LA GLOBALIZZAZIONE AMBIENTALE E LE ESTERNALITÀ AMBIENTALI E GIURIDICHE
Sergio Benedetto Sabetta
Accanto alla globalizzazione economica e sociale vi è una globalizzazione ambientale in atto non molto evidente, se non per i naturalisti, con l’invasione di specie aliene a danno delle specie autoctone.
Viene, quindi, a perdersi la differenziazione naturale, eterogeneità, una delle prime barriere alle pandemie, una omologazione del pianeta risultato ultimo di scambi economici ed umani sempre più veloci e inquinanti, difficilmente filtrabili secondo l’attuale modello, con un massa di popolazione a livello mondiale in forte espansione ( D. Quammen, Spillover, Adelphi, 2014).
“Oggi più del 40% delle specie di invertebrati, in particolare api e farfalle, rischiano di scomparire. Cambiamenti climatici, eccessiva organizzazione, utilizzo di pesticidi e diminuzioni dei prati per fare spazio alle monoculture stanno mettendo in pericolo questi piccoli animali, essenziali per i servizi eco sistemici che rendono possibili” (A. Lecce , A. A. A. Cercasi casa per le api, 26, 27 Panda Magazine, 3/10/2020).
Nella nostra società industriale vi sono innumerevoli casi di esternalità ambientali, quella più evidente è data dalla mobilità di merci e esseri umani, accresciuta in modo esponenziale negli ultimi decenni in termini fortemente invasivi sia nei cieli, nei mari che nella terra, secondo modelli economici “usa e getta” altamente inquinanti.
Volendo quantificare possiamo affermare che il settore dei trasporti pesa per circa 1/3 sui consumi globali di energia, la quale proviene per la quasi sua totalità da combustibili fossili.
Dai dati del 2017 in Italia ci sono 842 veicoli di cui 635 autovetture per 1.000 abitanti, con una saturazione materiale del mercato e della viabilità.
L’area padana con il 39% della popolazione nazionale consuma 42% di idrocarburi per autotrazione, in Italia le merci movimentate per ferrovia sono solo il 6%, eppure è stato sempre incentivato il trasporto per strada, questo nonostante le problematiche evidenziate dalla rete stradale, per circa 15 miliardi di euro l’anno mediante agevolazioni sull’acquisto di carburanti e altro.
Mondo fisico e mondo economico-finanziario tendono a configgere, in cui la crescita esponenziale della popolazione con il modello economico adottato impatta sull’ambiente in termini devastanti, essendo la crescita tecnologica surclassata dalla crescita della popolazione e dai modelli imposti.
Dobbiamo considerare che nell’euforia della vittoria vi può essere la premessa per la sconfitta, così anche per i modelli economici e sociali vincenti, dove gli “effetti collaterali” dei costi crescono più in fretta della ricchezza, mentre si passa inavvertitamente dal vivere in una bolla ad un’altra, sempre più lontano dal mondo naturale (A. Tartaglia, Mobilità e qualità della vita, 23-24, Italia Nostra, 505/2019).
Crescono parallelamente le tensioni e le occasioni per conflitti locali, premesse per più estese tensioni e guerre.
L’efficienza allocativa o paretiana si riferisce tanto alla massimizzazione dell’out prodotto in rapporto agli input produttivi, efficienza tecnica, quanto alla distribuzione dei beni prodotti in modo tale da massimizzare il benessere dei consumatori, il sistema dei prezzi è il mezzo attraverso il quale in un mercato concorrenziale perfetto si arriva all’efficienza paretiana desiderata, sia i consumatori che i produttori valutano il beneficio marginale che ottengono comparando costo marginale di acquisto o produzione unitaria con il prezzo del bene fino a individuare l’ottimo dell’intersezione tra le curve di domanda e offerta.
Tuttavia affinché il mercato dei beni sia efficiente questi devono avere le caratteristiche di divisibilità o appropriabilità, escludibilità, rivalità nel consumo e assenza di effetti esterni, in loro assenza si parla di “fallimento del mercato”, esistono tuttavia beni inappropriabili in cui i costi e benefici non ricadono interamente sul proprietario, gli economisti parlano di una definizione imperfetta del diritto di proprietà su una risorsa come dell’impossibilità di eliminare eventuali effetti esterni.
Caratteristiche delle esternalità sono l’esistenza di interdipendenza fra più attività che originano costi e benefici aggiuntivi che non si riflettono sui prezzi di mercato, si ha in tal modo una modifica della funzione di utilità o produzione di alcuni soggetti ad opera dell’attività di altri soggetti.
Si distinguono esternalità pecuniarie ed esternalità tecnologiche, solo queste ultime possono definirsi esternalità in senso stretto essendo le prime pseudo-esternalità che non causano effetti negativi nell’efficienza economica, in quanto il cambiamento dei prezzi permette un cambiamento nei comportamenti quale risposta degli operatori economici, nella prima ipotesi, al contrario non vi sarà una relazione diretta sui prezzi .
Dobbiamo tuttavia considerare le esternalità come positive o negative nei loro effetti esterni a seconda se vi sia un beneficio, per terzi, economia esterna, o un danno, diseconomia esterna, vi è inoltre da considerare sia la unidimensionalità o reciprocità delle esternalità che la dimensione temporale delle stesse.
In presenza di esternalità negative si possono effettuare le seguenti osservazioni:
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Il bene che genera una esternalità negativa risulta prodotto in quantità eccessiva rispetto a quella efficiente;
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I prezzi dei beni che nel produrli generano inquinamento risultano essere troppo bassi;
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Finché i costi esterni di produzione non vengono sostenuti da coloro che li producono non vi è alcun incentivo alla loro riduzione;
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Anche in corrispondenza di una allocazione di mercato efficiente resta comunque una percentuale di costi esterni;
questo conduce alla necessità di un compromesso tra il valore della produzione industriale e il danno marginale che questa comporta, compreso l’inquinamento, relativamente al quale deve perseguirsi un equilibrio efficiente per cui vi deve essere una eguaglianza tra il beneficio marginale sociale derivante dalla riduzione dell’inquinamento e il suo costo marginale sociale (livello di inquinamento socialmente efficiente).
Il superamento della problematicità dei costi esterni è da Coase individuato nell’assegnazione dei diritti di proprietà ad una delle parti coinvolte in presenza di una informazione completa dei soggetti economici coinvolti e dell’assenza di costi di transazione, se da un punto di vista dell’ottimo paretiano di un equilibrio allocativo è insufficiente la distribuzione dei diritti non lo è altrettanto da un punto di vista distributivo, essendo evidente l’utile derivante dalle forme di compensazione.
Tuttavia il Teorema di Coase è inficiato sia dalla difficoltà di una perfetta informazione tra le parti interessate sia nella individuazione e coinvolgimento di tutte le parti coinvolte, tra l’altro con i conseguenti alti costi di transazione.
Nasce da qui la necessità di un intervento pubblico che può indirizzarsi sia verso una regolamentazione diretta che sulle soluzioni basate sui meccanismi di mercato.
La forma più semplice di regolamentazione si basa su standard uniformi relativi alle performance quale risultato finale dell’azione, un modello più articolato riguarda invece i fattori produttivi ossia standard, procedure e input produttivi, vi è in quest’ultima ipotesi un controllo facilitato rispetto al solo risultato finale.
Comunque in entrambi i casi vi è una eccessiva uniformità che impedisce alle imprese una distinzione sui costi marginali che permetta di incentivarle al perseguimento di una maggiore efficienza nel ridurre i costi esterni, risultano pertanto più efficienti i meccanismi di mercato fondati su sussidi, permessi negoziabili e multe o imposte.
Quando una imposta rende uguali il costo marginale sociale con il costo marginale privato si ha una “imposta pigouviana”, nella realtà risulta difficile calibrare una tale imposta, si preferisce pertanto il ricorso ai sussidi.
Questi tuttavia presentano l’inconveniente della necessità di un finanziamento che non può avvenire se non con un indebitamento o l’introduzione di altre imposte, circostanza che può condurre a ulteriori distorsioni nell’equilibrio finanziario ed economico.
solo nell’ipotesi di esternalità positive i sussidi acquistano una propria valenza utile, non resta che il ricorso alla concessione di agevolazioni fiscali a favore di quelle imprese o soggetti che riducano le esternalità dei costi per unità prodotta.
L’esternalità dei costi tuttavia non può essere azzerata, nel suo permanere non resta che perseguire un equilibrio efficiente in funzione del rinnovarsi della tecnologia.
Nel caso di inquinamento si può ricorrere al sistema sempre più diffuso dei permessi di inquinamento negoziabili, creando un mercato entro cui gli stessi soggetti interessati provvedono a ricercare attraverso lo scambio dei diritti l’ottimo nell’equilibrio efficiente superando il problema per l’autorità regolativa dell’asimmetria informativa, naturalmente questo comporta la necessità di organizzare un mercato i cui costi possono essere inizialmente alti.
Altro problema è l’assegnazione iniziale dei certificati che potrebbe premiare i soggetti dalle più alte esternalità, per evitare una tale evidente violazione del principio di equità è stata avanzata la proposta di collegare l’assegnazione iniziale dei permessi ai livelli di produzione delle imprese.
L’amministrazione della giustizia può farsi rientrare tra i beni pubblici puri caratterizzati dalla non rivalità nel consumo e dalla non escludibilità dai benefici, si ritiene che queste caratteristiche inducano nel mercato ad una forma di inefficienza del mercato dovuta all’impossibilità di imporre un prezzo pari al costo marginale associato al consumo.
La non escludibilità pone il problema del free-riding e della conseguente impossibilità di una collocazione Pareto – efficiente delle risorse disponibili, non resta pertanto che il ricorso ad una fiscalità obbligatoria senza che questo peraltro impedisca una valutazione sull’efficienza e l’efficacia nell’impiego delle risorse.
D’altronde anche nel caso dell’amministrazione della giustizia vi è una esternalità dei costi della decisione sia in ragione positiva che negativa nei primi due gradi, dobbiamo considerare che i costi sociali non sono mai inclusi nei calcoli individuali come avviene nell’ipotesi delle risorse comune caratterizzate dal fenomeno noto come “tragedia dei beni comuni” o “tragedy of the commons”.
Sebbene l’U.E. non contemplasse la tutela ambientale tra i suoi obiettivi iniziali degli anni ’80 si è reso necessario, in presenza di un crescente inquinamento, l’inserimento tra gli obiettivi primari, questo è avvenuto facendo leva sullo strumento dei poteri impliciti e del principio di sussidiarietà (art. 2 del trattato) a cui si è affiancata la necessità del riavvicinamento delle legislazioni statali coi cosiddetti poteri impliciti.
Una scelta consolidata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenza 7/2/1985, C. 240/83 e sentenza 20/8/1988, C. 302/86) che definisce la tutela ambientale “uno degli scopi essenziali della Comunità” ed anche “esigenza imperativa” che viene a giustificare una limitazione al principio della libera circolazione di merci.
Fino ai primi anni del 2000 la politica di tutela è stata frazionata fra le altre politiche settoriali con conseguenze differenti fra i vari settori, l’intervento della Commissione, del Consiglio dei Ministri e del Parlamento hanno permesso di compensare le diverse posizioni ed interessi fra le varie nazioni partendo dai Programmi di Azione per l’Ambiente (EAPs) elaborato inizialmente dalla Commissione, ma è solo nel 1987 che le competenze ambientali vengono inserite nel Trattato di Roma con il nuovo Titolo VII dedicato all’Ambiente e successivamente rafforzate nel 1992 con il Trattato di Maastrich (art. 130 R, c. 1 ).
Tra i compiti comunitari viene inoltre inserito nel Preambolo “la crescita sostenibile e non inflazionistica e che rispetti l’ambiente “ (art.2), aggiungendo i principi di precauzione e della maggioranza qualificata per le decisioni in campo ambientale, fino a diventare con il Trattato di Amsterdam del 1997 uno degli obiettivi fondamentali dell’Unione (art. 3), gli ulteriori trattati non hanno fatto altro che rafforzare l’indirizzo (Nizza 2000, Goteborg 2001, Lisbona 2009).
Partendo dal principio “chi inquina paga” sono stati elaborati sia strumenti legislativi che economici basati su strumenti orizzontali statistici, tecnologici, di formazione e informazione accanto a meccanismi di sostegno finanziario.
Anche gli strumenti volontari come gli accordi sono stati incoraggiati dalla Comunità sebbene possibili di contrasto con gli artt. 85 e 86 del Trattato nell’ipotesi di limitazione o distorsioni nel libero commercio, in ambito nazionale la Corte di Cassazione, Sez. III, nel 1993 ha riconosciuto far parte dell’ordinamento interno il principio della preservazione; il principio “chi inquina paga” e il principio della possibilità di una protezione giuridica ambientale uguale o più rigorosa di quella comunitaria.
Allo stato attuale non vi è ancora in ambito internazionale una chiara definizione giuridica dello sviluppo sostenibile, alcuni lo ritengono un principio etico altri un semplice “meta – principio”, si preferisce quindi fare riferimento al principio di equità inteso quale accesso alle risorse naturali e all’assunzione di responsabilità comuni ma differenziate tra gli Stati.
La Convenzione quadro sui Cambiamenti Climatici del 1988 contempla un doppio regime giuridico uno per i paesi sviluppati ed apparentati ed un altro per tutti gli altri paesi, si hanno pertanto responsabilità comuni ma differenziate e i paesi industrializzati devono assumere un ruolo di leadership nella lotta alle emissioni ambientali, analogamente avviene per la biodiversità e la lotta alla desertificazione.
Sebbene nel 1992 a Rio de Janeiro nel documento programmatico finale si parla di un ruolo decisivo assegnato alle comunità locali nell’attuazione delle politiche di sviluppo sostenibile al fine della costruzione del consenso, vi è stato un deficit di attuazione tanto sull’aspetto formale che sostanziale.
Si è parlato di una progressiva riduzione delle risorse finanziarie disponibili, nonché delle difficoltà di coinvolgere i principali soggetti interessati, statali o privati che siano, il conflitto tra Comunità europea, Stati Uniti e Paesi in via di sviluppo hanno evidenziato i limiti degli accordi, in cui i secondi e i terzi interessati esclusivamente a specifici progetti tengono in conto unicamente il problema economico a scapito di quello ambientale, considerato come un problema di là da venire, non urgente per il benessere immediato della propria popolazione coinvolta in necessità urgenti di lavoro , reddito e povertà.
Anche l’introduzione di un doppio regime giuridico, in base al principio della responsabilità comune ma differenziata, non ha convinto parte dei Paesi interessati ad abbandonare l’attuale trend del “business as usual”, questo sebbene sia stato adottato nel 1997 il Protocollo di Kyoto sia dai Paesi industrializzati che dai Paesi con economia in transazione, tanto che gli Stati Uniti non hanno ratificato il Protocollo sebbene siano il maggiore paese emittente di CO2 al 1990 (36,1%).
Anche il regime di “non compliance” è rimasto inattuato come in parte sia i meccanismi flessibili finanziari che le politiche e le misure da attuarsi direttamente dagli Stati al loro interno, tanto che già la Confindustria a seguito della Conferenza di Copenhagen si lamentava dell’obiettivo vincolante e unilaterale della riduzione delle emissioni del
-20% per la sola Comunità europea, circostanza che metteva in difficoltà le industrie dei Paesi europei verso le altre imprese straniere.
L’esternalizzazione dei costi ambientali a causa della natura global commons degli stessi impone un approccio sovranazionale che contemperi quello amministrativo, basato prevalentemente su divieti e ordini, con quello economico, che agisce mediante incentivi e disincentivi.
Da un modello unico regolamentativo fondato su standard predefiniti la cui violazione comporta sanzioni si è passati negli ultimi decenni ad una integrazione tra interessi ambientali ed interessi economici, cercando di trasformare la tutela ambientale da un costo economico ad un fattore generante ricchezza, il modello fondato sugli interventi di mercato può essere impostato come un sistema a tassazione oppure come diritti trasferibili di inquinamento.
I trattati ambientali il più delle volte si limitano ad imporre degli obblighi di cooperazione, dando agli Stati ampia discrezionalità sui mezzi e le forme per raggiungere gli obiettivi previsti, si creano dei regimi giuridici ad incastro a partire dal Trattato quadro sottoposti a periodiche revisioni mediante dei processi di emendamento semplificati, a questi si affiancano le norme consuetudinarie internazionali.
A partire dagli anni ’70 del Novecento si è introdotta l’espressione “soft low” intendendo con essa la mancanza di sanzioni a seguito di una adesione volontaria, nel contrasto con il classico sistema giuridico rigido dell’hard low emerge la necessità di lasciare spazio ad una alta flessibilità per evitare futuri probabili scontri interpretativi e conseguenti inadempimenti, che tra l’altro impedirebbe o comunque scoraggerebbe l’allargamento dei trattati, si ha quindi l’assenza di obblighi giuridici e conseguenti responsabilità per lo Stato, l’assenza del ricorso a tribunali internazionali e la non trasposizione nel diritto interno degli Stati aderenti.
L’applicazione degli accordi non può risiedere in caso di controversie su sistemi sanzionatori ma su un “compliance systems” che comprende misure non contenziose a partire dalle motivazioni che possono essere di mancanza di volontà (lock of will) o più semplicemente per mancanza di risorse (lock o resources), in questa ultima ipotesi si procede con assistenza finanziaria.
Gli strumenti facilitativi tendono a persuadere le Parti ad ottemperare a quanto previsto nei Trattati multilaterali, questi di fatto possono essere “imposti” in termini soft solo nell’ipotesi di un accordo fra le “super-potenze economiche”, in cui vi sia un’integrazione tra le politiche di crescita economica e quelle di protezione ambientale.
I problemi riscontrati a partire dall’attuale crisi economica del 2007, con i conseguenti parziali fallimenti che si sono succeduti da Copenhagen (2009) in poi è anche dovuto al cambiamento degli equilibri globali a seguito della crescita delle economie emergenti, dei problemi di austerità per le economie avanzate dell’Europa e degli Statti Uniti.
L’aumento dell’interdipendenza a livello globale non ha favorito la capacità di cooperazione globale, prevalendo le preoccupazioni interne per la crisi economica ritenuta più urgente al fine del benessere della popolazione e quindi politicamente più premiante.
Alla riaffermazione della necessità del raggiungimento degli accordi non sono seguiti risultati significati già a partire dalla successiva Conferenza di Doha, dove oltre l’80% dei Paesi intervenuti hanno rifiutato di firmare il prolungamento di Kyoto dal 2013 al 2020, sebbene tutti abbiano concordato sulla necessità di un impegno universale, infatti secondo la Teoria dei Giochi la “non cooperazione” è la strategia dominante in presenza di free riding e della mancanza di un’autorità mondiale in grado di infliggere sanzioni.
Tuttavia anche se del tutto utopistica la possibilità di una sanzione autoritativa questa può risiedere anche nella mancata cooperazione da parte degli altri Stati nei successivi accordi e dalle pressioni internazionali dell’opinione pubblica ambientalista, ossia da una maturazione culturale dovuta anche alla crescente pressione dei fattori climatici e ambientali che inducano alla rinuncia di benefici immediati a favore di benefici futuri più alti.
Il superamento delle resistenza nell’attuare le politiche ambientali, riducendo le esternalità dei cicli produttivi e di consumo, può essere senz’altro facilitato dallo sviluppo del green jobs che venga progressivamente a sostituire i settori più inquinanti in modo da rendere complementari e sinergici i tre pilastri dello sviluppo sociale, economico e ambientale (Conferenza di Rio + 20 del 2012).
L’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA) nell’elaborare i dati al periodo 2000-2011 osserva che il settore è cresciuto in Europa di più del 50% generando oltre 1,3 milioni di posti (2015), particolarmente rilevante è stata la crescita in Italia tanto che il Green Economy Index per l’U.E., incrociando 20 indicatori quantitativi di performance, pone l’Italia al terzo posto dietro Austria e Svezia su 28 Paesi dell’U.E., un terzo posto che si appoggia prevalentemente sul numero delle organizzazioni certificate ISO 14001(413,2 ogni milione di abitanti), sull’efficienza energetica (rapporto tra consumi energetici e PIL pari a 117,2 grammi di petrolio per ogni euro di PIL), sulla spesa per la protezione ambientale (0,88% del PIL contro lo 0,68% dell’U.E.), dalla superficie coltivata biologicamente (10,29% contro il 5,70% dell’U.E.) e dall’intensità dell’uso del carbone.
Secondo i dati dell’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA) già nel 2013 la quota di energie rinnovabili aveva raggiunto il 15% attestandosi per l’Italia al 21,61%, anche a seguito della progressiva riduzione del gap con le fonti fossili.
La prospettiva di un’ulteriore forte crescita è tuttavia frenata dalla recente crisi economica-ambientale, anche se si spera sulla spinta normativa e dei trattati internazionali, nonché sugli incentivi economici, vi è comunque in atto una forte resistenza dovuta alle problematicità di un trasferimento occupazionale dai vecchi settori ai nuovi e dalla difficoltà dell’inserimento delle lobby legate alle fonti fossili nel business delle nuove fonti rinnovabili.
Anche i costi iniziali delle trasformazioni che vengono a gravare sugli utenti ultimi costituiscono motivo di freno, d’altronde vi è una difficoltà nelle metodologie di misurazione economica dei benefici connessi alle politiche sulle energie rinnovabili, circostanza che induce a scetticismi concentrandosi esclusivamente su occupazione e PIL.