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di Carlo Rapicavoli –

Il dibattito intorno all’abolizione delle Province denuncia la grande difficoltà dell’attuale classe politica.

Un dibattito certo non nuovo, che animò anche l’assemblea costituente, che allora era basato però sulle valutazioni dell’assetto complessivo dell’ordinamento costituzionale e non certo ispirato dalle spinte demagogiche di oggi, pur fondate dall’esigenza di ridurre i costi della politica.

Iscriversi al partito abolizionistico è impresa molto semplice e portatrice di consenso.

Abolizione è divenuta sinonimo di riformismo e di efficientismo.

La risposta, con inusitata tempestività, data dal Governo all’indomani della sentenza della Corte Costituzionale, senza neanche attendere le motivazioni, mostra tutte le sue contraddizioni e incoerenze.

1) Il d.d.l. costituzionale per l’abolizione delle Province, approvato dal Governo il 5 luglio scorso, è privo di logica e di coerenza rispetto all’ambizioso disegno complessivo di riforma sollecitato dal Governo stesso.
Basta ricordare che il Senato della Repubblica ha approvato nella seduta di giovedì 11 luglio il disegno di legge costituzionale per l’istituzione del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali ed elettorali, che all’art. 2, comma 10, prevede che il Comitato deve disporre la consultazione delle autonomie territoriali, a fini di coinvolgimento nel processo di riforma. Evidentemente, in particolare per la modifica del titolo V, appare necessaria la consultazione di Regioni, Province e Comuni.
Non si comprende, pertanto, la coerenza del Governo che ha ritenuto invece di accelerare l’approvazione di un disegno di legge costituzionale per la soppressione delle Province, non organico al progetto complessivo di riforma e per l’approvazione del quale il Presidente del Consiglio Letta ha auspicato tempi brevissimi.

2) Il d.d.l. costituzionale del Governo ignora i principi fondamentali della Costituzione stessa.
Tra questi principi, vi è quello del riconoscimento e promozione delle realtà locali, solennemente proclamato all’art. 5 della Carta Costituzionale: “La Repubblica, una ed indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”.
Ora, se la promozione va intesa quale leale collaborazione tra tutti i soggetti istituzionali che compongono la Repubblica, o meglio disponibilità da parte di questi a cooperare ogniqualvolta è in discussione una problematica inerente le autonomie locali territoriali, allora, anche una legge di modifica costituzionale dovrà rispettare il contenuto di questo principio, prevedendo forme concertative tra le diverse realtà istituzionali che compongono l’ordinamento repubblicano.
Una soppressione delle Province decisa autoritativamente da parte dello Stato (art. 1, comma 1, ddl costituzionale), in assenza di qualunque meccanismo che coinvolga Comuni e Regioni, sembra porsi in contrasto proprio con il principio descritto dall’art. 5.
Questo, evidentemente, non significa immodificabilità dell’attuale sistema; significa che, in materia di delimitazione e/o soppressione delle circoscrizioni provinciali (ma il discorso può riguardare anche le Regioni ed i Comuni), allo Stato è preclusa la possibilità di stabilire d’imperio la loro identificazione territoriale e, di conseguenza, anche la loro cancellazione.

3) Tali principi si ritrovano affermati nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Nella sentenza 106/2002 si legge: “Il nuovo Titolo V ha disegnato di certo un nuovo modo d’essere del sistema delle autonomie. Tuttavia i significativi elementi di discontinuità nelle relazioni tra Stato e regioni che sono stati in tal modo introdotti non hanno intaccato le idee sulla democrazia, sulla sovranità popolare e sul principio autonomistico che erano presenti e attive sin dall’inizio dell’esperienza repubblicana. Semmai potrebbe dirsi che il nucleo centrale attorno al quale esse ruotavano abbia trovato oggi una positiva eco nella formulazione del nuovo art. 114 della Costituzione, nel quale gli enti territoriali autonomi sono collocati al fianco dello Stato come elementi costitutivi della Repubblica quasi a svelarne, in una formulazione sintetica, la comune derivazione dal principio democratico e dalla sovranità popolare“.

4) Se è vero che le Province, al pari dello Stato, delle Regioni e dei Comuni, nel disegno costituzionale (rafforzato dal nuovo titolo V, ma già presente nel disegno costituzionale originario) hanno la comune essenza fondata sul principio democratico e sulla sovranità popolare, appare evidente che non può essere un semplice tratto di penna a cancellare le Province dall’ordinamento costituzionale;

5) Ulteriore e chiara conferma di tale disegno costituzionale è rinvenibile nella VIII disposizione transitoria e finale della Costituzione: “Le elezioni (…) degli organi elettivi delle amministrazioni provinciali sono indette entro un anno dall’entrata in vigore della Costituzione”.
Per la nostra Costituzione, sin dalla sua entrata in vigore nel 1948 ed evidentemente prima della riforma del titolo V, è un dato indiscutibile la natura elettiva e democratica delle Province appunto, come affermato dalla Consulta, espressione del principio democratico e della sovranità popolare su cui si fonda il nostro ordinamento in virtù dell’art. 1 della Costituzione.

6) E l’art. 5 “La Repubblica, una ed indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali” non fa che sancire, tra i principi fondamentali, questo riconoscimento, dando piena e intangibile copertura costituzionale all’assetto storico delle autonomie locali.

7) Si trascura il tema fondamentale: le funzioni, le competenze e i servizi. La vera grande riforma sarebbe la chiarificazione delle funzioni dei diversi soggetti del sistema, che sono poi l’aspetto che comporta la maggiore spesa ed i maggiori costi, evitando sovrapposizione di interventi sulla medesima materia, individuando l’ambito territoriale ottimale e il livello di governo migliore per l’esercizio delle funzioni, precisando con chiarezza ed univocità chi fa cosa. La nuova Carta delle Autonomie, il cui esame si è bloccato nel corso della passata legislatura, dovrebbe essere la base fondamentale di una vera riforma, fuori dagli slogan e dalle proposte demagogiche.

Dalle motivazioni della sentenza della Corte Costituzionale, dopo l’udienza del 2 luglio, probabilmente si troveranno nuovi elementi di approfondimento.

Nulla è immodificabile, certo. Il nostro ordinamento va riformato e reso più efficiente.

Ma la soluzione non può essere un intervento spot senza un’approfondita analisi.

Traendo spunto da un’analisi del prof. Cassatella dell’Università di Trento, va sottolineato come ogni dibattito sul tema dovrebbe tener conto che la scelta organizzativa costituente è stata anche un’opzione di valore, qualificando la Provincia come ente territoriale necessario ai fini della realizzazione degli obiettivi della Repubblica a sensi degli artt. 2 e 3, comma 2, della Costituzione.

Qualche esempio può aiutare ad inquadrare meglio i termini del discorso: abolendo le Province si dovrebbero automaticamente abolire gli strumenti di intervento di queste amministrazioni, come i piani urbanistici di coordinamento, gli strumenti di programmazione di servizi pubblici di rilevanza provinciale, o, ancora, gli strumenti di tutela di aree protette, di controllo delle attività formative, di sostegno all’imprenditoria locale.

Eliminare l’ente territoriale di riferimento implicherebbe anche la cancellazione o il trasferimento di funzioni, attività e servizi riconducibili alla Provincia, ed una possibile – se non certa – perdita delle garanzie poste a tutela di interessi e diritti della stessa cittadinanza.

Utilizzando come termine di paragone l’attività di pianificazione urbanistica, cancellando la Provincia si eliminerebbe anche il piano urbanistico di coordinamento provinciale; lo sviluppo del territorio sarebbe così direttamente affidato ai Comuni, con evidenti problemi di raccordo fra le scelte effettuate dalle singole amministrazioni locali, o, alternativamente, al dirigismo della Regione, sacrificando le esigenze delle collettività locali e le specificità di ciascun territorio.

Per scendere ancor più nel concreto, la localizzazione di una discarica di rifiuti a servizio di cinque piccoli Comuni montani sarebbe probabilmente impossibile se si cercasse lo spontaneo accordo fra amministrazioni locali, o se si affidasse il tema all’agenda di una Regione con altre – evidenti – priorità.

Non ne verrebbe svilito solamente il principio di sussidiarietà, inteso come metodo razionale di esercizio della funzione amministrativa, ma anche, e soprattutto, la tutela di diritti ed interessi fondamentali per la collettività stessa.

E’ stata talmente diffusa la foga demagogica nel sostenere la soppressione o il riordino delle Province, che si sono del tutto ignorate le funzioni oggi svolte dalle stesse:

a) Viabilità
b) Costruzione, manutenzione e gestione degli edifici scolastici di istruzione superiore;
c) Tutela dell’ambiente (gestione dei rifiuti, emissioni in atmosfera, scarichi, valutazione di impatto ambientale, ecc.) e difesa del suolo;
d) Pianificazione territoriale
e) Trasporto pubblico locale (servizio extraurbano)
f) Politiche attive del lavoro e centri per l’impiego;
g) Formazione professionale
h) Protezione civile
i) Caccia e pesca
j) Polizia Provinciale
k) Assistenza scolastica ai disabili sensoriali della vista e dell’udito e trasposto scolastico (per le scuole superiori) dei disabili;
l) Turismo
m) Assistenza tecnica e amministrativa agli enti locali del territorio provinciale.

Qualunque analisi di diritto comunitario comparato dimostra come l’ente intermedio costituisca una costante dei vari ordinamenti europei proprio in forza della sua “necessità funzionale” e dal bisogno di erogare determinate prestazioni e servizi amministrativi in ambiti territoriali predefiniti ed a favore della collettività che vive ed opera in quei determinati spazi.

Il vero problema giuridico riguarda dunque l’efficacia dell’azione di tali enti, e, dunque, la loro idoneità a realizzare i fini stabiliti dalla Costituzione o dalla legge.

La creazione degli enti intermedi, dipendendo in ultima analisi da necessità di ordine funzionale che le Costituzioni o le leggi ribadiscono sul piano normativo, è dunque strettamente legata agli interessi pubblici che questi organismi devono tutelare o soddisfare, con i mezzi garantiti dall’ordinamento, e, dunque, alla responsabilità politico-istituzionale dei propri rappresentanti.

La questione non è, allora, quella di abolire le Province, ma del modo in cui riformarle, consapevoli dell’enorme costo – politico e culturale – di una simile iniziativa, i cui risultati potrebbero essere apprezzati soltanto nel medio periodo e senza i clamori che accompagnano gli inni ad una semplificazione che si rivela, alla prova dei fatti, più complicata delle apparenze.

Il d.d.l. del governo purtroppo trascura del tutto ogni analisi del problema, procede alla mera cancellazione della parola “Province” dai vari articoli della Costituzione e conclude con una norma transitoria “Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale le province sono soppresse e, sulla base di criteri e requisiti generali definiti con legge dello Stato, sono individuate dallo Stato e dalle Regioni, nell’ambito delle rispettive competenze, le forme e le modalità di esercizio delle relative funzioni”.

Il disegno di legge costituzionale però fa salve le Città Metropolitane e lo fa attraverso alcune scelte fondamentali:

1) La riserva alla legge dello Stato per la definizione di funzioni, le modalità di finanziamento e l’ordinamento delle Città metropolitane, ente di governo delle aree metropolitane;

2) Il mantenimento delle città metropolitane negli articoli 118, 119 e 120 della Costituzione, così garantendo a tali Enti funzioni amministrative e autonomia finanziaria e copertura costituzionale rispetto a possibili interventi sostitutivi.

Le Città metropolitane – secondo il disegno riformatore – sono enti di governo delle aree metropolitane.

Quindi, ovviamente, enti di area vasta come sono le Province.

Cosa siano, secondo quali criteri e da chi vengono definite le “aree metropolitane” non è chiaro dalla proposta.

Ma o tutta l’Italia viene suddivisa in aree metropolitane governate da un ente denominato “città metropolitana” per le funzioni di area vasta che sostituirebbero le Province, ma è una soluzione priva di senso, oppure si avranno aree del Paese governate da enti di area vasta con funzioni di governo del territorio e altri Comuni, probabilmente i minori, che non avranno più interlocutori sul territorio e che inevitabilmente dovranno dialogare solo con le Regioni che svolgerebbero, per tali aree del Paese, quelle funzioni che sarebbero svolte dalle Città metropolitane.

E se lo Stato, in forza di una disposizione costituzionale quindi inattaccabile, ha la facoltà, con riserva di legge, di stabilire funzioni, ordinamento e finanziamento delle nascenti Città metropolitane, che ruolo residuerà per le Regioni?

Sicuramente vi è un depotenziamento evidente del ruolo di governo del territorio assegnato alle Regioni.

Una recente intervista rilasciata dal Ministro per le Autonomie Locali fa emergere la grande confusione in cui ci sta muovendo: “Penso che riusciremo a fare le riforme, da un lato l’abolizione delle Province attraverso il ddl costituzionale, dall’altro una riforma ordinamentale che possa consentire di avere delle certezze nel 2014 e non essere ancora in fase transitoria. Ovviamente dobbiamo riorganizzare tutte le funzioni di area vasta. Ci sarà un ripensamento nell’organizzazione di tutti gli enti di area vasta, come la nascita delle Città metropolitane di cui si parla da tempo, e nel frattempo che la Provincia venga gestita come ente di secondo livello o a elezione diretta questo non mi pare sia decisivo. Dobbiamo far partire un piano di accompagnamento alla creazione delle Città metropolitane. Presenteremo presto una legge”.

Non serve aggiungere alcun commento.

Si può concludere invece con un estratto di un intervento di un senatore nell’aula del Senato, durante il dibattito sull’approvazione del d.d.l. per l’istituzione del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali “Il decisionismo senza idee ha prodotto un’alluvione normativa che soffoca l’economia e la vita quotidiana dei cittadini. Ce la prendiamo con la burocrazia come se fosse un destino cinico e baro, ma essa dipende dalle troppe leggi che approviamo qui. Non è la velocità, ma la qualità che manca al procedimento legislativo. La causa è nello strapotere dei governi che da tanti anni impongono a colpi di fiducia le leggi omnibus, con centinaia di commi disorganici, improvvisati, spesso modificati prima di essere applicati. (…) Ogni volta che abbiamo modificato la Costituzione ce ne siamo poi dovuti pentire: il Titolo Quinto ha creato conflitti permanenti tra Stato e Regioni; dopo lo ius sanguinis del voto all’estero oggi si passa a invocare lo ius soli per i figli degli immigrati; prima si blocca il pareggio di bilancio e poi si esulta per la deroga concessa dall’Europa.

D’altro canto, basta leggere il testo per notare la discontinuità. La bella lingua italiana, con le parole semplici e intense dei padri costituenti, viene improvvisamente interrotta da un lessico nevrotico e tecnicistico, scandito dai rinvii a commi, come in un regolamento di condominio. Sono queste le parti aggiunte da noi (…). Dovremmo avere un senso del limite. I nostri partiti rappresentano oggi a malapena la metà del corpo elettorale. L’altra metà ha manifestato in tutti i modi il suo disagio e la sua sfiducia. Non è saggio usare la revisione costituzionale per santificare un governo privo del mandato elettorale. Questo è il vulnus che segna la modifica del 138. Il procedimento lega la sorte del governo ai tempi e ai modi della revisione costituzionale. Porre un vincolo di maggioranza come inizio e come fine della riforma è una forzatura politico-costituzionale senza precedenti in Italia e in Europa. I governi passano e le costituzioni rimangono – non dimentichiamolo”.

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