L’ORDINAMENTO PENITENZIARIO DOPO LA STAGIONE DELLE RIFORME
Martina Liaci
Abilitata all’esercizio della professione forense – Cultrice della materia in diritto privato – Università del Salento – Direttore dei servizi generali ed amministrativi
Abstract (It.) Nell’ambito della giustizia penale il sistema penitenziario costituisce ormai da troppi decenni un settore in estrema sofferenza. Il paradosso attuale è che neppure il legislatore, nonostante l’intento dichiarato di realizzare una vera e propria rivoluzione strutturale, è stato in grado, non solo, di risolvere, ma neanche di affrontare i temi più scottanti legati alla esecuzione penitenziaria.
Abstract (En.) In the area of criminal justice, the penitentiary system has been a sector in extreme suffering for too many decades. The current paradox is that not even the legislator, despite the declared intention of achieving a real structural revolution, has not only been able to resolve, but not even to address, the most burning issues related to prison execution.
Sommario
1. Considerazioni introduttive
2. Il trattamento penitenziario
3. I colloqui e la corrispondenza
4. Il lavoro – Il sistema sanitario
5. La semplificazione dei procedimenti
6. Le misure alternative
7. Il nuovo volto dell’art. 4 bis ord. penit.
8. Gli interventi sul sistema penitenziario al tempo del coronavirus.
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Considerazioni introduttive
Con i D.Lgs. 2 ottobre 2018, n. 121 (Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 81, 83 e 85, lett. p), L. 23 giugno 2017, n. 103); D.Lgs. 2 ottobre 2018, n. 123 (Riforma dell’ordinamento penitenziario in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 82, 83, 85, lett. a), d), i), l), m), o), r), t) e u), L. n. 203 del 2017); D.Lgs. 2 ottobre 2018, n. 124 (Riforma dell’ordinamento penitenziario in materia di vita detentiva e lavoro penitenziario in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 82, 83, 85, lett. g), h) e r), L. n. 203 del 2017), il legislatore ha dato avvio al percorso di rinnovamento del sistema penitenziario, percorso che è proseguito, seppure in maniera “quantitativamente” meno incisiva, ma “contenutisticamente” rilevante, prima con la L. 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e dei movimenti politici), poi, con la L. 19 luglio 2019, n. 69 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere) e, da ultimo, con la decretazione d’urgenza emessa in seguito alla situazione sanitaria derivata dalla pandemia da COVID-19.
Il quadro d’insieme è assai deludente.
Le maggiori criticità del sistema, non solo, non sono state affrontate, ma, se possibile, risultano essere, allo stato attuale, ancora più difficili da dipanare.
Il legislatore delegato, infatti, omette, da un lato, di esercitare proprio le deleghe relative ad aspetti della materia penitenziaria che da tempo costituiscono settori in sofferenza: a mero titolo esemplificativo si richiamano le problematiche legate al c.d. “ergastolo ostativo”, che oggi, però, dopo l’intervento della Corte costituzionale dovranno essere affrontate1 ovvero al riconoscimento del diritto all’affettività; dall’altro, con la novella del 2019 interviene, invece, addirittura rafforzando i meccanismi preclusivi, utilizzando una tecnica normativa tale da generare, sin da subito, difficoltà interpretative, in particolare con riguardo all’assenza di un regime intertemporale, al punto da richiedere l’intervento del giudice delle leggi che, non a caso, ne ha dichiarato l’incostituzionalità, proprio nella parte in cui ne prevedeva l’applicazione anche nei confronti dei condannati per fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della menzionata legge2.
Ciò premesso è doverosa una riflessione preliminare.
È fuor di dubbio che si sia persa, ancora una volta, l’occasione di riordinare la fase dell’esecuzione penitenziaria, limitandosi a modifiche che, seppur non del tutto prive di rilievo, lasciano irrisolti molti dei nodi che ostacolano il raggiungimento del fine rieducativo affidato alla pena dall’art. 27 Cost., restituendo una struttura, non solo, ben lontana dalle aspettative, ma anche in palese contrasto con i canoni convenzionali e costituzionali3.
Di sicuro pregio è, in ogni caso, il D.Lgs. n. 121 del 2018, ove, al di là, dei contenuti perfettibili ed il cui reale valore potrà valutarsi solo alla luce della prassi applicativa, si detta una specifica regolamentazione per l’esecuzione penitenziaria del condannato minorenne. A più di 40 anni dalla riforma del 1975, ove in modo assai laconico l’art. 79 ord. penit. si limitava ad estendere le disposizioni dettate per i maggiorenni almeno “… fino a quando non si sarà provveduto con apposita legge”, è stato, infatti, varato un sistema autonomo destinato a disciplinare meccanismi che dovrebbero muoversi secondo specifiche linee direttrici tra cui l’individualizzazione e la flessibilità dell’intervento educativo; la preferenza accordata alle misure alternative alla detenzione; la riorganizzazione degli istituti penitenziari in modo che possano favorire la responsabilizzazione e il rafforzamento delle relazioni con il mondo esterno4.
L’analisi che seguirà non ha certo la pretesa di fornire un esame approfondito di tutte le modifiche operate, ma solo ed esclusivamente mettere in luce alcune novità ritenute significative, onde offrire una visione che fotografi i tratti più salienti ed attuali del regime detentivo con esclusivo riguardo ai condannati adulti.
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Il trattamento penitenziario
Sia il D.Lgs. n. 123 del 2018 sia il D.Lgs. n. 124 del 2018 intervengono in tema di assistenza sanitaria, semplificazione dei procedimenti, vita penitenziaria, lavoro.
Al fine di mettere a fuoco le linee di riforma seguite con detti provvedimenti, appare opportuno prendere avvio dai precetti che costituiscono l’imprescindibile base normativa dell’esecuzione penitenziaria ossia gli artt. 1 (Trattamento e rieducazione), 13 (Individualizzazione del trattamento), 15 (Elementi del trattamento) ord. penit., i quali mostrano alcune interessanti integrazioni che, seppur non in grado di stravolgerne la pregressa forza precettiva, costituiscono una importante esplicitazione di aspetti, fino ad ora, non presenti nel dato positivo.
L’art. 1 ord. penit., norma emblematica e di principio, si arricchisce di rilevanti contenuti.
Si integra, in particolare, il disposto rendendo più chiare le finalità cui deve tendere il trattamento penitenziario, che costituisce il precipitato diretto dell’art. 27, comma 3, Cost., rammentando come esso sia improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a sesso, identità di genere, orientamento sessuale, razza, nazionalità, condizioni economiche e sociali, opinioni politiche e credenze religiose e si conformi a modelli che favoriscono l’autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l’integrazione.
Il tratto di maggiore rilievo è costituito dal richiamo ad aspetti (tra tutti l’orientamento sessuale ovvero la parità di genere) che, sebbene già valorizzati in via interpretativa, sono oggi presenti direttamente nel testo, indice di una sempre maggiore sensibilizzazione su tematiche che riflettono i mutamenti sociali intervenuti nel corso degli anni. A dimostrazione di come tale modifica non costituisca una mera petizione di principio, ma come, al contrario, trovi un riconoscimento immediato e diretto, è sufficiente rammentare il nuovo testo dell’art. 11, comma 10, ord. penit., in tema di Servizio sanitario, ove si stabilisce che ai detenuti e agli internati che, al momento della custodia cautelare in carcere o dell’esecuzione dell’ordine di carcerazione, abbiano in corso un programma terapeutico ai fini di cui alla L. 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), sono assicurati la prosecuzione del programma e il necessario supporto psicologico o, ancora, l’art. 14, ultimo comma, ord. penit., il quale prescrive che l’assegnazione dei detenuti e degli internati, per i quali si possano temere aggressioni o sopraffazioni da parte della restante popolazione detenuta, in ragione solo dell’identità di genere o dell’orientamento sessuale, deve avvenire per categorie omogenee, in sezioni distribuite in modo uniforme sul territorio nazionale previo consenso degli interessati, i quali, in caso contrario, saranno assegnati a sezioni ordinarie. Deve, in ogni caso, essere garantita la partecipazione ad attività trattamentali, eventualmente anche insieme alla restante popolazione detenuta.
In ossequio ai precetti costituzionali, la novella struttura dell’art. 1 ord. penit. impone inoltre, che ad ogni persona privata della libertà personale siano garantiti i diritti fondamentali, affermazione che, seppur implicitamente conseguente al canone di cui all’art. 2 Cost., assume nella sua dizione letterale un indubbio valore di principio.
Viene espunto, invece, il richiamo, presente nella bozza Giostra, all’utilizzo dello strumento della c.d. “sorveglianza dinamica”, auspicata dalla Corte EDU, al fine di adeguare il sistema italiano agli standard imposti dall’art. 3 CEDU. Si tratta di un modello di vigilanza che sostituisce il controllo fisico in cella con una più complessa attività di controllo basata sull’osservazione e sulla conoscenza della persona, modello che valorizza il ruolo della polizia penitenziaria e contribuisce ad una maggiore responsabilizzazione del detenuto. La scelta di emendare il richiamo a tale forma di sorveglianza non può che essere valutata in modo negativo, perché la sua previsione avrebbe potuto offrire un valido supporto al complesso sistema di rieducazione, oltre che valorizzare le caratteristiche del singolo così come d’altronde auspicato attraverso l’individualizzazione del trattamento5.
In siffatta prospettiva, si segnala l’innalzamento della durata della permanenza all’aperto (art. 10 ord. penit.) che è prevista ordinariamente per un tempo non inferiore a quattro ore al giorno (in luogo delle precedenti due ore), che possono essere ridotte a due ore per “giustificati motivi” (locuzione che sostituisce la precedente che richiedeva “motivi eccezionali”) con provvedimento del direttore dell’istituto, comunicato al provveditore regionale ed al magistrato di sorveglianza. La sostituzione delle due espressioni non è, però, a ben vedere, di poco conto, in quanto la presenza di giustificati motivi, in luogo degli eccezionali prima vigenti, potrebbe consentire all’autorità amministrativa di incidere più facilmente sulla durata della permanenza all’aperto, con conseguenze per i detenuti che non possono non essere stigmatizzate.
Viene, altresì, integrato il testo dell’art. 13 ord. penit., rubricato “Individualizzazione del trattamento”.
Di peculiare rilievo è il nuovo comma 3, il quale contiene un esplicito richiamo alla giustizia riparativa come elemento rappresentativo del percorso di osservazione scientifica, laddove si precisa che “…nell’ambito dell’osservazione è offerta all’interessato l’opportunità di una riflessione sul fatto criminoso commesso, sulle motivazioni e sulle conseguenze, in particolare per la vittima, nonché sulle possibili azioni di riparazione”. Si tratta di un elemento di novità di particolare importanza, poiché attribuisce all’opera di mediazione successiva alla sentenza di condanna un ruolo centrale, applicabile, ove possibile, ad ogni percorso trattamentale, laddove in precedenza l’unico riferimento ad aspetti in qualche modo riconducibili all’area della giustizia riparativa erano rinvenibili nel corpo dell’art. 47 ord. penit. A ben vedere, però, tale inserimento rischia di diventare una mera petizione di principio, non essendo accompagnato da ulteriori precetti che ne regolamentino l’operatività concreta, circostanza che ne depotenzia, pertanto, la forza innovativa.
La L. n. 69 del 2019 ha, poi, riformulato il successivo art. 13 bis ord. penit., rubricato oggi “Trattamento psicologico per i condannati di reati sessuali, per maltrattamenti contro familiari o conviventi e per atti persecutori”. La finalità a cui è rivolta detta disposizione è prevedere la possibilità per soggetti condannati per peculiari tipologie di reato tassativamente indicate di sottoporsi a un trattamento psicologico ad hoc con finalità di recupero e di sostegno. Allo scopo di incentivare l’avvio di tale percorso si dispone che l’eventuale partecipazione viene valutata, ai sensi dell’art. 4 bis, comma 1 quinquies, ord. penit., ai fini della concessione dei benefici ivi indicati. L’intervento di riforma ha, in primo luogo, ampliato il novero dei delitti, richiamando anche gli artt. 572, 583 quinquies e 612 bis c.p. ed ha eliso il periodo che ne limitava l’operatività ai soli reati commessi a danno di persona minorenne, permettendone, pertanto, una applicazione più ampia. L’intento, condivisibile, sotteso a tali modifiche è legato alla volontà di offrire a tutti i condannati per siffatte ipotesi criminose l’opportunità di intraprendere uno specifico percorso trattamentale, calibrato sulle peculiari forme di devianza che da essi scaturiscono, in modo da prevenire in maniera più mirata il pericolo di recidiva. Detta lettura sembra essere confermata dal contenuto del novello comma 1 bis, ove si specifica che le persone condannate per i delitti enucleati nel comma 1 dell’art. 13 bis ord. penit. possono essere ammesse a seguire percorsi di reinserimento nella società e di recupero presso enti e associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati, organizzati previo accordo tra i suddetti enti o associazioni e gli istituti penitenziari6.
Quantunque possa apparire un precetto di mera rilevanza organizzativa, ai fini del reinserimento sociale, acquisisce un ruolo non secondario anche il principio di territorialità sancito oggi in modo chiaro all’art. 14, comma 1, ord. penit., ove si prescrive che i detenuti e gli internati hanno diritto di essere assegnati a un istituto il più vicino possibile alla stabile dimora della famiglia o, se individuabile, al proprio centro di riferimento sociale, salvi specifici motivi contrari. L’assegnazione dei detenuti, come d’altronde si ricavava già dalla precedente formulazione, deve, infatti, garantire il trattamento rieducativo comune e l’esigenza di evitare influenze nocive reciproche ed in ragione di ciò costituisce un aspetto non marginale nel cammino di risocializzazione. Siffatti obiettivi si scontrano, però, con la reale situazione in cui versano gli istituti penitenziari, a comprova di come una riforma non accompagnata da seri interventi di natura economica e strutturale è purtroppo destinata a fallire. Sempre nella medesima prospettiva si segnala ancora l’art. 42, comma 2, ord. penit., ove si precisa che nel disporre i trasferimenti i soggetti sono comunque destinati agli istituti più vicini alla loro dimora o a quella della loro famiglia ovvero al centro di riferimento sociale, da individuarsi tenuto conto delle ragioni di studio, di formazione, di lavoro o di salute.
L’attuale struttura dell’art. 14 ord. penit. contiene, poi, alcuni precetti destinati alle detenute donne.
Le aspettative riposte sulla riforma erano, invero, assai differenti, dal momento che alcuni punti della delega imponevano interventi specifici in materia, aspettative, però, del tutto deluse dalle scelte operate dal legislatore. I commi 5 e 6 si limitano, infatti, a stabilire che le donne sono ospitate in istituti separati da quelli maschili o in apposite sezioni in numero tale da non compromettere le attività trattamentali ed alle madri è consentito tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni, precetti che indubbiamente non costituiscono una novità. Meritano, in ogni caso, un cenno le modifiche contenute nell’art. 19 ord. penit., rubricato “Istruzione”, ove si specifica che tramite la programmazione di iniziative specifiche è assicurata parità di accesso delle donne detenute e internate alla formazione culturale e professionale e nell’art. 31 ord. penit., rubricato “Costituzione delle rappresentanze dei detenuti e degli internati”, in cui si precisa che negli istituti penitenziari che ospitano sezioni femminili la rappresentanza comprende anche una detenuta o internata. La condizione carceraria femminile avrebbe, di certo, meritato maggiore attenzione e sensibilità ed è inaccettabile doversi rimettere alla speranza che si apra una nuova stagione di riforme per vedere affrontata in maniera seria detta problematica.
Altra categoria soggettiva del tutto pretermessa dall’intervento novellistico del 2018 nonostante indicazioni della delega è quella degli stranieri. L’art. 19, comma 4, ord. penit. sottolinea solo che speciale attenzione deve essere dedicata all’integrazione dei detenuti stranieri anche attraverso l’insegnamento della lingua italiana e la conoscenza dei principi costituzionali, scelta che ha il chiaro scopo di garantire una maggiore partecipazione all’opera di rieducazione, partecipazione che non può mai prescindere dalla conoscenza.
A conforto della multiformità a cui deve ispirarsi il trattamento penitenziario, l’art. 15, comma 1, ord. penit. è stato, infine, integrato, indicando tra gli elementi attraverso cui lo stesso si dipana l’istruzione, la formazione professionale, il lavoro, la partecipazione a progetti di pubblica utilità, la religione, le attività culturali, ricreative e sportive, con la imprescindibile specificazione che devono essere agevolati i contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia.
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I colloqui e la corrispondenza
Alcune modifiche interessano anche la disciplina dei colloqui7.
L’art. 18, comma 2, ord. penit., così come modificato, rammenta in maniera esplicita che, ferma la disciplina di cui all’art. 104 c.p.p., i detenuti e gli internati hanno diritto di conferire con il difensore sin dall’inizio dell’esecuzione della misura o della pena, nonché hanno diritto ad avere colloqui con i garanti dei diritti dei detenuti. In ragione, poi, del ruolo centrale affidato ai colloqui per il mantenimento dei rapporti affettivi si precisa che i locali destinati ai colloqui con i familiari devono favorire, ove possibile, una dimensione riservata e sono collocati preferibilmente in prossimità dell’ingresso dell’istituto. Particolare cura deve, inoltre, essere dedicata ai colloqui con i minori di anni quattordici (art. 18, comma 3, ord. penit.).
L’organo competente ad emettere l’autorizzazione per i colloqui, la corrispondenza telefonica e gli altri tipi di comunicazione, ad esclusione di quelli disposti ai sensi dell’art. 18 bis, ord. penit., è individuato grazie al rinvio all’art. 11, comma 4, ord. penit. Pertanto, per gli imputati fino alla sentenza di primo grado è l’autorità giudiziaria che procede; dopo la sentenza di primo grado provvede, invece, il direttore dell’istituto (art. 18, ultimo comma, ord. penit.). A tale disomogeneità consegue il ricorso a strumenti diversi ai fini dell’eventuale impugnazione del diniego: nel caso in cui vi abbia provveduto il direttore dell’istituto, il mezzo è, infatti, il reclamo di cui all’art. 35 bis ord. penit., non certo utilizzabile allorquando il provvedimento sia stato emesso dall’autorità giudiziaria. La giurisprudenza formatasi in argomento sostiene essere possibile, in questa ultima ipotesi, il ricorso per cassazione, trattandosi di un inasprimento dell’esecuzione dello strumento cautelare8. Il confronto tra questi due mezzi pone in luce, però, una evidente disparità di trattamento a seconda della posizione giuridica rivestita dal destinatario del diniego, che appare essere del tutto ingiustificata ed, in tal guisa, foriera di un contrasto con l’art. 3 Cost.
Infine, si opera una ridefinizione della competenza a decidere anche in materia di limitazioni e controllo della corrispondenza, ispirandosi al criterio guida della posizione giuridica del detenuto. Per il condannato e l’internato l’organo giudiziario è, dunque, il magistrato di sorveglianza; per l’imputato il giudice che procede ai sensi dell’art. 279 c.p.p. (se il giudice è collegiale decide il presidente del collegio o della Corte di Assise) (art. 18 ter, comma 3, ord. penit.). Tale redistribuzione non è stata, però, seguita da un adattamento del successivo comma 6, in materia di reclamo, ove continua ad operare la pregressa disciplina secondo cui è giudice dell’impugnazione il tribunale di sorveglianza, se il provvedimento è emesso dal magistrato di sorveglianza ovvero negli altri casi il tribunale nel cui circondario ha sede il giudice che ha emesso il provvedimento, che, pertanto, sarà chiamato a decidere le eventuali impugnazioni anche avverso i provvedimenti emessi nei successivi gradi di giudizio. Tale eccentricità normativa è acuita, altresì, dal raffronto con i precetti dettati in tema di permesso di necessità di cui all’art. 30 ord. penit., la cui disciplina è, del pari, mutata con il rinvio per gli imputati al citato criterio di cui all’art. 11, comma 4, ord. penit., ma ove si stabilisce, in maniera assai più condivisibile, che, in materia di reclamo, provvede rispettivamente il tribunale di sorveglianza ovvero la corte di appello (art. 30 bis, comma 3, ord. penit.).
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Il lavoro – Il sistema sanitario
Nel quadro del trattamento rieducativo assumono un rilievo centrale anche le modifiche operate in tema di lavoro penitenziario, che da sempre costituisce il più importante strumento attraverso cui si sviluppa il percorso di risocializzazione, ma che, però, nella prassi soffre di una patologica carenza di effettività.
L’art. 20 ord. penit. viene integralmente sostituito. Tralasciando le novità che incidono prettamente sulla struttura organizzativa, è degna di rilievo in questa sede, da un lato, l’estensione dei fruitori del lavoro operata con il richiamo non più solo a coloro che si trovano negli istituti penitenziari, ma anche a coloro che si trovano nelle strutture ove sono eseguite misure privative della libertà (ad esempio le REMS) ed, ancora, l’eliminazione dell’obbligatorietà del lavoro penitenziario.
È interessante, altresì, la previsione di una autonoma disciplina del lavoro di pubblica utilità (art. 20 ter ord. penit.), che cessa, pertanto, di essere considerato una modalità di esecuzione del lavoro all’esterno. Siffatta scelta trova evidentemente la sua ragion d’essere nella convinzione che lo svolgimento di una attività lavorativa che abbia una utilità sociale presenti una maggiore e più significativa efficacia risocializzante. È, dunque, consentito svolgere attività a titolo volontario o gratuito nell’ambito di progetti di pubblica utilità sia all’interno sia all’esterno degli istituti penitenziari (art. 21 ter, comma 2, ord. penit.). Sono, però, stabilite restrizioni per l’accesso a siffatta tipologia di lavoro per i detenuti e gli internati per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. e per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, i quali non possono prestare attività fuori dall’istituto. I detenuti e gli internati di cui all’art. 4 bis, commi 1, 1 ter e 1 quater, ord. penit., diversi da quelli sopracitati, sono ammessi, invece, dal magistrato di sorveglianza al lavoro di pubblica utilità svolto all’esterno, tenuto conto delle esigenze di prevenire il pericolo di commissione di altri reati, della natura del reato commesso, della condotta tenuta, nonché del significativo rapporto tra la pena espiata e la pena residua9.
Anche l’art. 11 ord. penit. è stato integralmente sostituito nel dichiarato intento di dotare di maggiore effettività il diritto alla salute delle persone ristrette.
Nel rispetto della disciplina sul riordino della medicina penitenziaria costituisce un primo aspetto di estrema importanza il richiamo al principio di parità tra detenuti e soggetti liberi, attraverso anche la pubblicità della carta dei servizi sanitari adottata dall’azienda sanitaria locale ove è ubicato l’istituto penitenziario. A ciò consegue, in primo luogo, l’obbligatorietà dell’istituzione di un servizio medico e farmaceutico calibrato sulle specifiche esigenze dei destinatari. Si segnala, però, l’omissione del riferimento alla presenza di un esperto in materie psichiatriche, lacuna che palesa una estrema criticità, poiché, non soltanto non si prevede, come richiesto dalla delega, un potenziamento del servizio, bensì addirittura sembrerebbe essere stato eliso del tutto10.
Il trattamento della patologia psichica in condizioni di restrizione della libertà personale è, non a caso, al centro di un inteso dibattito, dibattito solo in parte sopito con la previsione delle REMS, che hanno segnato il faticoso approdo del percorso di dismissione degli ospedali psichiatrici giudiziari, ma che non permette di estendere l’operatività di siffatte strutture nei confronti di soggetti affetti da patologie non incidenti o solo parzialmente incidenti sulla capacità di intendere e di volere, essendo le stesse destinate solo a soggetti non imputabili. La giurisprudenza di legittimità si è, tra l’altro, assestata su una posizione tesa a marcare una netta differenziazione tra le ipotesi di infermità fisica e quella di infermità “meramente” psichica, evidenziando una lacuna normativa che ora è stata solo, in parte, risolta con l’intervento della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 47 ter, comma 1 ter, ord. penit., nella parte in cui non prevede che, nell’ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta, il tribunale di sorveglianza possa disporre la detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti imposti dal comma 1 della medesima norma11.
Ove debbano essere apprestate cure o accertamenti medici che non possano essere svolti all’interno dell’istituto, i detenuti sono trasferiti in strutture sanitarie esterne con provvedimento del giudice che procede (art. 11, comma 4, ord. penit.). Il legislatore ha nell’occasione riordinato la competenza a disporre il trasferimento, tenendo conto della posizione giuridica del detenuto (imputato ovvero condannato o internato), criteri la cui operatività è, come emerso in precedenza, estesa ai permessi di necessità ed alla corrispondenza. Se il giudice è collegiale provvede, pertanto, il presidente; prima dell’esercizio dell’azione penale decide il giudice per le indagini preliminari ovvero il pubblico ministero in caso di giudizio direttissimo e fino alla presentazione dell’imputato in udienza per la contestuale convalida dell’arresto; se è, invece, proposto ricorso per cassazione provvede il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. Per i condannati e gli internati la competenza è, invece, del magistrato di sorveglianza. In ogni caso, permane in vigore il precetto che indica, nei casi di estrema urgenza, quando non sia possibile ottenere con immediatezza la decisione della competente autorità giudiziaria, la legittimazione a pronunciarsi del direttore dell’istituto, che deve darne contemporanea comunicazione alla predetta autorità e darne notizia al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ed al provveditore regionale (art. 17, comma 8, d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230). Siffatta regolamentazione presenta una maggiore organicità, superando l’impostazione privilegiata dal Progetto Pellissero, che garantiva centralità alla competenza del magistrato di sorveglianza in quanto giudice di prossimità. Suscita ancora qualche perplessità l’individuazione del giudice competente dopo l’emissione del decreto che dispone il giudizio ovvero nell’ipotesi di giudizio immediato. La soluzione è, però, rinvenibile applicando il principio interpretativo che vige in materia cautelare con la conseguenza che la competenza deve ritenersi incardinata alla luce del principio della materialità degli atti.
Per sopravvenute ragioni di sicurezza il provvedimento di trasferimento presso strutture ospedaliere esterne può essere modificato ovvero revocato quando cessano le cause che lo hanno determinato. Nel rispetto del diritto alla dignità della persona, qualora non sussista il pericolo di fuga, i detenuti e gli internati possono non essere sottoposti al piantonamento durante la degenza, salvo che non sia necessario per la tutela della loro incolumità personale o dell’altrui (art. 11, comma 5, ord. penit.). L’allontanamento senza giustificato motivo del detenuto o dell’internato è, comunque, punito ai sensi dell’art. 385 c.p.
All’ingresso in carcere il detenuto e l’internato sono sottoposti alla visita medica obbligatoria e ricevono dai sanitari informazioni complete sul proprio stato di salute (art. 11, comma 7, ord. penit.). Nella cartella clinica il medico annota immediatamente ogni informazione relativa a segni o indici che facciano apparire che la persona possa aver subìto violenze o maltrattamenti e, fermo l’obbligo di referto, egli ne deve dare comunicazione al direttore dell’istituto ed al magistrato di sorveglianza. Tale precetto rappresenta una importante novità frutto, da un lato, delle esigenze palesate dalle cronache giudiziarie, essendo volto a riscontrare se il soggetto abbia subìto lesioni o maltrattamenti nella fase della cattura e delle attività di polizia, dall’altro, consente di rilevare con maggiore rapidità cause influenti ai fini del rinvio dell’esecuzione della pena.
I detenuti e gli internati possono, altresì, chiedere di essere visitati, a proprie spese, da un esercente la professione sanitaria di fiducia. L’autorizzazione è concessa agli imputati fino alla sentenza di primo grado dal giudice che procede; nelle fasi successive nonché per i condannati e gli internati è chiamato a pronunciarsi il direttore dell’istituto (art. 11, comma 12, ord. penit.).
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La semplificazione dei procedimenti
Le modifiche che hanno interessato le norme contenute nell’ordinamento penitenziario appaiono nel complesso piuttosto marginali.
Le prime riguardano l’art. 35 bis ord. penit. e, di riflesso, anche l’art. 35 ter ord. penit., a cui si estendono le medesime regole procedimentali. Si incide sulle modalità di vocatio in iudicium dell’amministrazione interessata, a cui, insieme all’avviso di fissazione dell’udienza davanti al magistrato di sorveglianza (ovvero al tribunale di sorveglianza ai sensi dell’art. 35 bis, comma 4, ord. penit.), viene comunicato anche il reclamo presentato dal detenuto. L’avviso de quo deve, altresì, contenere l’indicazione che l’amministrazione può comparire con un proprio dipendente ovvero trasmettere osservazioni e richieste. La previsione dell’invio del reclamo risponde, di certo, all’esigenza di garantire una discovery anticipata, discovery funzionale sia al deposito di eventuali memorie sia a consentire una valutazione ponderata della linea difensiva anche in vista di una eventuale partecipazione all’udienza. La nuova dizione normativa fuga, inoltre, il dubbio interpretativo circa la legittimazione dell’amministrazione a comparire personalmente con un proprio funzionario e non soltanto a mezzo di difensore, nella specie, l’Avvocatura di Stato. La previsione recepisce sul punto l’approdo giurisprudenziale secondo cui queste forme di impugnazione sono ispirate a criteri di rapidità ed effettività di tutela nell’ambito di una giurisdizione di prossimità, con la conseguenza che l’amministrazione penitenziaria interviene personalmente quale titolare e responsabile del trattamento dei detenuti12.
L’intervento sull’art. 69 bis, ord. penit., che ha determinato, invece, l’abrogazione del comma 5, attribuisce la competenza esclusiva al magistrato di sorveglianza in materia di liberazione anticipata, escludendo qualsiasi concorrenza con quella del tribunale di sorveglianza anche allorquando egli ne sia investito in via indiretta o incidentale. L’organo collegiale perde, pertanto, siffatta competenza giurisdizionale alternativa, criterio che, invero, era stato già nella pratica abrogato per desuetudine e la conserva in materia solo in sede di reclamo, così come previsto ai sensi dell’art. 69 bis, commi 3 e 4, ord. penit.
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Le misure alternative
Sono diverse le disposizioni interessate dalla riforma incidenti sull’applicazione delle misure alternative, a cui si aggiungono anche quelle da ultimo introdotte in seguito all’attuale emergenza sanitaria di cui di seguito si darà brevemente conto, quantunque sia assente una rivalutazione organica degli strumenti de quibus, rivalutazione che sembrerebbe, invece, necessaria e auspicabile per migliorarne l’efficacia.
L’art. 51 bis ord. penit., rubricato “Sopravvenienza di nuovi titoli di privazione della libertà e di sospensione e revoca delle misure alternative” è stato integralmente sostituito. In primo luogo, con una scelta del tutto condivisibile, il legislatore abbandona il riferimento esplicito solo ad alcune misure per riferirsi in modo generico all’ipotesi in cui nei confronti di un soggetto in esecuzione di una misura alternativa sopravvenga un nuovo titolo esecutivo. Facendo ciò, determina, inoltre, un ampliamento dell’operatività dell’intervento del magistrato di sorveglianza rispetto alla formulazione precedente che richiedeva solo una verifica “aritmetico-formale”13, essendo oggi chiamato a verificare il permanere delle condizioni di applicabilità della misura in esecuzione, con riguardo, pertanto, sia al quantum di pena espianda sia alle altre condizioni di legge. Il pubblico ministero a cui è demandato il compito di effettuare il nuovo cumulo delle pene è individuato ai sensi dell’art. 655 c.p.p. e corrisponde con l’ufficio che cura l’esecuzione del titolo sopravvenuto. La decisione del giudice di sorveglianza, assunta senza formalità, può disporre la prosecuzione ovvero la cessazione della misura. In tale ultima ipotesi, la competenza ad emettere l’ordine di accompagnamento in istituto del condannato è affidata al magistrato di sorveglianza e non già al pubblico ministero, in deroga rispetto a quanto disposto all’art. 659 c.p.p.
Anche l’art. 51 ter ord. penit., rubricato “Sospensione cautelativa delle misure alternative”, è stato integralmente sostituito. Dalla lettura del precetto emerge, in primo luogo, come la struttura sistematica risulti rovesciata rispetto alla precedente formulazione. Si prevede, infatti, che se la persona sottoposta a misura alternativa pone in essere comportamenti suscettibili di determinarne la revoca, il magistrato di sorveglianza, nella cui giurisdizione la misura è in esecuzione, ne dà immediata comunicazione al tribunale di sorveglianza affinché decida in ordine alla prosecuzione, sostituzione o revoca della misura. Il contenuto di questo primo comma, in modo analogo rispetto al disposto di cui all’art. 51 bis ord. penit., prevede il generico richiamo a qualsiasi misura alternativa in luogo del precedente riferimento esplicito solo agli artt. 47, 47 ter, 47 quinquies e 50 ord. penit., circostanza che fuga il dubbio circa la sua estensibilità ad altri istituti primo fra tutti l’affidamento terapeutico di cui all’art. 94, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309. La sospensione cautelativa, in precedenza automatica ed obbligatoria, ora “può” essere disposta, scelta che sembra uniformarsi alla lettura sul punto offerta dalla giurisprudenza di legittimità. Alcuni autori rinvengono tratti di reale novità nel potere attribuito al tribunale di sorveglianza di disporre, non solo, la prosecuzione o la revoca, ma anche la sostituzione in peius della misura alternativa. L’ampliamento dello spettro decisionale costituisce una opzione del tutto condivisibile. Esso consente, invero, di adattare la decisione alle reali emergenze del caso concreto, evitando, nelle situazioni più dubbie, l’effetto stigmatizzante determinato dal divieto di concessione delle misure alternative in caso di revoca di cui all’art. 58 quater, comma 2, ord. penit.14.
L’art. 51 quater, ord. penit., rubricato “Disciplina delle pene accessorie in caso di concessione di misure alternative”, è stato, invece, inserito ex novo dal D.Lgs. n. 123 del 2018. Si tratta di una novità frutto delle difficoltà palesatesi già da tempo nella prassi operativa. L’art. 139 c.p. esclude, infatti, dal computo delle pene accessorie temporanee il tempo in cui il condannato sconta la pena detentiva ovvero la misura di sicurezza detentiva o si sottragga volontariamente all’esecuzione delle stesse, ma tace in ordine alle misure alternative. Di fronte ad una pericolosa incertezza interpretativa si inserisce, pertanto, tale nuovo precetto che prescrive, da un lato, che, in caso di applicazione di una misura alternativa alla detenzione, sono eseguite anche le pene accessorie, salvo che il giudice che ha concesso la misura, tenuto conto delle esigenze di reinserimento sociale del condannato, ne disponga la sospensione (comma 1). Dall’altro, si precisa che, in caso di revoca della misura, ove disposta l’applicazione delle pene accessorie, l’esecuzione ne viene sospesa, ma il periodo già espiato è computato ai fini della loro durata. Si rammenta, poi, il disposto di cui all’art. 47, comma 12, ord. penit. che prevede in caso di esito positivo della prova l’estinzione della pena detentiva e di ogni altro effetto penale, ivi comprese le pene accessorie. La L. n. 3 del 2019 ha apportato alcuni correttivi proprio al testo dell’art. 47 ord. penit., laddove oggi si specifica che l’effetto estintivo non si determina rispetto alle pene accessorie perpetue15. Tale previsione, da un lato, avvalora la lettura della giurisprudenza prevalente in merito all’estensibilità del citato effetto anche alle pene accessorie, dall’altro, però, parrebbe porsi in palese contrasto con la lettura offerta dalla Corte costituzionale che ha avuto, anche di recente16, modo di sottolineare come la pena debba essere il più possibile “individualizzata” e, dunque, calibrata sulla situazione del singolo condannato, in attuazione del mandato costituzionale di “personalità” della responsabilità penale di cui all’art. 27, comma 1, Cost. L’esigenza di “mobilità” della pena mal si concilierebbe, infatti, con un precetto che esclude l’operatività del meccanismo estintivo delle pene accessorie, ancorato, tra l’altro, in maniera rigida alla durata perpetua, proprio in occasione della valutazione conclusiva del percorso rieducativo intrapreso dal condannato.
Si segnala, infine, come l’unico apporto novellistico effettuato sulla disciplina di singole misure alternative dai decreti legislativi del 2018 è contenuto nell’art. 47, comma 2, ord. penit., laddove si precisa che l’osservazione scientifica della personalità è condotta collegialmente per un mese in istituto se il soggetto è recluso e mediante l’intervento dell’ufficio di esecuzione penale esterna, se l’istanza è proposta da soggetto in libertà. Tale intervento deve essere letto in combinato disposto con l’ultimo periodo dell’art. 656, comma 6, c.p.p., il quale prescrive che il tribunale di sorveglianza decide non prima del trentesimo e non oltre il quarantacinquesimo giorno dalla ricezione della richiesta, al fine evidentemente di consentire agli uffici preposti di eseguire l’osservazione del condannato nonché con l’art. 72 ord. penit., ove si esplicita tra i compiti che sono affidati all’UEPE accanto allo svolgimento di indagini socio-familiari, l’attività di osservazione del comportamento per l’applicazione delle misure alternative alla detenzione per i condannati.
L’art. 57 ord. penit., rubricato, “Legittimazione a richiedere le misure”, viene, infine, implementato estendendone l’operatività da un punto di vista sia oggettivo sia soggettivo. In luogo della dizione più restrittiva presente nella precedente formulazione, ove il richiamo era al trattamento ed ai benefici di cui agli artt. 47, 50, 52 e 53 ord. penit., ora appare una espressione più ampia grazie al richiamo generico alle misure alternative (richiamo, peraltro, già utilizzato anche negli artt. 51 bis e 51 ter ord. penit.) nonché al riferimento specifico a nuovi istituti quali i permessi premio, i permessi di necessità e la remissione del debito. Si segnala, invece, da parte dei primi commentatori, l’assenza del riferimento ai procedimenti di revoca delle misure di sicurezza detentive, che, proprio in ragione delle condizioni dell’interessato, avrebbero necessità di un atto di impulso da parte di soggetti diversi, pur in presenza sempre della legittimazione ex officio di cui all’art. 679 c.p.p.17. I soggetti legittimati a presentare una richiesta, prima individuati nel condannato, nell’internato, nei prossimi congiunti o nel consiglio di disciplina, sono oggi il condannato, l’internato, i prossimi congiunti, il difensore e le stesse possono essere, altresì, proposte dal gruppo di osservazione e trattamento. Il riferimento al Consiglio di disciplina è, invece, contenuto nell’art. 76, comma 3, d.P.R. n. 230 del 2000.
L’art. 58, commi 2 e 3, ord. penit., rubricato “Comunicazioni e attività di controllo”, prevede, infine, che alle attività di controllo partecipi, ove richiesta, la polizia penitenziaria, secondo le indicazioni del direttore dell’ufficio di esecuzione penale esterna e previo coordinamento con l’autorità di pubblica sicurezza. Tale attività riguarda esclusivamente l’osservanza delle prescrizioni inerenti alla dimora, alla libertà di locomozione, ai divieti di frequentare determinati locali e persone e di detenere armi. Le attività di controllo sono svolte con modalità tali da garantire il rispetto dei diritti dell’interessato e dei suoi familiari e conviventi, da recare il minor pregiudizio possibile al processo di reinserimento sociale e la minore interferenza con lo svolgimento di attività lavorative. Si tratta, invero, di una competenza concorrente che opera solo su richiesta e previo coordinamento con l’autorità di pubblica sicurezza. Se la polizia penitenziaria riveste istituzionalmente una funzione trattamentale intra moenia, quando è destinata a siffatti compiti, si ritiene, invece, che debba limitarsi alla verifica delle prescrizioni indicate nel precetto senza estenderne in alcun modo la portata, dovendo intendersi il suo intervento solo quale utile supporto alle altre forze di polizia18.
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Il nuovo volto dell’art. 4 bis ord. penit.
Non è stato esente da interventi novellistici di un certo rilievo neppure il precetto di cui all’art. 4 bis ord. penit., norma da sempre assai discussa in quanto espressione di un trattamento penitenziario in cui si sovverte il principio di individualizzazione di cui all’art. 13 ord. penit. rispetto a peculiari tipologie di reati, sintomatiche di una forma di pericolosità ex lege di carattere “assoluto”, la quale può essere vinta solo attraverso un complesso meccanismo ivi disciplinato. Tale meccanismo dovrà, però, oggi essere riletto alla luce anche della sentenza della Corte costituzionale 23 ottobre 2019, n. 253, che ha posto in crisi l’intero apparato normativo con particolare riguardo al c.d. “ergastolo ostativo”, dichiarando l’illegittimità dell’art. 4 bis, comma 1, ord. penit., nella parte in cui non prevede la concessione dei permessi premio ai condannati non collaboratori con la giustizia, sempre che siano stati acquisiti, da un lato, elementi tali da escludere l’attualità della partecipazione all’associazione criminale e, più in generale, la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, dall’altro, che l’interessato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo. La presunzione di pericolosità diventa, pertanto, ai soli fini della fruizione del permesso di cui all’art. 30 ter ord. penit., “relativa” e, quindi, superabile dal magistrato di sorveglianza con una valutazione da operarsi caso per caso.
La posizione assunta dai giudici delle leggi, fortemente influenzata dalla recente lettura dell’art. 4 bis ord. penit. da parte dei giudici europei, si scontra, però, con una impostazione legislativa del tutto differente, confermata, tra l’altro, sia con la L. n. 3 del 2019 sia con la L. n. 69 del 2019. Il legislatore del 2019 ha, infatti, con il primo provvedimento richiamato, previsto, da un lato, un ulteriore ampliamento del novero dei delitti ricompresi proprio nel comma 1 dell’art. 4 bis ord. penit., inserendovi gli artt. 314, comma 1, 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter, 319 quater, comma 1, 320, 321, 322, 322 bis c.p., dall’altro, ha precisato che il divieto di concessione dei benefici penitenziari può essere superato con riguardo al comma 1 citato allorquando il detenuto o l’internato collabori con la giustizia a norma dell’art. 58 ter ord. penit. ovvero dell’art. 323 bis, comma 2, c.p. Quest’ultima è una circostanza attenuante ad effetto speciale, che consente di ridurre la misura della pena tra un terzo e due terzi per i delitti di cui agli artt. 318, 319, 319 ter, 319 quater, 320, 321, 322 e 322 bis c.p. nei confronti di chi sia efficacemente adoperato per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati per l’individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite. Non può che suscitare perplessità, a parte l’inopinata decisione di allargare il ventaglio di condotte criminali per cui opera il regime di cui all’art. 4 bis ord. penit., la circostanza che l’accertamento della collaborazione, nel caso di specie, resti affidato al giudice della cognizione, cosicché l’accesso ai benefici penitenziari risulta subordinato al riconoscimento di una circostanza attenuante all’interno della sentenza di condanna19, collaborazione, tra l’altro, non esigibile per alcune tra le fattispecie inserite dallo stesso legislatore del 2019 o perché declinate in chiave monosoggettiva come il delitto di peculato (art. 314 c.p.) ovvero costruite su uno schema peculiare di plurisoggettività in cui l’intraneus è l’autore e l’extraneus è la persona offesa come nel delitto di concussione (art. 317 c.p.). La scelta operata rispetto ai delitti contro la pubblica amministrazione sembra, pertanto, ispirata a ragioni assai distanti rispetto a quelle che hanno indotto ab origine la previsione di un regime del “doppio binario”. È chiaro, infatti, come sia assente la constatazione che trattasi di una forma di pericolosità in qualche modo omogenea rispetto a quella sottesa ai reati di criminalità organizzata, ma, al contrario, emerge in modo evidente la sola volontà di approntare un apparato anche nel sistema penitenziario dai connotati principalmente “sanzionatori”, con ovvie conseguenze rispetto a ciò che impone l’art. 27 Cost..
Seguendo la medesima impostazione volta ad includere nuove fattispecie delittuose nel catalogo dei delitti per cui opera il divieto di concessione dei benefici penitenziari, la L. n. 69 del 2019 ha inserito all’art. 4 bis, comma 1 quater, ord. penit., il delitto, peraltro previsto proprio con il medesimo intervento legislativo, di cui all’art. 583 quinquies c.p., rubricato “Deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso”, la cui condanna inibirà l’accesso ai benefici penitenziari a meno che non risulti per l’interessato una valutazione positiva in seguito all’osservazione scientifica della personalità condotta collegialmente per almeno un anno anche con la partecipazione degli esperti di cui all’art. 80 ord. penit. La medesima fattispecie criminosa è, altresì, inserita nel novero delle ipotesi delittuose per cui, se commesse a danno di un minorenne, il magistrato o il tribunale di sorveglianza valuta la positiva partecipazione al programma di riabilitazione specifica di cui all’art. 13 bis ord. penit. (art. 4 bis, comma 1 quinquies, ord. penit.).
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Gli interventi sul sistema penitenziario al tempo del coronavirus.
Al fine di offrire un quadro completo, seppur di certo non esaustivo, della fase dell’esecuzione penitenziaria per i condannati adulti è doveroso, infine, un breve cenno ai più recenti interventi novellistici in materia.
Le modifiche strutturali, inserite a mezzo dello strumento della decretazione di urgenza al momento, peraltro, non ancora convertiti in legge, sono contenute in due differenti provvedimenti. Il primo è il D.L. 30 aprile 2020, n. 28 (Misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l’introduzione del sistema di allerta Covid-19) che opera sull’istituto dei permessi c.d. di necessità e sulla detenzione domiciliare c.d. “umanitaria o surrogatoria”. Con riguardo al meccanismo di cui all’art. 30 ord. penit. interviene, rafforzando la rete di informazioni necessarie per la decisione. Allorquando, infatti, l’interessato sia detenuto per uno dei delitti di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater, c.p.p. l’autorità competente deve richiedere, prima di pronunciarsi, il parere al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove ha sede il tribunale che ha emesso la sentenza e, se trattasi di soggetto sottoposto al regime di cui all’art. 41 bis ord. penit., anche al procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo con specifico riguardo all’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata ed alla pericolosità del destinatario. Salvo che ricorrano esigenze di motivata eccezionale urgenza, il permesso non può essere concesso prima che siano decorse ventiquattro ore dalla richiesta dei pareri de quibus (art. 30 bis, comma 1, ord. penit.). Si stabilisce, inoltre, che il procuratore generale presso la corte d’appello sia informato dei permessi concessi e dei relativi esiti con relazione trimestrale redatta dagli organi che li hanno rilasciati e nel caso di provvedimenti adottati nei confronti dei soggetti prima indicati egli ne dà comunicazione rispettivamente al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove ha sede il tribunale che ha emesso la sentenza ed al procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo (art. 30 bis, comma 9, ord. penit.). In materia di detenzione domiciliare richiesta nelle ipotesi di cui agli artt. 146 e 147 c.p. viene inserito un meccanismo non dissimile a quello prima analizzato in tema di permessi di necessità, essendo disposto che, nell’ipotesi in cui la misura alternativa de qua riguardi detenuti appartenenti alle stesse categorie sopra indicate, il tribunale o il magistrato di sorveglianza debba, prima di provvedere all’applicazione o alla proroga, richiedere il parere, rispettivamente, al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove ha sede il tribunale che ha emesso la sentenza e, nel caso di detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis ord. penit., anche al procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo con specifico riguardo all’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata ed alla pericolosità del soggetto. Tali pareri sono resi rispettivamente entro due giorni ovvero entro quindici giorni dalla richiesta. Salvo che sussistano esigenze di motivata eccezionale urgenza, decorsi detti termini, l’autorità competente procede anche in assenza degli stessi (art. 47 ter, comma 1 quinquies, ord. penit.).
I meccanismi inseriti appaiono essere ispirati, così come chiaramente di deduce anche dalla tecnica legislativa assai similare, dalle medesime esigenze connesse alla necessità di evitare che permessi di necessità ovvero misure alternative alla detenzione legate alla presenza di peculiari condizioni di salute vengano decisi senza una valutazione, peraltro non vincolante, del procuratore distrettuale o del procuratore nazionale nel caso di detenuti sottoposti al regime differenziato, i quali, verosimilmente, potrebbero essere portatori di informazioni attuali e dettagliate utili ai fini della decisione (seppure, invero, nulla è precisato circa il contenuto dei pareri richiesti, che potrebbero essere anche non motivati e meramente reiettivi), onde evitare, tra l’altro, situazioni critiche che, anche in tempi recenti, hanno caratterizzato le cronache. L’utilità di tale ulteriore approfondimento è, però, del tutto depotenziata dallo stesso dettato normativo ove si prescrive che i termini prescritti per l’invio dei pareri siano meramente dilatori non potendo l’autorità competente decidere prima, salva l’esistenza di “esigenze di motivata eccezionale urgenza”, circostanza che, pertanto, ridimensiona in maniera notevole la portata innovativa nonché la funzione ad essi sottesa.
Il secondo provvedimento è il D.L. 10 maggio 2020, n. 29 (Misure urgenti in materia di detenzione domiciliare o differimento dell’esecuzione della pena, nonché in materia di sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari, per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19, di persone detenute o internate per delitti di criminalità organizzata di tipo terroristico o mafioso o per i delitti di associazione per delinquere legati al traffico delle sostanze stupefacenti o per delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione mafiosa o con finalità di terrorismo, nonché detenuti e internati sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, nonché, infine, in materia di colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati), il quale opera ancora con specifico riguardo alla misura della detenzione domiciliare ed alla sospensione dell’esecuzione della pena per motivi legati all’emergenza sanitaria da COVID-19. Il primo intervento è incentrato sull’art. 47 ter, comma 7, ord. penit., ove si specifica che la misura della detenzione domiciliare viene revocata non più solo allorquando cessino le condizioni previste ai commi 1 e 1 bis bensì anche quelle dettate al comma 1 ter, per cui lo stato di salute a cui quasi integralmente si riferiscono gli artt. 146 e 147 c.p. richiamati è inteso come suscettibile di mutazione ed anche di concreta verifica, esplicitazione normativa che, invero, riflette i controlli già effettuati nella prassi. L’art. 2, D.L. n. 29 del 2020 prevede, poi, un meccanismo al momento destinato ad avere una efficacia limitata essendo legato all’applicazione della detenzione domiciliare ovvero del differimento dell’esecuzione della pena per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19, ma che costituisce una preoccupante cartina tornasole della incapacità della legislatura di affrontare temi scottanti quali l’esecuzione penitenziaria20. Priva di ragionevolezza appare essere, in primo luogo, la limitazione soggettiva che impone al tribunale o al magistrato di sorveglianza di operare periodiche verifiche quando la misura di cui all’art. 47 ter ord. penit. o del differimento della pena legata alla emergenza COVID sia stata applicata nei confronti di condannati o internati per i delitti di cui agli artt. 270, 270 bis, 416 bis c.p. e 74, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990 o per delitto commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione mafiosa o per un delitto commesso con finalità di terrorismo ai sensi dell’art. 270 sexies c.p. nonché i condannati e gli internati sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis ord. penit., escludendo, senza motivazione, altre categorie delittuose sempre legate al fenomeno della c.d. criminalità organizzata. Complessa e farraginosa risulta, inoltre, essere l’acquisizione dei pareri del procuratore distrettuale antimafia del luogo in cui il reato è stato commesso e del procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo per i condannati ed internati sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis ord. penit., a cui si aggiunge l’acquisizione di indicazioni da parte dell’autorità sanitaria regionale, in persona del Presidente della Giunta regionale, sulla situazione sanitaria locale e di informazioni da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria in ordine alla disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta ad accogliere l’interessato in modo che riprenda la detenzione o l’internamento senza pregiudizio per le sue condizioni di salute. L’autorità giudiziaria provvede, infine, alla rivalutazione dei motivi posti alla base dell’adozione dei provvedimenti di ammissione alla detenzione domiciliare o al differimento della pena, tenuto, altresì, conto dell’eventuale disponibilità di altre strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta, senza, però, garantire alcuna forma di contraddittorio per la difesa del detenuto, circostanza che non può che essere stigmatizzata, poiché ingiustificata e lesiva delle garanzie imposte dall’art. 24 Cost.21, che neppure in presenza di una emergenza sanitaria possono mai essere obliterate.
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1 Le problematiche connesse ai meccanismi di cui all’art. 4 bis ord. penit. hanno ripreso nuovo e significativo vigore in seguito alla pronuncia Corte edu, Grande Camera, 7 ottobre 2019, M. Viola c. Italia, che ha respinto il ricorso dell’Italia avverso la decisione Corte edu 13 giugno 2019, M. Viola c. Italia, inedita, ove si ritiene che l’attuale disciplina dell’ergastolo ostativo violi il principio della dignità umana – desumibile dall’art. 3 CEDU – nella parte in cui restringe alla sola ipotesi di collaborazione con la giustizia la possibilità per il ricorrente di accedere alla liberazione condizionale. Secondo i giudici europei è necessario, infatti, che l’ordinamento italiano adotti (preferibilmente per via legislativa) una riforma dell’ergastolo ostativo, che garantisca ai detenuti una concreta e reale possibilità di riesame della sentenza di condanna nonché di ottenere la liberazione, anche in assenza di collaborazione di giustizia. La Corte costituzionale, con sent. 23 ottobre (dep. 4 dicembre) 2019, n. 253, ha dato seguito alla lettura interpretativa dei giudici europei, dichiarando l’illegittimità dell’art. 4 bis, comma 1, ord. penit., nella parte in cui non prevede la concessione dei permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione dell’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata, sempre che, però, il condannato abbia dato prova di partecipazione al percorso rieducativo. Cfr. in dottrina F. Fiorentin, L’ergastolo “ostativo” ancora davanti al giudice di Strasburgo, in www.penalecontemporaneo.it, 14 marzo 2018; A. Ricci, “Collaborazione impossibile” e sistema penitenziario. L’ammissibilità di misure premiali ed alternative per i non collaboranti condannati per delitto “ostativo”, Padova, 2013; E. Sylos Labini, Il cielo si tinge di Viola: verso il tramonto dell’ergastolo ostativo?, in Arch. pen. web, 3, settembre-dicembre 2019; M.C. Ubaldi, Ergastolo ostativo e preclusione all’accesso ai permessi premio: la Cassazione solleva questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3 e 27 Cost., in www.penalecontemporaneo.it, 29 gennaio 2019.
2 Corte cost. 12 febbraio (dep. 26 febbraio) 2020, n. 32, ove, in particolare, si osserva come, nel caso di specie, la successione normativa determina una trasformazione della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato. Ciò si verifica poiché al momento del fatto la pena prevista era suscettibile di essere eseguita “fuori” dal carcere, mentre oggi, sulla base della legislazione vigente, la pena, pur non mutando formalmente il proprio nomen iuris, deve essere eseguita di norma “dentro” il carcere. Tra il “fuori” ed il “dentro” la differenza è radicale: qualitativa, prima ancora che quantitativa. La pena da scontare diventa un aliud rispetto a quella prevista al momento del fatto; con conseguente inammissibilità di un’applicazione retroattiva di una tale modifica normativa, al metro dell’art. 25, comma 2, Cost. Cfr. Cass., Sez. I, 18 giugno 2019, n. 1992, inedita, che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., dell’art. 1, comma 6, lett. b), L. n. 3 del 2019, nella parte in cui inserisce all’art. 4 bis ord. penit. il richiamo al delitto di cui all’art. 314 c.p. Il punto controverso riguarda, in particolare, se risulti legittima l’emissione dell’ordine di esecuzione della pena – contenuta nel limite edittale di quattro anni – relativa a condanna per il delitto di peculato commesso in data antecedente a quella di entrata in vigore della L. n. 3 del 2019 ed in caso di decisione divenuta irrevocabile in data successiva a quella di vigenza della medesima legge. La vicenda prende le mosse dall’acceso dibattito circa la qualificazione o meno delle norme di matrice penitenziaria come norme penali ovvero processuali. La questione, come è evidente, non è di poco momento, poiché da ciò dipende l’operatività del principio di irretroattività della legge penale sfavorevole (art. 25, comma 2, Cost.) nonché il principio di affidamento (art. 7 CEDU), così come sostenuto dai giudici europei, secondo cui l’interessato deve sempre essere posto in condizione di “prevedere” l’eventuale panorama sanzionatorio. In tale prospettiva l’assenza di una disposizione temporale creerebbe, altresì, una disparità di trattamento potendo incidere sul percorso rieducativo senza alcuna correlazione con un giudizio di personalità del condannato e sul grado di rieducazione raggiunto dallo stesso. In dottrina cfr. V. Manes, L’estensione dell’art. 4-bis ord. pen. ai delitti contro la P.A.: profili di illegittimità costituzionale, in www.penalecontemporaneo.it, 14 febbraio 2019.
3 Siracusano, “Cronaca di una morte annunciata”: l’insopprimibile fascino degli automatismi preclusivi penitenziari e le linee portanti della “riforma tradita”, in Arch. pen. web, n. 3, settembre-dicembre 2019, il quale osserva, come “Questo ‘tradimento’ ha determinato il permanere di quello stridente e dilatato iato sistematico tra individualizzazione e differenziazione trattamentale che oramai da circa un trentennio caratterizza l’impianto dell’esecuzione penale nel nostro Paese e che, nella sua attuale configurazione normativa, sigla il punto di maggiore frizione fra l’intervento penale e la tensione rieducativa delle pene costituzionalmente evocata. Un ‘doppio binario’ penitenziario che, tramite l’erosione delle più vistose e irragionevoli deviazioni dal modello ordinario, la ‘riforma tradita’ aveva provato a ricondurre ad Costitutionem“.
4 Della Casa, Esecuzione e peculiarità della disciplina penitenziaria, in Procedura penale minorile, a cura di M. Bargis, Torino, 2019, 256 ss.
5 A. M. Capitta, La piccola riforma penitenziaria e le sue ricadute sul sistema, in Arch. pen., 2, 2019, 6 e 7; A. Della Bella, Riforma dell’ordinamento penitenziario: le novità in materia di assistenza sanitaria, vita detentiva e lavoro penitenziario, in www.penalecontemporaneo.it, 7 novembre 2018; C. Fiorio, Carcere: la riforma dimezzata, in Proc. pen. e giustizia, 3, 2019, 757-758.
6 F. Fiorentin, Sul banco di prova l’offerta territoriale dei trattamenti, in Guida dir., 37, 2019, 112-113, secondo cui “La riforma in definitiva, pur introducendo alcune apprezzabili novità dal punto di vista degli strumenti di recupero della persona che ha commesso crimini a sfondo sessuale, sembra puntare decisamente sulla leva dell’intimidazione e della difesa sociale mentre la possibilità di far decollare i programmi di sostegno e di recupero psicologico – che avrebbero un potenziale di riduzione della probabilità di recidiva ben superiore a quello della minaccia di una graviore punizione penale – restano affidati, essenzialmente, alla buona volontà degli operatori”.
7 C. Fiorio, Carcere: la riforma dimezzata, in Proc. pen. e giustizia, 3, 2019, 766 ss.
8 Cass., Sez. VI, 24 novembre 2015, n. 3729, in CED, n. 265927; Cass., Sez. II, 6 maggio 2015, n. 23760, in CED, n. 264388; Cass., Sez. V, 4 luglio 2013, n. 8798, in CED, n. 258823.
9 A. Della Bella, Riforma dell’ordinamento penitenziario: le novità in materia di assistenza sanitaria, vita detentiva e lavoro penitenziario, in www.penalecontemporaneo.it, 7 novembre 2018; C. Fiorio, Carcere: la riforma dimezzata, in Proc. pen. e giustizia, 3, 2019, 773 ss.
10 A. Della Bella, Riforma dell’ordinamento penitenziario: le novità in materia di assistenza sanitaria, vita detentiva e lavoro penitenziario, in www.penalecontemporaneo.it, 7 novembre 2018; F. Fiorentin, La riforma penitenziaria, Milano, 2018, 21; R.M. Geraci, Detenzione e tutela del diritto alla salute, in Proc. pen. e giustizia, 4, 2019, 1013, la quale sottolinea come “La mancata attuazione del criterio di delega relativo all’assistenza psichiatrica può, cioè, essere intesa come una consapevole scelta legislativa di non potenziare tale tipo di supporto terapeutico [omissis], ma non può, comunque, comportare un arretramento rispetto al livello di tutela già acquisito in base alla disciplina previgente, pena la vanificazione dello stesso significato dell’intervento riformatore”.
11 Corte cost. 20 febbraio 2019 (dep. 19 aprile 2019), n. 99, ove quasi a stigmatizzare l’inerzia del legislatore si sottolinea che, se è vero che la tutela della salute mentale dei detenuti richiede interventi complessi e integrati, che muovono anzitutto da un potenziamento delle strutture sanitarie in carcere, è vero altresì che occorre che l’ordinamento preveda anche percorsi terapeutici esterni, almeno in caso di accertata incompatibilità con l’ambiente carcerario. Per questi casi gravi, l’ordinamento deve prevedere misure alternative alla detenzione carceraria, che il giudice possa disporre caso per caso, momento per momento, modulando il percorso penitenziario tenendo conto e della tutela della salute dei malati psichici e della pericolosità del condannato, di modo che non siano sacrificate le esigenze di sicurezza collettiva. In dottrina M. Pelissero, Infermità psichica sopravvenuta: un fondamentale intervento della Corte costituzionale a fronte del silenzio del legislatore, in Dir. pen. e proc., 9, 2019, 1261 ss.
12 Cass., SS.UU., 21 dicembre 2017, n. 3775, in CED, n. 271648, secondo cui avverso l’ordinanza del magistrato di sorveglianza che accolga l’istanza del detenuto volta ad ottenere il risarcimento dei danni patiti per le condizioni della detenzione, l’amministrazione penitenziaria è legittimata a proporre reclamo, ai sensi dell’art. 35 bis, comma 4, ord. penit., senza il patrocinio e l’assistenza dell’Avvocatura dello Stato.
13 C. Fiorio, Carcere: la riforma dimezzata, in Proc. pen. e giustizia, 3, 2019, 752.
14 M. Ruaro, Riforma dell’ordinamento penitenziario: le principali novità dei decreti attuativi in materia di semplificazione dei procedimenti e di competenze degli uffici locali di esecuzione esterna e della polizia penitenziaria, in www.penalecontemporaneo.it, 9 novembre 2018, 9.
15 P. Di Luzio, Effetti della l. 9 gennaio 2019, n. 3 sull’esecuzione penale e sul trattamento penitenziario, in Proc. pen. e giustizia, 2019, n. 4, 988 ss.
16 Corte cost. 25 settembre 2018 (dep. 5 dicembre 2018), n. 222.
17 M. Ruaro, Riforma dell’ordinamento penitenziario: le principali novità dei decreti attuativi in materia di semplificazione dei procedimenti e di competenze degli uffici locali di esecuzione esterna e della polizia penitenziaria, in www.penalecontemporaneo.it, 9 novembre 2018, 10.
18 C. Fiorio, Carcere: la riforma dimezzata, in Proc. pen. e giustizia, 3, 2019, 754; F. Fiore nontin, La riforma penitenziaria, Milano, 2018, 65.
19 P. Scotto Di Luzio, Effetti della l. 9 gennaio 2019, n. 3 sull’esecuzione penale e sul trattamento penitenziario, in Proc. pen. e giustizia, 4, 2019, 983-984. Cfr. anche V. Manes, L’estensione dell’art. 4-bis ord. pen. ai delitti contro la P.A.: profili di illegittimità costituzionale, in www.penalecontemporaneo.it, 14 febbraio 2019, il quale ribadisce che “Prosegue così la resistibile ascesa dell’art. 4-bis, il cui aspro regime derogatorio – più volte censurato dalla Corte costituzionale – include ormai costellazioni di reati le più disparate – secondo uno sviluppo incalzato da istanze emotive di allarme sociale e ormai privo di ogni coerenza criminologica – e minaccia di trasformarsi da eccezione in regola, a dispetto dei moniti autorevoli – trasfusi in un lungimirante progetto di riforma inopinatamente abbandonato – che ne hanno evidenziato i limiti, suggerendone una riduzione dell’orbita applicativa”.
20 L’art. 5, D.L. n. 29 del 2020 prevede, tra l’altro, che le disposizioni di cui all’art. 2 del medesimo provvedimento si applicano ai provvedimenti di ammissione alla detenzione domiciliare o di differimento della pena adottati successivamente al 23 febbraio 2020. Per i provvedimenti già emessi alla data di entrata in vigore del decreto il termine di quindici giorni decorre dalla data di entrata in vigore del decreto.
21 Il Tribunale di sorveglianza di Spoleto con ordinanza del 26 maggio 2020 ha sollevato la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni in commento in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost.