse in mille rivoli.

Anche per i dipendenti delle province si crea una disparità di trattamento difficilmente compatibile con l’articolo 3 della Costituzione. Per coloro che operano nelle 10 province destinate a divenire città metropolitane nella sostanza non si pone alcun problema di continuità quali-quantitativa del lavoro. Per tutti gli altri, si aprono prospettive alquanto incerte del se, come e quando dovranno essere trasferiti non si sa se ai comuni (ma quali comuni?), alle unioni di comuni (quali unioni di comuni?) e le regioni.

Probabilmente i tempi fissati dal Governo non consentiranno alla Corte costituzionale di vagliare per tempo i profili di incostituzionalità rilevati. Questo, tuttavia, non solleva le dense nubi ed i dubbi che ammantano il disegno di legge.

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