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Di Stefano Nespor. Si parla tanto di merito e di meritocrazia, anche se spesso non è ben chiaro a che cosa ci si riferisca.
Una delle regole etiche principali di una società liberale è, secondo Ronald Dworkin (di cui ho recentemente scritto su questo quotidiano in occasione della sua scomparsa) quella che la valutazione del merito presuppone una uguaglianza delle condizioni di partenza. È una regola spesso dimenticata. Ma, va anche detto, è una regola giusta in principio, ma difficile da applicare in pratica. Molti sono infatti coloro il cui merito dipende non solo dalle loro doti intellettuali o dalla loro volontà di riuscire, ma anche da favorevoli condizioni di partenza, consistenti nelle possibilità economiche della famiglia che hanno permesso di prolungare il mantenimento dei figli per tutto il tempo necessario a conseguire una preparazione superiore alla media, magari studiando in scuole prestigiose all’estero. Ciò che però alla fine conta è quel che sanno fare, non come ci sono arrivati e come hanno meritato il loro merito.
Queste considerazioni stanno alla base di molti studi nei quali, assumendo che il reddito sia un buon indicatore dello status sociale e economico (ed è certamente un’assunzione assai approssimativa), si è cercato di verificare il rapporto tra differenze di reddito e mobilità sociale tra generazioni.
È un rapporto che un economista americano, Alan Kruger, ora tra i consiglieri di Obama, ha definito la “Great Gatsby curve” in quanto dovrebbe indicare quali sono le società nelle quali è più probabile che il mitico self-made-man, senza famiglia o generazioni benestanti alle spalle, conquisti posizioni economiche elevate.
In altri termini, quanto conta sul reddito di una persona l’effetto generazionale: la sua famiglia e, più indietro, i suoi parenti?
Bene, un dato, certo non sorprendente, è stato confermato da tutti gli studi: società disuguali riducono le possibilità di ascesa sociale. Più sorprendente è il fatto che anche negli Stati Uniti, dove si ritiene che la mobilità sociale sia elevata, almeno il 50% delle differenze di reddito in una generazione è dovuta alle differenze di reddito acquisite nella generazione precedente: in breve, se la tua famiglia è ricca, hai il 50% di probabilità di essere ricco anche tu.
La percentuale scende al 30% nelle società più ugualitarie, e quindi in Scandinavia.
Ci si è resi conto però che, se l’esame si limita a due generazioni, la mobilità risulta assai più elevata che non estendendo la ricerca su un maggior numero di generazioni della stessa famiglia: la ragione è che, considerando solo due generazioni, esercitano una considerevole influenza fattori casuali, la fortuna, particolari doti del soggetto esaminato, conoscenze acquisite durante gli studi e così via.
Vari studi si sono quindi avventurati in ricerche che si estendono su più generazioni. E in effetti si è constatato un dato che potrebbe apparire contro intuitivo: la mobilità sociale si riduce se più generazioni famigliari sono presse in considerazione. Gregory Clark, un economista dell’Università di California ha realizzato uno studio dal quale emerge che la storia famigliare produce effetti ben oltre il rapporto tra due generazioni, padri e figli, e si può estendere per oltre 300 anni. Studiando la Svezia, un paese noto per la sua mobilità sociale, Clark ha dimostrato che il 70%\80% dello status economico e sociale di una famiglia si trasmette, anche se progressivamente in modo più debole, per molti secoli.
Altri sono giunti a conclusioni simili studiando paesi con minore mobilità sociale, come la Spagna e la Cina nel periodo successivo alla fine della dinastia Qing.
Sono tutte conclusioni che gettano ombre sulla fiducia nel merito come strumento privilegiato di conquista di uno status sociale elevato.
(per questo scritto ho utilizzato un articolo pubblicato su The Economist del 9\15 febbraio 2013).

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