CORTE COSTITUZIONALE 22 febbraio – 24 marzo 2022 SENTENZA N. 74
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Esecuzione penale - Giudizio sulle richieste di riabilitazione del condannato e di valutazione sull'esito dell'affidamento in prova, anche in casi particolari - Svolgimento - Rito camerale c.d. "de plano", a contraddittorio eventuale e differito - Denunciata irragionevolezza, violazione del diritto di difesa, del principio della funzione rieducativa della pena nonche' dei principi, anche convenzionali, del giusto processo - Non fondatezza delle questioni. - Codice di procedura penale, artt. 667, comma 4, e 678, comma 1-bis. - Costituzione, artt. 24, secondo comma, 27, terzo comma, 111 e 117, primo comma; Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, art. 6.
(GU n.13 del 30-3-2022 )
LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente:Giuliano AMATO; Giudici :Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,
ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimita' costituzionale del combinato disposto degli artt. 667, comma 4, e 678, comma 1-bis, del codice di procedura penale, promossi dal Tribunale di sorveglianza di Messina con due ordinanze del 5 marzo 2020, iscritte, rispettivamente, ai numeri 78 e 79 del registro ordinanze 2021 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell'anno 2021. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 22 febbraio 2022 il Giudice relatore Francesco Vigano'; deliberato nella camera di consiglio del 22 febbraio 2022. Ritenuto in fatto 1.- Con ordinanza del 5 marzo 2020 (r.o. n. 78 del 2021), pervenuta a questa Corte il 18 maggio 2021, il Tribunale di sorveglianza di Messina ha sollevato d'ufficio questioni di legittimita' costituzionale del combinato disposto degli artt. 667, comma 4, e 678, comma 1-bis, del codice di procedura penale, «in relazione al [...] giudizio di riabilitazione ex artt. 178 e ss. c.p. e 683 c.p.p.», nella parte in cui stabilisce che quest'ultimo si svolga obbligatoriamente nelle forme del rito cosiddetto "de plano", in riferimento agli artt. 24, 27, 111 e 117 della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU). 1.1.- Il rimettente deve decidere sulla richiesta di riabilitazione presentata da M. C. Tale richiesta - che sarebbe conforme alle condizioni stabilite dall'art. 179 del codice penale, e percio' ammissibile - dovrebbe essere trattata nella forma semplificata prevista dalle disposizioni censurate, atteso che, secondo il diritto vivente (e' citata Corte di cassazione, sezione prima penale, ordinanza 16 aprile 2019, n. 19826), sarebbe irrituale l'immediata trattazione con procedimento a contraddittorio pieno. Del resto, quand'anche si ipotizzasse di disattendere l'indirizzo della giurisprudenza di legittimita', rimettendo la scelta del rito alla discrezionalita' dell'organo procedente, «non verrebbero comunque soddisfatte le esigenze sostanziali e processuali sottese ai plurimi profili di incostituzionalita' della disciplina impugnata». Di qui l'asserita rilevanza delle questioni. 1.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo osserva anzitutto che il principio rieducativo di cui all'art. 27, terzo comma, Cost. non potrebbe che «abbracciare l'intera vicenda penale», compreso il procedimento di riabilitazione, il quale presuppone l'avvenuta esecuzione, o comunque l'estinzione, della pena principale e il ravvedimento del condannato, e «si proietta nel settennio successivo alla sua concessione in cui il soggetto riabilitato e' chiamato ad astenersi dalla commissione di reati, pena la revoca del beneficio». 1.3.- In riferimento poi agli artt. 24, secondo comma, 111 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU, il rimettente sottolinea la centralita', anche nei procedimenti di esecuzione e di sorveglianza, dei «fondamentali principi del giusto processo in ordine alle garanzie del diritto di difesa e del contraddittorio processuale, alla formazione della prova nell'immediatezza, oralita' e concentrazione di tale contraddittorio ed alla pubblicita' dell'udienza». La necessita' della partecipazione personale dell'interessato ai procedimenti che «comportano l'accertamento della sua personalita', del suo carattere o del suo stato mentale» e della celebrazione di un'udienza pubblica risulterebbero dalla consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (sono citate le sentenze 8 febbraio 2000, Cooke contro Austria; 10 dicembre 2002, Waite contro Regno Unito; 6 luglio 2004, Dondarini contro San Marino; 25 aprile 2013, Zahirović contro Croazia). Questa Corte avrebbe poi costantemente valorizzato la pubblicita' del giudizio, quale principio connaturato a un ordinamento democratico fondato sulla sovranita' popolare (sono richiamate le sentenze n. 12 del 1979 [recte: 1971], n. 50 del 1989, n. 69 del 1991, n. 373 del 1992 e n. 97 del 2015), delineando, con riferimento specifico ai procedimenti innanzi alla magistratura di sorveglianza, un «diritto potestativo» dell'interessato alla celebrazione dell'udienza pubblica (sono citate le sentenze n. 135 del 2014 e n. 97 del 2015). Per contro, il procedimento a contraddittorio eventuale e differito delineato dai censurati artt. 667, comma 4, e 678, comma 1-bis, cod. proc. pen. - che comporta «l'esclusione "coatta" della necessita' originaria della partecipazione delle parti processuali e del loro contraddittorio, della presenza personale dell'interessato, della formazione della prova nel contraddittorio e della pubblicita' dell'udienza» - determinerebbe un vulnus ai parametri costituzionali menzionati. In effetti, il giudizio di riabilitazione implicherebbe un «accertamento altamente discrezionale del raggiungimento o meno delle finalita' rieducative, risocializzative e riparative della pena espiata o comunque estinta». In particolare, esso sarebbe caratterizzato, da un lato, da una «dimensione diagnostico-retrospettiva» finalizzata all'accertamento del requisito della buona condotta, intesa come condotta «rispettosa delle leggi non solo penali dello Stato laico, osservante dei doveri costituzionali del cittadino, dei principi di convivenza civile» ed espressiva di un «ravvedimento "operoso" attraverso comportamenti socialmente apprezzabili, in particolare, attraverso il risarcimento dei danni morali e materiali alle parti offese e l'adempimento delle altre obbligazioni civili nascenti dal reato, nei limiti delle proprie possibilita'». Dall'altro lato, il giudizio in parola avrebbe altresi' una «dimensione di tipo prognostico-preventivo», che implicherebbe in particolare una «incompatibilita' tra il requisito della buona condotta e l'attuale pericolosita' del riabilitando», quest'ultima parimenti destinata a essere accertata dal tribunale. Tali complessi accertamenti non potrebbero risolversi, secondo il rimettente, «in un giudizio notarile con rilascio cartaceo di un certificato burocratico di buona condotta», e richiederebbero piuttosto un procedimento a contraddittorio necessario con udienza pubblica, non ricorrendo alcuna delle ipotesi che potrebbero giustificarne una deroga (elevato grado di tecnicismo delle questioni trattate, non particolare complessita' della regiudicanda, frequenza statistica delle decisioni di accoglimento, esigenze di economia processuale legate allo snellimento delle procedure e all'accelerazione dei tempi di definizione del giudizio). Un procedimento semplificato come quello previsto dalla disciplina censurata in una materia cosi' delicata finirebbe, piuttosto, per «cartolarizzare, deprocessualizzare e depersonalizzare il giudizio, sacrificando fondamentali garanzie, a tutela sia dell'individuo che della collettivita', in omaggio ad un paradigma di efficientismo giudiziario che privilegia in chiave statistica la quantita' a scapito della qualita' delle decisioni giudiziarie». Rischi a fronte dei quali occorrerebbe «invertire [la] tendenza e riaffermare che il procedimento giurisdizionale con contraddittorio pieno, nella forma collegiale e con l'ausilio degli esperti, non e' un intralcio alla celerita' ed efficienza delle decisioni giudiziarie, non e' un orpello inutile o una sovrabbondanza retorica, sibbene e' il modello assiologicamente pregnante, il metodo genetico e funzionale della giurisdizione rieducativa, in quanto costitutivamente discorsiva, dialettica, multidisciplinare, individualizzata e personalizzata [...], inverando l'idea e la realta' del procedimento di sorveglianza come luogo privilegiato e culmine giudiziario del trattamento rieducativo che vede la Persona e la Comunita' al centro della prossemica processuale». Piu' in particolare, la disciplina censurata sarebbe lesiva degli interessi «processualmente qualificati e costituzionalmente rilevanti» di tutti i soggetti coinvolti nel procedimento di sorveglianza e in particolare: - del soggetto riabilitando, il quale si vedrebbe privato senza apprezzabili ragioni del diritto a partecipare personalmente al giudizio ab initio, di incidere sulla formazione delle prove, di vedere pubblicamente riconosciuto il proprio ravvedimento, e di chiedere ed ottenere, nella richiesta con cui promuove il procedimento, la celebrazione dell'udienza pubblica (nella quale vedersi riconoscere una «riabilitazione come apice in cui culmina [l]'intera vicenda penale e come frutto maturo del processo giurisdizionale con udienza pubblica nella coralita' dell'Aeropago giudiziario»), essendo egli, invece, costretto a subire una "decisione cartolare", che non potrebbe non condizionare il giudice in caso di opposizione; - del difensore, che non potrebbe esercitare il proprio ufficio nell'immediatezza e nell'oralita' del contraddittorio e vedrebbe il proprio ruolo ridimensionato anche rispetto all'assunzione dei mezzi di prova; - del pubblico ministero, che non potrebbe contribuire ab initio alla formazione della prova, ne' partecipare all'udienza, ne' influire direttamente sul convincimento del giudice, esercitando il proprio fondamentale ruolo «sia come advocatus diaboli per scongiurare le "cattive" riabilitazioni, sia come amicus curiae per favorire le riabilitazioni "meritevoli"»; - dell'organo giudicante, che non potrebbe disporre di «un quadro informativo completo e di un corredo probatorio comprensivo delle prove costituite e costituende, dell'esame personologico diretto del soggetto interessato e degli apporti conoscitivi di tutti gli attori processuali», con conseguente rischio che la riabilitazione venga concessa a condannati ancora gravemente pericolosi, ma a carico dei quali non risultino ulteriori procedimenti penali pendenti, e venga invece negata a soggetti autenticamente ravvedutisi i quali, ad esempio, non abbiano avuto l'opportunita' di risarcire il danno alle persone offese; - del «Popolo sovrano, nel cui nome e' amministrata la giustizia», che non potrebbe esercitare alcun controllo in ordine alla trasparenza, obiettivita', imparzialita' e qualita' delle decisioni giudiziarie in un procedimento altamente discrezionale, in cui sono coinvolti «fondamentali e indisponibili interessi costituzionalmente rilevanti della Persona e della Comunita'». 2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimita' costituzionale siano dichiarate non fondate. I principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale e richiamati dal rimettente risulterebbero inconferenti rispetto al procedimento di riabilitazione, finalizzato ad assicurare il reinserimento sociale del condannato attraverso l'eliminazione degli ostacoli alla vita lavorativa e di relazione frapposti dalle pene accessorie e dagli effetti penali della condanna; circostanza che varrebbe a giustificare il diverso regime procedurale rispetto all'applicazione delle misure di prevenzione e di sicurezza, alla concessione dei provvedimenti di competenza del tribunale di sorveglianza di cui all'art. 678 cod. proc. pen., nonche' all'applicazione di misure ablative quali la confisca. La decisione sulla richiesta di riabilitazione sarebbe semplicemente destinata ad accrescere la sfera di liberta' dell'istante (ovvero a lasciarla immutata) in funzione del suo reinserimento sociale, sicche' sarebbe pienamente giustificata la trattazione con il procedimento di cui agli artt. 667, comma 4, e 678, comma 1-bis cod. proc. pen. - tra l'altro in grado di assicurare la rapidita' della decisione e di tutelare la riservatezza dei soggetti coinvolti - non venendo in rilievo esigenze tali da prevalere sull'obiettivo di celerita' e semplificazione delle procedure. La stessa Corte EDU avrebbe, d'altra parte, ritenuto inapplicabile l'art. 6, paragrafo 1, CEDU a procedimenti relativi a questioni riguardanti l'esecuzione delle pene. 3.- Con altra ordinanza del 5 marzo 2020 (r.o. n. 79 del 2021), pervenuta a questa Corte il 18 maggio 2021, il medesimo Tribunale di sorveglianza di Messina ha censurato, d'ufficio, il combinato disposto degli artt. 667, comma 4, e 678, comma 1-bis, cod. proc. pen., nella parte in cui stabilisce che la valutazione giudiziale dell'esito dell'affidamento in prova, anche in casi particolari, ai sensi dell'art. 47, comma 12, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta') e dell'art. 94, comma 6, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), venga effettuata obbligatoriamente nelle forme del rito cosiddetto "de plano", in riferimento agli artt. 3, 27, 111, 117 Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU. 3.1.- In questo caso, il giudice a quo e' investito della decisione sull'esito di un affidamento in prova cosiddetto "terapeutico", disposto nei confronti di S. R. presso una comunita' per tossicodipendenti. 3.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente richiama per relationem i «plurimi profili di incostituzionalita' [...] illustrati nella coeva e analoga ordinanza di rimessione», soggiungendo che, con specifico riferimento alla valutazione dell'esito dell'affidamento in prova, elementi ulteriori renderebbero costituzionalmente illegittima l'«esclusione "coatta" delle garanzie processuali della partecipazione personale ab initio del soggetto interessato e delle parti processuali al giudizio e della pienezza del contraddittorio». In primo luogo, si sarebbe in questo caso in presenza di un giudizio de libertate, atteso che l'esito positivo dell'affidamento in prova avrebbe un'«efficacia simil-riabilitativa», estinguendo la pena principale e ogni altro effetto penale della condanna, ma, per converso, il suo esito negativo determinerebbe «immediati effetti carceratori, con ripercussioni traumatiche nella sfera giuridica e personale del condannato». In secondo luogo, sarebbe manifestamente irragionevole e percio' contraria all'art. 3 Cost. la differenziazione della disciplina processuale della valutazione dell'esito dell'affidamento in prova rispetto a quella applicabile ad altre fattispecie nelle quali la partecipazione personale dell'interessato e il contraddittorio sono garantiti ab initio, come la decisione sulla revoca della stessa misura - assimilabile per ratio e contenuto alla prima - oppure la declaratoria di estinzione del reato ex art. 93 t.u. stupefacenti - provvedimento che avrebbe carattere «meramente ricognitivo». Verrebbe infine in rilievo la complessita' della valutazione personologica e terapeutica del soggetto tossicodipendente e della conseguente prognosi rieducativa e specialpreventiva, cui dovrebbe corrispondere un rito improntato all'«immediatezza, oralita' e concentrazione di un pieno contraddittorio processuale». Cio' anche in ragione della complessita' e discrezionalita' della valutazione sull'affidamento in prova, che comporta - in caso di esito negativo - la necessita' di determinare la pena residua da espiare; nonche' la possibilita' di sostituire l'affidamento in prova con altra misura alternativa alla detenzione, ai sensi dell'art. 51-ter ordin. penit. 4.- E' intervenuto in giudizio anche in questo caso il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente inammissibili per carenza di motivazione in punto di non manifesta infondatezza. Il giudice a quo si sarebbe limitato a recepire per relationem le argomentazioni svolte nella coeva ordinanza r.o. n. 78 del 2021, cio' che comporterebbe, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l'inammissibilita' delle questioni (ordinanza n. 139 del 2000). Considerato in diritto 1.- Con due ordinanze entrambe datate 5 marzo 2020 (r.o. n. 78 e n. 79 del 2021), pervenute a questa Corte il 18 maggio 2021, il Tribunale di sorveglianza di Messina ha sollevato d'ufficio questioni di legittimita' costituzionale del combinato disposto degli artt. 667, comma 4, e 678, comma 1-bis, del codice di procedura penale, nella parte in cui stabilisce che il giudizio sulle richieste di riabilitazione e quello di valutazione dell'esito dell'affidamento in prova, anche in casi particolari, si svolgano obbligatoriamente nelle forme del rito cosiddetto "de plano", in riferimento agli artt. 3, 24, 27, 111 e 117 della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU). In particolare, con l'ordinanza iscritta al n. 78 del r.o. 2021 il combinato disposto degli artt. 667, comma 4, e 678, comma 1-bis, cod. proc. pen. e' censurato in relazione al giudizio sulle richieste di riabilitazione di cui agli artt. 178 e seguenti del codice penale e all'art. 683 cod. proc. pen. Con l'ordinanza iscritta al n. 79 del r.o. 2021, invece, tale combinato disposto e' censurato in relazione alla valutazione sull'esito dell'affidamento in prova, anche in casi particolari, di cui rispettivamente all'art. 47, comma 12, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta') e all'art. 94, comma 6, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza). In sostanza, il giudice a quo ritiene che la previsione di un procedimento semplificato, a contraddittorio meramente "cartolare", avanti al tribunale di sorveglianza nei giudizi di riabilitazione (ordinanza iscritta al n. 78 del r.o. 2021) e di valutazione sull'esito dell'affidamento in prova (ordinanza iscritta al n. 79 del r.o. 2021) vulneri il diritto di difesa delle parti, la funzione rieducativa della pena, i principi del giusto processo, nonche' - per cio' che concerne la valutazione dell'esito dell'affidamento in prova - il principio di eguaglianza in relazione al diverso regime processuale previsto per giudizi assimilabili per ratio e per contenuto. 2.- Le due ordinanze sollevano questioni ampiamente sovrapponibili e i relativi giudizi meritano, pertanto, di essere riuniti ai fini della decisione. 3.- Le questioni sono ammissibili. Non e' fondata, in effetti, l'eccezione di manifesta inammissibilita' formulata dall'Avvocatura generale dello Stato in relazione all'ordinanza iscritta al n. 79 del r.o. 2021, che sarebbe motivata soltanto per relationem rispetto alla coeva ordinanza iscritta al n. 78 del r.o. 2021. In realta', l'ordinanza iscritta al n. 79 del r.o. 2021 - la quale peraltro contiene una censura ex art. 3 Cost. che non e' svolta nell'altra ordinanza - esibisce una, sia pur succinta, motivazione anche sulle restanti censure, che consente a questa Corte di coglierne con chiarezza il senso. Ne' sono ravvisabili altre ragioni di inammissibilita', sussistendo - in particolare - la rilevanza delle questioni in entrambi i giudizi a quibus, alla luce degli orientamenti della giurisprudenza di legittimita', che ha qualificato come irrituale l'anticipazione al primo segmento del procedimento ex art. 667, comma 4, cod. proc. pen. del contraddittorio tra le parti in camera di consiglio (ex multis, Corte di cassazione, sezione prima penale, ordinanze 12 gennaio 2021, n. 31387, e 16 aprile 2019, n. 19826). 4.- Oggetto delle censure del rimettente e' la norma risultante dal richiamo compiuto dall'art. 678, comma 1-bis, cod. proc. pen. all'art. 667, comma 4, del medesimo codice. 4.1.- La prima disposizione - inserita nell'art. 678 cod. proc. pen. dall'art. 1, comma 1, lettera c), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2014, n. 10 - prevede l'applicazione del rito semplificato disegnato dall'art. 667, comma 4, cod. proc. pen. per una serie di procedimenti, tra i quali la decisione sulle richieste di riabilitazione e la valutazione dell'esito dell'affidamento in prova, che vengono in considerazione nei giudizi a quibus. A sua volta, l'art. 667, comma 4, cod. proc. pen., prevede - in deroga alla disciplina generale del procedimento di esecuzione di cui all'art. 666 cod. proc. pen., articolato attorno a un'udienza in camera di consiglio con la partecipazione delle parti -un rito semplificato, mediante il quale il giudice «provvede in ogni caso senza formalita' con ordinanza comunicata al pubblico ministero e notificata all'interessato», chiarendo che «[c]ontro l'ordinanza possono proporre opposizione davanti allo stesso giudice il pubblico ministero, l'interessato e il difensore» entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione o notificazione dell'ordinanza. Tale opposizione comporta la fissazione di una udienza in camera di consiglio con la partecipazione delle parti ai sensi dell'art. 666 cod. proc. pen. 4.2.- Nella Relazione illustrativa del disegno di legge di conversione del d.l. n. 146 del 2013 si afferma che le modifiche al procedimento di sorveglianza ivi introdotte «rielaborano alcune proposte gia' avanzate dalla Commissione mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza, istituita su iniziativa del Ministero della giustizia e del Consiglio superiore della magistratura, e gia' in parte accolte dallo stesso Consiglio superiore con la "Risoluzione in ordine a soluzioni organizzative e diffusione di buone prassi in materia di magistratura di sorveglianza" adottata il 24 luglio 2013; e alle quali si intende dare ora "copertura" normativa». Dichiaratamente ispirandosi alle proposte di tale Commissione, il legislatore del 2013 ha introdotto un modello di definizione de plano di una serie di procedimenti di competenza della magistratura di sorveglianza ritenuti di agevole definizione, tra i quali le richieste di riabilitazione e la valutazione sull'esito dell'affidamento in prova, facendo comunque salva - come proposto dalla Commissione medesima - la possibilita' di instaurazione del contraddittorio orale in camera di consiglio su istanza di parte, in funzione di una riduzione complessiva dei tempi processuali. 4.3.- Come ha chiarito la giurisprudenza di legittimita', le ordinanze emesse de plano ai sensi dell'art. 667, comma 4, cod. proc. pen. non sono immediatamente esecutive, salvi i casi espressamente previsti dalla legge o comunque specificamente desumibili dal sistema normativo. Esse diventano invece esecutive allo scadere del termine di quindici giorni dalla comunicazione o notificazione per la proposizione dell'opposizione, ove essa non sia proposta (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 18 giugno 2015, n. 36754). Tale conclusione e' stata recentemente ribadita con specifico riguardo all'ordinanza emessa ex art. 667, comma 4, cod. proc. pen. in sede di valutazione dell'esito dell'affidamento in prova (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 23 ottobre 2020-2 febbraio 2021, n. 4025). 4.4.- Una volta che sia stata presentata opposizione avverso l'ordinanza emessa de plano dal giudice competente, quest'ultimo dovra' fissare udienza in camera di consiglio, essendo il relativo procedimento integralmente disciplinato dall'art. 666 cod. proc. pen. Con la conseguenza che - come chiarito dalla giurisprudenza di legittimita' - il giudice dell'esecuzione avra' il dovere, a pena di nullita' generale e assoluta, di fissare l'udienza in camera di consiglio e di procedere con la necessaria partecipazione del difensore e del pubblico ministero, provvedendo, altresi', all'audizione dell'interessato che ne abbia fatto richiesta, a norma dell'art. 666, commi 3 e 4, cod. proc. pen. (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 6 marzo 2015, n. 12572, in relazione a un incidente di esecuzione parimenti disciplinato dall'art. 667, comma 4, cod. proc. pen.; in senso conforme, in relazione alla decisione su di una richiesta di riabilitazione, sezione settima penale, ordinanza 9 novembre 2018-16 settembre 2019, n. 38160). La giurisprudenza di legittimita' ha affermato, altresi', che l'opposizione «non ha natura di mezzo di impugnazione, bensi' di istanza diretta al medesimo giudice allo scopo di ottenere una decisione in contraddittorio» (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 14 febbraio 2017, n. 30638, che per tale ragione ha giudicato manifestamente infondata un'eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede l'incompatibilita' a partecipare al giudizio di opposizione ex art. 667, comma 4, cod. proc. pen. del medesimo giudice che abbia emesso il provvedimento opposto; negli stessi termini, sezione prima penale, sentenza 1° ottobre 2019-27 febbraio 2020, n. 7910). 5.- Le censure del rimettente non sono fondate. 5.1.- Giova premettere all'esame delle singole doglianze che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, nella configurazione degli istituti processuali il legislatore gode di ampia discrezionalita', censurabile soltanto nei limiti della manifesta irragionevolezza o arbitrarieta' delle scelte operate (ex plurimis, sentenze n. 213 del 2021, n. 95 del 2020, n. 79 e n. 58 del 2020, n. 155 e n. 139 del 2019, n. 225 del 2018 e n. 241 del 2017). Cio' vale anche rispetto a discipline processuali che, come quella ora all'esame, abbiano una funzione acceleratoria dei tempi processuali (si veda, mutatis mutandis, sentenza n. 260 del 2020, punto 10.2. del Considerato in diritto: in «uno sfondo fattuale caratterizzato da risorse umane e organizzative necessariamente limitate», si «impone una cautela speciale nell'esercizio del controllo, in base all'art. 111, secondo comma, Cost., della legittimita' costituzionale delle scelte processuali compiute dal legislatore, al quale compete individuare le soluzioni piu' idonee a coniugare l'obiettivo di un processo in grado di raggiungere il suo scopo naturale [...], nel pieno rispetto delle garanzie della difesa, con l'esigenza pur essenziale di raggiungere tale obiettivo in un lasso di tempo non eccessivo»). La funzione acceleratoria dei tempi processuali e', d'altronde, direttamente ispirata a un principio - quello della ragionevole durata dei processi - sancito all'unisono dall'art. 111, secondo comma, Cost. e dall'art. 6, paragrafo 1, CEDU, ma messo a dura prova dalla realta' di un sistema giudiziario penale sovraccarico, che spesso non e' in grado di fornire risposte di giustizia in tempi adeguati, finendo cosi' per pregiudicare la stessa effettivita' - per gli imputati e i condannati, per le vittime e per l'intera collettivita' - di tutte le restanti garanzie del "giusto processo" e del diritto di difesa. Il giudizio di sorveglianza e', oggi, notoriamente afflitto da endemici ritardi nella gestione dei carichi processuali: dall'inizio della vicenda esecutiva - ove si registrano pressoche' ovunque lunghissimi tempi di smaltimento delle istanze di misure alternative successive alla sospensione dell'ordine di esecuzione della pena ex art. 656, comma 5, cod. proc. pen., con conseguente mantenimento di persone condannate in via definitiva in uno stato di "limbo" giuridico destinato, a volte, a durare anni prima che l'esecuzione della pena abbia in concreto inizio, all'interno o all'esterno del carcere -; sino alle battute finali dell'esecuzione penale, nel cui ambito si collocano i provvedimenti relativi alla riabilitazione e alla valutazione dell'esito dell'affidamento in prova, oggetto delle questioni ora all'esame di questa Corte. A fronte di questa situazione, discipline che mirino ad assicurare nel giudizio di sorveglianza una sollecita definizione dei contenziosi, lungi dal rispondere a una logica di «efficientismo giudiziario che privilegia in chiave statistica la quantita' a scapito della qualita' delle decisioni giudiziarie», come sostiene il giudice a quo, costituiscono attuazione di un preciso dovere costituzionale. La ragionevole durata e' un connotato identitario della giustizia del processo. Onde il tema del presente giudizio di costituzionalita' e' se, nel perseguire il doveroso obiettivo di accelerare la definizione dei procedimenti relativi alle istanze di riabilitazione e alla valutazione dell'esito dell'affidamento in prova, il legislatore abbia compiuto un bilanciamento costituzionalmente sostenibile - tutto interno alla logica degli artt. 24 e 111 Cost. - tra tale obiettivo e la salvaguardia delle altre componenti del giusto processo e dello stesso diritto di difesa; ovvero abbia, all'opposto, sacrificato in misura irragionevole quelle altre componenti, come ritenuto dal giudice a quo. 5.2.- Cuore delle doglianze del rimettente e', per l'appunto, l'allegata violazione del diritto di difesa, di cui all'art. 24, secondo comma, Cost. e dei principi del giusto processo, cosi' come risultanti dall'art. 111 Cost. e dall'art. 6 CEDU, richiamato dal rimettente per mezzo dell'art. 117 Cost. Le disposizioni censurate obbligherebbero, infatti, il giudice a decidere con un'ordinanza pronunciata de plano, e dunque in assenza del contraddittorio tra le parti, che e' invece normalmente assicurato - nei procedimenti avanti alla magistratura di sorveglianza - dall'udienza camerale a partecipazione necessaria del difensore e del pubblico ministero disciplinata dall'art. 666 cod. proc. pen. L'assenza di contraddittorio sarebbe, secondo il giudice a quo, specialmente pregiudizievole rispetto al diritto di difesa del condannato, nonche' rispetto al complesso degli interessi, anche pubblicistici, sottesi alla tutela del giusto processo. Cio' in relazione alla delicatezza degli accertamenti oggetto delle presenti questioni, concernenti la richiesta di riabilitazione del condannato e la valutazione sull'esito dell'affidamento in prova: accertamenti, entrambi, strettamente connessi alla funzione rieducativa della pena e alla tutela della collettivita' contro l'eventuale residua pericolosita' del condannato. Piu' in particolare, l'obbligo per il giudice di decidere in queste ipotesi senza beneficiare del confronto diretto con le parti nell'udienza ex art. 666 cod. proc. pen. pregiudicherebbe, assieme, gli interessi: - del condannato, il quale si vedrebbe privato della possibilita' di partecipare sin dall'inizio al procedimento, facendo richiesta di essere sentito personalmente ai sensi dell'art. 666, comma 4, cod. proc. pen., nonche' della possibilita' di chiedere che la propria istanza sia decisa nell'ambito di un'udienza pubblica, risultando cosi' vulnerata la possibilita' del condannato stesso di incidere sulla formazione della prova e di vedere pubblicamente riconosciuto il proprio recupero sociale; - del difensore, il quale parimenti non potrebbe esercitare la propria funzione nell'immediatezza del contraddittorio, e non sarebbe imposto in condizione di incidere sulla formazione della prova; - del pubblico ministero, il quale nella prima fase del giudizio non potrebbe in alcun modo partecipare alla formazione della decisione giudiziale; - del giudice, il quale non potrebbe giovarsi dell'apporto conoscitivo offerto dal contraddittorio orale, con conseguente rischio di valutazioni erronee, suscettibili di recare grave danno agli interessi del condannato o a quelli della collettivita'; - e, infine, dell'intera collettivita' (il «Popolo sovrano, nel cui nome e' amministrata la giustizia»), cui verrebbe sottratta la possibilita' di controllo sull'operato della magistratura, garantita dall'udienza pubblica. 5.2.1.- Ritiene questa Corte che nessuno di tali argomenti sia in grado di dimostrare l'irragionevolezza del bilanciamento effettuato dal legislatore, nei termini poc'anzi precisati. Con riguardo anzitutto agli asseriti pregiudizi arrecati dalla disciplina censurata agli interessi delle parti (l'imputato e il suo difensore, da un lato, e il pubblico ministero, dall'altro), non c'e' dubbio che tale disciplina imponga al giudice di pronunciarsi in prima battuta in assenza di contraddittorio, sulla base della sola richiesta del condannato (nel caso della riabilitazione), ovvero della documentazione trasmessa dall'Ufficio per l'esecuzione penale esterna (UEPE) (nel caso della valutazione sull'esito dell'affidamento in prova), oltre che dell'ulteriore documentazione eventualmente acquisita d'ufficio. Ed e' vero, altresi', che ne' il condannato, ne' il pubblico ministero sono in grado di interloquire su tale documentazione prima della decisione de plano del giudice. Tuttavia, la costante giurisprudenza di questa Corte considera compatibili con gli artt. 24, secondo comma, e 111 Cost. i procedimenti a contraddittorio eventuale e differito, nei quali una prima fase senza formalita' e' seguita da una successiva fase a contraddittorio pieno, attivata dalla parte che intenda insorgere rispetto al decisum, e nella quale avviene il pieno recupero delle garanzie difensive e del contraddittorio (sentenza n. 279 del 2019 e ordinanza n. 255 del 2009 - entrambe relative al procedimento di cui all'art. 667, comma 4, cod. proc, pen. in questa sede censurato -, nonche', in relazione a diversi procedimenti a contraddittorio eventuale e differito, sentenza n. 245 del 2020; ordinanze n. 291 del 2005, n. 352 del 2003 e n. 8 del 2003). Il procedimento regolato dalle disposizioni censurate e', per l'appunto, caratterizzato dal "recupero" di tali garanzie nella fase eventuale di opposizione al provvedimento pronunciato senza formalita' dal giudice, introdotta dalla parte che vi abbia interesse; fase di opposizione che si svolge con le modalita' ordinariamente previste per il procedimento di sorveglianza, a loro volta modellate su quelle dell'incidente di esecuzione di cui all'art. 666 cod. proc. pen., le quali prevedono - tra l'altro - la partecipazione necessaria all'udienza camerale del difensore e del pubblico ministero, la facolta' per l'interessato di chiedere di essere sentito, la possibilita' per il giudice di acquisire - anche su istanza di parte - ogni documento o informazione ritenuti necessari, di assumere prove in udienza nel contraddittorio tra le parti, nonche' - per effetto della sentenza n. 97 del 2015 di questa Corte - la facolta' per il condannato di chiedere che l'udienza venga celebrata in forma pubblica. D'altra parte, l'anticipazione di una provvisoria decisione ad opera del giudice in assenza di contraddittorio - gia' suggerita nella relazione della Commissione mista poc'anzi menzionata (supra, punto 4.2.) e poi accolta con qualche modifica dal d.l. n. 146 del 2013, come convertito - ha, nell'ottica del legislatore, semplicemente lo scopo di consentire una rapida definizione di procedimenti in cui non sono necessari, di regola, accertamenti complessi. Laddove il giudice definisca gia' in questa prima fase il procedimento in senso favorevole al condannato, la modalita' semplificata prevista dalle disposizioni censurate assicurera' in definitiva una tutela piu' tempestiva degli interessi del condannato stesso, il quale - tanto in materia di riabilitazione, quanto rispetto alla valutazione dell'esito positivo dell'affidamento in prova - potra' cosi' veder riconosciuto in tempi piu' rapidi l'esito positivo del proprio percorso rieducativo, con conseguente venir meno delle limitazioni alla propria sfera giuridica discendenti dalla precedente condanna. L'eventuale provvedimento negativo del giudice nella fase de plano, d'altra parte, non determina di per se' alcuna conseguenza pregiudizievole per il condannato, dal momento che la giurisprudenza di legittimita' considera tale provvedimento non eseguibile sino alla scadenza infruttuosa del termine per l'opposizione, ovvero sino alla sua conferma nell'udienza ex art. 666 cod. proc. pen. conseguente all'opposizione stessa (supra, punto 4.3.). Il che appare di particolare rilievo rispetto ai provvedimenti di esito negativo dell'affidamento in prova, nei quali il tribunale di sorveglianza deve rideterminare il quantum di pena ancora da espiare, tenuto conto della durata delle limitazioni patite dal condannato e della sua condotta durante il periodo trascorso in affidamento (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 febbraio 2002, n. 10530; nonche', recentemente, sezione prima penale, sentenza 23 ottobre 2019-13 gennaio 2020, n. 934). Dal punto di vista, poi, del pubblico ministero, la possibilita' di un "recupero" successivo del contraddittorio e la non eseguibilita' immediata del provvedimento assunto de plano escludono qualsiasi pregiudizio agli interessi pubblici di cui egli e' portatore, a fronte della possibilita' di interloquire sulle prove e sulle valutazioni del giudice garantita dalla facolta' di presentare opposizione contro il provvedimento del giudice favorevole al condannato. 5.2.2.- Ne' pare a questa Corte, contrariamente a quanto argomentato nell'ordinanza di rimessione, che il procedimento semplificato previsto dalle disposizioni censurate non consenta un'adeguata valutazione, da parte del giudice, delle istanze di riabilitazione, ovvero dell'esito dell'affidamento in prova. Il tribunale infatti - in riferimento alla richiesta di riabilitazione - ha sempre la possibilita' di acquisire ex officio la documentazione che ritenga necessaria ai sensi dell'art. 683, comma 2, cod. proc. pen.; e - con riguardo alla valutazione sull'esito dell'affidamento in prova - dispone di tutto il materiale informativo fornitogli dall'UEPE a conclusione del percorso compiuto dall'interessato. D'altra parte, il rimedio alla specifica doglianza del giudice a quo, secondo cui il tribunale non potrebbe valutare l'avvenuto recupero sociale del condannato senza avere un contatto diretto con quest'ultimo, non potrebbe di per se' essere assicurato dalla regola della necessaria celebrazione dell'udienza in camera di consiglio ai sensi dell'art. 666 cod. proc. pen., nei termini auspicati dallo stesso rimettente, giacche' anche nell'ambito di tale procedimento la partecipazione del condannato e' rimessa alla sua volonta', ex art. 666, comma 4, cod. proc. pen. 5.2.3.- Quanto, infine, al pregiudizio agli interessi del «Popolo sovrano» che discenderebbe dalla disciplina censurata, a far da sfondo alla doglianza del rimettente sembra essere l'idea secondo cui la pubblicita' delle udienze rappresenterebbe un requisito coessenziale allo stesso paradigma costituzionale dell'amministrazione della giustizia penale. Se cosi' fosse, tuttavia, lo stesso procedimento ordinario ex art. 666 cod. proc. pen. - che tornerebbe a divenire, secondo gli auspici del rimettente, la modalita' ordinaria di trattazione delle richieste di riabilitazione e della valutazione dell'esito della messa alla prova - risulterebbe esso stesso costituzionalmente illegittimo, perche' svolto normalmente in camera di consiglio, a meno che l'interessato non abbia fatto richiesta di trattazione nella forma dell'udienza pubblica in forza della sentenza n. 97 del 2015 di questa Corte. In realta', come questa Corte ha piu' volte affermato, la pubblicita' delle udienze e' si' «connaturata ad un ordinamento democratico fondato sulla sovranita' popolare», ma non ha valore assoluto, potendo il legislatore introdurre deroghe al principio di pubblicita' in presenza di particolari ragioni giustificative, purche' obiettive e razionali (sentenze n. 263 del 2017 e ivi ulteriori riferimenti, nonche' - da ultimo - sentenza n. 73 del 2022). E, rispetto a un procedimento come quello di cui all'art. 666 cod. proc. pen., il punto di equilibrio gia' raggiunto da questa Corte, con la menzionata sentenza n. 97 del 2015, e' appunto rappresentato dalla possibilita' per l'interessato di chiedere egli stesso lo svolgimento del procedimento nelle forme dell'udienza pubblica, nulla ostando - altrimenti - a che esso possa svolgersi con le forme semplificate proprie di tutti i procedimenti camerali, contemplati peraltro in numerose ipotesi dal codice di procedura penale, anche ai fini della definizione del giudizio di cognizione. Tale possibilita' e' conservata anche dalla disciplina in questa sede censurata, ben potendo l'interessato proporre opposizione al provvedimento assunto de plano dal giudice, con contestuale richiesta che il procedimento sia trattato nelle forme dell'udienza pubblica ai sensi dell'art. 666, comma 3, cod. proc. pen., come modificato proprio dalla sentenza n. 97 del 2015. Cio' che e' di per se' sufficiente a garantire la conformita' della disciplina ai parametri costituzionali e convenzionali in materia di giusto processo. 5.3.- Secondo il giudice a quo, il rito semplificato previsto dalle disposizioni censurate non risulterebbe in linea con il principio della funzione rieducativa della pena di cui all'art. 27, terzo comma, Cost., non assicurando il ponderato apprezzamento del giudice sull'effettivo raggiungimento di tale obiettivo nel caso concreto. La censura, peraltro succintamente argomentata, appare in verita' meramente ancillare rispetto a quelle relative all'allegata violazione del diritto di difesa e dei principi del giusto processo, risolvendosi nella doglianza - gia' ritenuta non fondata (supra, punto 5.2.2.) - secondo cui il difetto di contraddittorio nella prima fase del procedimento non consentirebbe al giudice una piena e accurata valutazione della personalita' del condannato e dei suoi effettivi progressi verso l'obiettivo della riabilitazione sociale. Di qui la non fondatezza anche di tale censura. 5.4.- Infine, nell'ordinanza iscritta al n. 79 del r.o. 2021 il giudice a quo lamenta la violazione dell'art. 3 Cost. in relazione all'irragionevolezza della differente disciplina processuale della valutazione dell'esito dell'affidamento in prova rispetto a quella applicabile, in particolare, in materia di revoca dello stesso affidamento, ovvero di estinzione del reato all'esito della sospensione dell'esecuzione della pena nei confronti del tossicodipendente ex art. 93 t.u. stupefacenti. Nemmeno tale censura e' fondata. Il legislatore ha infatti riservato il rito semplificato in parola a procedimenti ritenuti di limitata complessita' e, come sottolineato in dottrina, caratterizzati da un'elevata percentuale di decisioni favorevoli all'interessato, come quelli che vengono in considerazione nelle questioni ora sottoposte a questa Corte. Una volta escluso che tali procedimenti comprimano irragionevolmente le garanzie del diritto di difesa, del contraddittorio e in generale del giusto processo, non puo' considerarsi imposta dall'art. 3 Cost. l'adozione di un unico modello di disciplina per tutti i procedimenti di sorveglianza, ben potendo il legislatore regolarli diversamente in ragione di una molteplicita' di fattori, la cui valutazione e il cui reciproco bilanciamento rientrano nella sua esclusiva discrezionalita', censurabile soltanto laddove la differenza di trattamento risulti priva di ogni plausibile ragione giustificativa in relazione alla sostanziale identita' della materia regolata. Il che certamente non accade rispetto ai tertia comparationis invocati dal rimettente. Da un lato, i procedimenti relativi alla revoca di un affidamento in prova al servizio sociale in corso sono suscettibili di determinare l'interruzione di un percorso ancora in atto in relazione a specifiche inosservanze degli obblighi imposti al condannato, mentre la valutazione sull'esito dell'affidamento in prova ha luogo quando tale percorso e' ormai concluso senza che siano intervenute violazioni tanto significative da giustificare la revoca dell'affidamento stesso, e appare dunque ragionevole una prognosi di valutazione favorevole della misura. Dall'altro, l'estinzione del reato commesso dal tossicodipendente ex art. 93 t.u. stupefacenti non presuppone - a differenza di quanto accade nella valutazione dell'esito dell'affidamento in prova - l'avvenuta esecuzione di alcuna misura a contenuto sanzionatorio, bensi' comporta la sospensione tout court dell'esecuzione di pene, peraltro anche di severita' piu' elevata di quelle suscettibili di essere eseguite con la modalita' dell'affidamento in prova al servizio sociale.
per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara non fondate le questioni di legittimita' costituzionale del combinato disposto degli artt. 667, comma 4, e 678, comma 1-bis, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, 111 e 117 della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), dal Tribunale di sorveglianza di Messina con le ordinanze indicate in epigrafe. Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2022. F.to: Giuliano AMATO, Presidente Francesco VIGANO', Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 24 marzo 2022. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA