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di Carlo Rapicavoli –

Negli ultimi anni è moda di tutti i governi italiani usare questa terminologia.

Il termine Cento giorni indica il periodo della storia europea compreso tra il ritorno di Napoleone Bonaparte a Parigi (20 marzo 1815) dall’esilio all’isola d’Elba e la restaurazione della dinastia dei Borbone sotto re Luigi XVIII ( 8 luglio dello stesso anno), dopo la sconfitta a Waterloo.

L’espressione fu usata per la prima volta dal Prefetto di Parigi, il conte di Chabrol, nel suo discorso di benvenuto al re.

Cento giorni, un richiamo certo non di buon auspicio se si considera il riferimento storico.

Non si è sottratto a tale consuetudine ed impegno il Governo Letta che ha posto i primi cento giorni del governo al centro dell’incontro tra i Ministri nell’Abbazia di Spineto a Sarteano.

E nei primi cento giorni, fra le priorità, è posto il tema delle riforme.

“In cento giorni dobbiamo superare il punto di non ritorno delle riforme” ha dichiarato il presidente del Consiglio.

Le riforme istituzionali si muoveranno su due binari: una Convenzione, da istituire con legge costituzionale, e una commissione di esperti guidati dal premier.

Sulla convenzione si è registrato un balletto di dichiarazioni, precisazioni, distinguo.

Nel discorso in Parlamento sul quale è stata votata la fiducia, il Presidente Letta ha affermato: “Al fine di sottrarre la discussione sulla riforma della Carta fondamentale alle fisiologiche contrapposizioni del dibattito contingente, sarebbe bene che il Parlamento adottasse le sue decisioni sulla base delle proposte formulate da una Convenzione, aperta alla partecipazione anche di autorevoli esperti non parlamentari e che parta dai risultati della attività parlamentare della scorsa legislatura e dalle conclusioni del Comitato di saggi istituito dal Presidente della Repubblica. La Convenzione deve poter avviare subito i propri lavori sulla base degli atti di indirizzo del Parlamento, in attesa che le procedure per un provvedimento Costituzionale possano compiersi. Dal momento che questa volta l’unico sbocco possibile per questo tema è il successo nell’approvazione delle riforme che il paese aspetta da troppo tempo, fra 18 mesi verificherò se il progetto sarà avviato verso un porto sicuro”.

Dunque si afferma che:

1) E’ opportuno sottrarre le riforme costituzionali al dibattito parlamentare viziato dalle “fisiologiche contrapposizioni del dibattito contingente”;

2) La proposta di riforma va elaborata da una “Convenzione” composta anche da non parlamentari;

3) La convenzione deve ispirarsi all’attività della scorsa legislatura e alle conclusioni dei saggi nominati dal Presidente della Repubblica.

Da queste osservazioni ricaviamo un messaggio chiaro: il riconoscimento da parte del Presidente del Consiglio che il Parlamento, per le “fisiologiche contrapposizioni”, non è in grado da solo a discutere le riforme costituzionali, compito primario di ogni assemblea elettiva.

Analoga conclusione cui era pervenuto il Presidente della Repubblica allorché ha affidato a dieci saggi il compito di risolvere in due settimane quello che vari governi non hanno fatto in anni.

Seguono le discussioni appena pochi giorni dopo, che mettono in dubbio l’istituzione stessa della convenzione, malgrado fosse stata posta al centro delle dichiarazioni programmatiche del Governo.

Finalmente l’ispirazione in abbazia: la convenzione risorge in una forma diversa da come era stata immaginata in un primo momento cioè come l’unione delle due commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato”.

Non può essere chiamata “bicamerale” per l’infausto precedente, ma tant’è.

Ad affiancare la Convenzione – i cui tempi di costituzione non sono brevissimi – ci sarà una commissione per le riforme costituzionali costituita da un gruppo di esperti nominati e coordinati dal Presidente del Consiglio, che potrebbe delegare il Ministro per le Riforme Quagliariello.

Anche la Commissione – ovviamente – avrà i cento giorni di tempo per elaborare proposte da sottoporre alla istituenda convenzione.

Eppure l’art. 138 della Costituzione delinea con chiarezza il procedimento da seguire, senza necessità di convenzioni e commissioni: “Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi. Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti”.

Il percorso annunciato dal Governo suscita perplessità sia dal punto di vista della “legalità costituzionale”, in quanto, senza plausibili ragioni, intende discostarsi dall’art. 138 (ostacolo che porta a prevedere l’istituzione della convenzione con legge costituzionale) sia soprattutto per le esperienze precedenti.

Gli esiti sono stati infatti sempre negativi ogni qual volta si è istituito un organismo costituzionalmente non previsto, come nel caso della Commissione Bozzi, della Commissione D’Alema, del Comitato Speroni, della Commissione De Mita – Iotti.

Al contrario, quando si è seguita la procedura prevista dall’art. 138 è stato possibile apportare numerose modifiche alla Costituzione:
– la riforma della disciplina dei reati ministeriali (Legge Costituzionale 1/1989);
– del “semestre bianco” (Legge Costituzionale 1/1991);
– del procedimento per la concessione dell’amnistia e dell’indulto (Legge Costituzionale 1/1992);
– delle immunità parlamentari (Legge Costituzionale 3/1993);
– della forma di governo regionale e dell’autonomia statutaria (Legge Costituzionale 1/1999);
– del giusto processo (Legge Costituzionale 2/1999);
– del voto degli italiani residenti all’estero (Leggi Costituzionali 1/2000 e 1/2001);
– del Titolo V (Legge Costituzionale 3/2001);
– la cessazione di efficacia della previsione relativa all’esilio dei discendenti maschi di Casa Savoia e delle loro consorti (Legge Costituzionale 1/2002);
– la modifica dell’art. 51, che ha ribadito che l’accesso agli uffici pubblici ed alle cariche elettive dei cittadini di entrambi i sessi in condizioni di parità possa esser promosso anche mediante appositi provvedimenti (Legge Costituzionale 1/2003);
– l’introduzione del divieto assoluto della pena di morte, anche per i reati militari commessi in tempo di guerra (Legge Costituzionale 1/2007);
– l’introduzione del principio del pareggio di bilancio (Legge Costituzionale 1/2012).

A tutte queste modifiche, attualmente in vigore, va aggiunto l’ampio tentativo di riforma costituzionale approvato dal Parlamento durante la XIV Legislatura, bocciato poi dal referendum popolare del giugno 2006, anch’esso, comunque, predisposto nelle forme previste dall’art. 138 Cost.

Di cosa dovrà occuparsi la convenzione?

Dalle dichiarazioni del Presidente Letta dopo gli incontri in abbazia:

1) Il grande tema della riforma della politica: riduzione del numero dei parlamentari e abolizione delle Province;

2) Senato delle Autonomie;

3) Riforma del titolo V

Non stupisce che il Presidente del Consiglio inserisca nel “grande tema della riforma della politica” l’abolizione delle Province.

Si è radicata ormai l’opinione che le Province rappresentino un costo della politica dimenticando del tutto che si tratta di un ente costitutivo della Repubblica, con funzioni fondamentali proprie, alla pari dello Stato, delle Regioni e dei Comuni.

Non si comprende come si possa tanto superficialmente immaginare – per compiacere i tanti fautori dell’abolizione e per facili consensi – la soppressione di un livello di governo senza minimamente preoccuparsi sulle conseguente in tema di erogazione dei servizi.

Al di là del tema del superamento del bicameralismo perfetto e della riduzione del numero dei parlamentari, ormai riconosciuto da tutti, sulle autonomie si continua un’azione di progressiva riduzione degli spazi verso un ritrovato centralismo.

Sulla riforma del titolo V, se è vero che appare necessario qualche aggiustamento nell’attribuzione delle competenze legislative tra Stato e Regioni, alla luce delle difficoltà applicative e del contenzioso costituzionale dell’ultimo decennio, va preso atto che il problema principale, di cui le forze politiche in Parlamento non intendono occuparsi, deriva dalla mancata applicazione dell’art. 119 in materia di autonomia finanziaria, come di recente ha rilevato in un suo intervento il prof. Roberto Toniatti dell’Università di Trento.

L’autonomia finanziaria degli enti territoriali minori deve, ai sensi della Costituzione, essere costruita sulla base di tributi propri, dei quali l’ente territoriale sia titolare, e nell’ambito dei quali esso eserciti la propria potestà impositiva.

Dispone al riguardo il 2° comma dell’art. 119: “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono ed applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazione al gettito dei tributi erariali riferibili al loro territorio”.

L’autonomia finanziaria dovrebbe consentire di reperire direttamente i mezzi occorrenti all’ente titolare attraverso una propria imposizione tributaria, deliberata dalla collettività locale, seppure mitigata dall’intervento dello Stato anche per un necessario principio di perequazione e di omogeneità delle funzioni esercitate.

Lo Stato dovrebbe dunque intervenire solo con finanziamenti indiretti, per far sì che le prestazioni erogate siano adeguate ed uniformi per tutti i cittadini, ovunque si trovino, con un intervento a carattere
solo complementare rispetto al finanziamento locale.

Autonomia e responsabilità possono attuarsi soltanto se gli amministratori locali rispondono direttamente dell’utilizzo delle risorse di fronte alla collettività.

Allora, come hanno ben sottolineato il prof. Gian Candido De Martin della Luiss di Roma e il prof. Daniele Trabucco dell’Università di Padova, bisognerebbe procedere ad un organico processo attuativo della riforma del Titolo V della Costituzione, incentrato su tre assi principali.

1) Valorizzazione dell’autonomia come responsabilità. Comuni e Province devono essere considerati come enti di governo delle rispettive comunità, titolari di una sfera di autonomia che non è loro concessa, ma che si configura quale elemento significativo di una condizione istituzionale che la Carta riconosce perché intrinseca alla loro ragione d’essere, ferma restando ovviamente l’unità e l’indivisibilità del sistema.

2) Riconoscimento di centralità e pari dignità dei soggetti costitutivi della Repubblica ai sensi dell’art. 114 Cost. senza alcuna gerarchia, ma semmai qualificando i ruoli istituzionali dei diversi soggetti del sistema. Da qui, allora, la necessità che il ruolo delle Regione si limiti al carattere legislativo e programmatorio, mentre l’amministrazione e la gestione dei servizi pubblici deve essere incentrata sulle amministrazioni comunali e provinciali.

3) Chiarificazione delle funzioni dei diversi soggetti del sistema, che sono poi l’aspetto che comporta la maggiore spesa ed i maggiori costi, evitando sovrapposizione di interventi sulla medesima materia. La nuova Carta delle Autonomie, il cui esame si è bloccato nel corso della passata legislatura, dovrebbe essere la base fondamentale di una vera riforma, fuori dagli slogan e dalle proposte demagogiche.

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