Nota a sentenza: Corte Europea dei diritti dell’Uomo Sez.1^ del 24/01/2019 (ricorsi nn. 54414/13 e 54264/15). Prof. Avv. PAOLO GENTILUCCI
Arcelor Mittal (ex Ilva)
SIDERURGICO IN EMERGENZA e Coronavirus.
Prof. Avv. Paolo Gentilucci
Con sentenza del 24 gennaio 2019 la prima sezione della Corte Europea dei diritti dell’Uomo (ricorsi nn. 54414/13 e 54264/15) ha deciso in ordine al ricorso di centottanta cittadini di Taranto che avevano lamentato la violazione dei propri diritti fondamentali derivante dagli effetti delle emissioni dello stabilimento siderurgico Arcelor Mittal (ex Ilva) sulla salute e sull’ambiente.
Lo stabilimento di Taranto, il più grande d’Europa, determina un impatto sull’ambiente e sulla salute dei cittadini di Taranto, in particolare del quartiere Tamburi e di altri comuni limitrofi, oggetto di numerosi studi scientifici, che hanno riscontrato un elevato tasso di mortalità per tumori. La stessa ARPA, a seguito di approfonditi accertamenti, nel 2016 aveva segnalato che il livello di diossine nel citato quartiere Tamburi era superiore a quello autorizzato. Nel successivo rapporto del 2017, basato sul neo istituito registro dei tumori di Taranto, veniva sottolineato il perdurare della situazione di criticità sanitaria, zona di Taranto, accertando il nesso di causalità tra il pregiudizio sanitario e le emissioni industriali.
La legge della Regione Puglia n.44/2008 aveva fissato per la prima volta i limiti entro i quali l’emissione di diossine era autorizzata nell’ambito di attività industriali; tuttavia i tagli alle emissioni venivano prorogati da successivi provvedimenti legislativi.
Nel frattempo, l’ARPA registrava la contaminazione di alcuni lotti di carne animale introdotto nella catena alimentare umana, con il divieto di pascolo e l’abbattimento di numerosi capi di bestiame in un raggio di venti km dallo stabilimento.
Nel 2011 il Ministero dell’Ambiente concedeva all’ex Ilva una prima Autorizzazione Ambientale Integrata (AIA), fissando alcune condizioni per il controllo dell’inquinamento, poi modificate con una seconda autorizzazione che prevedeva l’obbligo di inviare un rapporto trimestrale relativo all’applicazione delle misure necessarie per il miglioramento dell’impatto ambientale.
Parallelamente venivano instaurati numerosi procedimenti penali nei confronti degli amministratori e dirigenti dell’ex Ilva, ai quali venivano contestate, tra le altre, le condotte di “catastrofe ecologica”, avvelenamento di sostanze alimentari, omessa prevenzione di incidenti sul luogo di lavoro, danneggiamento di beni pubblici, emissione di sostanze inquinanti, “inquinamento atmosferico” e, soprattutto “disastro ambientale”, per il quale è in corso il procedimento definito “ambiente svenduto”, nel quale sono imputati, tra gli altri, il Presidente della Regione Puglia, il Dirigente dell’ARPA ed un Assessore provinciale pro tempore.
Nel 2012 il GIP di Taranto, sulla base delle consulenze tecniche di esperti chimici ed epidemiologici, disponeva il sequestro, senza facoltà d’uso, di parchi minerari, cokerie, area agglomerazione, area altiforni, acciaierie e materiali ferrosi.
Ne seguiva una normativa d’urgenza consentiva la prosecuzione dell’attività fino ai giorni nostri con l’emissione di quattordici decreti legge, con decisioni altalenanti della Corte Costituzionale.
A livello europeo, con sentenza del 31 marzo 2011, la Corte di Giustizia Europea accertava che le autorità italiane erano venute meno agli obblighi derivanti da un direttiva del 2008/1/CE sulla prevenzione e la riduzione dell’inquinamento, sottolineando che l’Italia aveva omesso di adottare le misure necessarie affinché le autorità competenti potessero vigilare sul rispetto del sistema di autorizzazioni previsto nella menzionata direttiva. Constatando le medesime infrazioni alla normativa europea, in particolare di quella 2010/75/UE, nel 2014 la Commissione UE emanava un motivato avviso richiedendo allo Stato italiano di rimediare ai gravi problemi di inquinamento rilevati nella zona dello stabilimento.
Il procedimento dinanzi alla Corte EDU. Con il ricorso in esame, i ricorrenti hanno invocato l’applicazione degli artt. 2 e 8 della Convenzione sostenendo che lo Stato italiano non aveva adottato le misure giuridiche e regolamentari idonee a proteggere la loro salute e l’ambiente in cui vivevano, e di avere omesso le informazioni sull’inquinamento e sui rischi della salute ad esso connessi. La Corte ha esaminato il gravame unicamente sotto il profilo dell’art. 8 che tutela il rispetto della vita privata.
Veniva, altresì, eccepita la violazione dell’art. 13 della Convenzione, in quanto i ricorrenti ritenevano di essere stati lesi nel loro diritto all’accesso ad un rimedio effettivo di giustizia a fronte delle azioni delle autorità nazionali, potenzialmente illegittime.
Il governo italiano sollevava delle eccezioni preliminari, contestando in primo luogo la qualificazione dei ricorrenti quali “vittime”, avuto riguardo del carattere generale delle loro doglianze e della mancata precisazione del danno asseritamente subito.
I giudici di Strasburgo dichiaravano che vi erano elementi per sostenere che l’inquinamento nella zona interessata aveva reso inevitabilmente le persone ad esso esposto più vulnerabili a numerose malattie e richiamavano, in punto di nesso causale tra l’attività dell’ex Ilva e la compromissione della situazione sanitaria, i risultati degli studi scientifici sopra menzionati.
In secondo luogo, il Governo italiano eccepiva il mancato esperimento dei rimedi giurisdizionali interni, dal momento che erano ancora pendenti in Italia due procedimenti penali interni nei confronti dei dirigenti ex Ilva, nell’ambito dei quali i ricorrenti avrebbero potuto costituirsi parte civile. Suggeriva, inoltre, che essi avrebbero avuto la possibilità di azionare diversi rimedi in sede civilistica, come ad esempio, il ricorso ex art. 700 c.p.c. o la class action ex lege n.15/2009.
A questa eccezione, i ricorrenti replicavano che lo scopo da essi perseguito non consisteva nell’ottenimento di un ristoro patrimoniale, bensì nella denuncia della mancata adozione da parte dello Stato delle misure amministrative e legislative volte a proteggere la loro salute e l’ambiente.
La Corte, rilevando che le doglianze dei ricorrenti concernevano l’assenza di misure volte ad assicurare il risanamento della zona interessata, affermava che tale obiettivo era stato perseguito per molti anni dallo Stato italiano, senza alcun risultato apprezzabile. Riteneva, inoltre, che nessun procedimento interno di natura penale, civile o amministrativo avrebbe potuto raggiungere lo scopo prefissato nel caso in esame e rigettava le eccezioni del Governo.
Nel premettere che lo Stato ha l’obbligo di disciplinare dettagliatamente le attività pericolose, la Corte precisava che essa era tenuta a verificare se le autorità nazionali abbiano affrontato la questione con il giusto livello di diligenza.
Di conseguenza, alla luce degli studi scientifici non contestati dalle parti e della procedura di infrazione intrapresa dagli organi dell’UE, la Corte ha accertato la sussistenza di una situazione di inquinamento ambientale atta a mettere in pericolo la salute dei ricorrenti e, più in generale, di quella della popolazione residente nella zona.
La Corte, ritenendo di non dover applicare nella fattispecie la procedura della “sentenza pilota” (adozione di misure legislative amministrative necessarie per far cessare le attività che sono alle origini delle violazioni ed eliminare le conseguenze derivanti da quest’ultime), ha assegnato al Comitato dei Ministri il compito di indicare al Governo italiano le misure che in termini pratici, devono essere adottate per l’esecuzione della sentenza.
Nessuna somma è stata accordata a titolo di equa soddisfazione ai ricorrenti affetti da patologie connesse all’attività inquinante, né a coloro che a causa delle stesse hanno perso dei congiunti.
La mancanza di un accordo tra lo Stato italiano e i cittadini di Taranto. La citata sentenza del 24 gennaio 2019 è divenuta definitiva il 24 giugno 2019, ma in mancanza di un accordo tra lo Stato italiano ed i cittadini di Taranto, la Corte ha fissato il termine del 20 aprile 2020 entro il quale il Governo dovrà presentare le proprie osservazioni di replica, unitamente alla descrizione dei fatti in causa.
L’emergenza coronavirus. Il “coronavirus”, meglio definito come “Covid – 19”, dichiarato ormai pandemia dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha interessato tutti gli aspetti della nostra vita e anche quello del funzionamento dei servizi essenziali.
A disciplinare la materia nella fase di emergenza epidemiologica sono intervenuti di recente, a seguito dei decreti legge n. 6/2020, n.11/2020 e dei DD.PP.CC.MM. in data 8, 9, 11 marzo 2020, anche il decreto legge del 17 marzo 2020, n.18, pubblicato nella G.U. n. 70 del 18 marzo 2020, per contenere e regolare gli effetti in tutti i settori.
Successivamente, è stato emesso il D.P.C.M. in data 22 marzo 2020, pubblicato nella G.U. n.76 in pari data, che ha fornito ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n.6, ed ha impartito disposizioni innovative in ordine ai poteri del Prefetto, ampliandoli in maniera significativa.
Da ultimo, nel tentativo di dare una veste costituzionale ai precedenti provvedimenti normativi, è intervenuto il decreto legge 25 marzo 2020, n.19, pubblicato in pari data nella G.U. n.79, che, ai sensi dell’art. 2, comma 3, ha fatti salvi gli effetti prodotti e gli atti adottati sulla base dei decreti e delle ordinanze emanate ai sensi del decreto legge n. 6/2020 ovvero ai sensi dell’art. 32 della legge n.833/1978.
Già i DD.PP.CC.MM. 8, 9, 11, e 22 marzo 2020 incaricavano i Prefetti territorialmente competenti, che potevano avvalersi delle forze di polizia, dei vigili del fuoco e delle forze armate, di garantire il rispetto dei limiti e delle regole ivi previste, normativa che avrebbe dovuto applicarsi anche in materia di pubblica amministrazione e di giustizia.
Altra norma di assoluto rilievo, per i poteri, attribuiti al Prefetto, è quella prevista dal comma d), art. 1, del predetto D.P.C.M. del 22 marzo 2020 il quale dispone che “restano sempre consentite anche le attività che sono funzionali ad assicurare la continuità delle filiere delle attività di cui all’allegato 1, nonché dei servizi di pubblica utilità e dei servizi essenziali di cui alla lettera e), previa comunicazione al Prefetto della provincia ove è ubicata l’attività produttiva, nella quale sono indicate specificamente le imprese e le amministrazioni beneficiarie dei prodotti e servizi attinenti alle attività consentite; il Prefetto può sospendere le predette attività qualora ritenga che non sussistono le condizioni di cui al periodo precedente. Fino all’adozione dei provvedimenti di sospensione dell’attività, essa è legittimamente esercitata sulla base della comunicazione resa”. Prosegue il comma e) disponendo che “sono comunque consentite le attività che erogano servizi di pubblica utilità, nonché servizi essenziali di cui alla legge 12 giugno 1990, n. 146…”.
La prima difficoltà, per il Prefetto, è quella di individuare le attività funzionali ad assicurare le filiere delle attività di cui all’allegato 1. Infatti, oltre all’istituzione di un gruppo di lavoro interno incardinato nell’ufficio di gabinetto e con la collaborazione dell’area di protezione civile, ove non ancora istituito, nonostante le gravissime carenze degli organici in cui versano quasi tutte le prefetture, si suggerisce la costituzione di un gruppo tecnico con la partecipazione di altri enti quali, a titolo meramente esemplificativo, il Questore, il Comandante Provinciale dei Carabinieri, il Comandante Provinciale della Guardia di Finanza, per i risvolti di ordine e sicurezza pubblica, il comandante provinciale dei vigili del fuoco, lo SPESAL, la locale Camera di Commercio, gli uffici tecnici provinciali e comunali, la locale Confindustria, le organizzazioni sindacali e tutti gli altri organi tecnici, pubblici e privati, che il Prefetto riterrà di convocare.
Il potere del Prefetto in siffatta materia è esercitato non solo al fine di reprimere condotte aventi i caratteri dell’illecito, ma anche a tutela degli interessi pubblici lesi o messi in pericolo. Il Prefetto è sempre stato, oltre che il rappresentante del governo sul territorio, anche l’espressione dell’indirizzo politico generale. Il ruolo di garante dei canoni di legalità dell’attività amministrativa, nonché di coordinamento e di vigilanza fa del Prefetto, soprattutto in occasione di tale delicata gravissima situazione emergenziale, un’autorità idonea ad assicurare un’imparziale attuazione delle direttive governative.
Per aziende quali, ad esempio, l’ex Ilva di Taranto, si richiama la lettera g) de D.P.C.M. 22 marzo 2020, ove “sono consentite le attività degli impianti a ciclo produttivo continuo, previa comunicazione al Prefetto della provincia ove è ubicata l’attività produttiva, dalla cui interruzione derivi un grave pregiudizio all’impianto o un grave pregiudizio all’impianto stesso o un pericolo di incidenti. In tali ipotesi il Prefetto può sospendere le predette attività qualora ritenga che non sussistono le condizioni di cui al periodo precedente.
A tal proposito il Prefetto di Taranto, con decreto n.172/2020 del 26 marzo 2020, dopo un’ampia disamina della normativa sopracitata ed aver effettuato la necessaria istruttoria, sentito altresì il Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco, i rappresentanti sindacali di categoria, lo Spesal, la Camera di Commercio, i Commissari ed il custode giudiziario dell’ex Ilva, ha deciso di sospendere fino al 3 aprile 2020 l’attività produttiva ai fini commerciali dello stabilimento siderurgico gestito dalla società Arcelor Mittal, mantenendo l’attività dell’impianto per ragioni di sicurezza.
L’incidenza sull’economia nazionale e sulla realtà sociale di Taranto.
La vertenza Ilva sembra ormai “una grossa matassa fumosa della quale non si comprende né il capo né la coda”. Molti sono i soggetti coinvolti nella vicenda a partire dal Governo, la Regione Puglia, il Comune di Taranto, Arcelor Mittal assegnataria dell’Azienda, i sindacati, Confindustria, l’Unione europea con l’Antitrust, la Cassa Depositi e Prestiti e le associazioni ambientaliste, in favore della chiusura totale dell’azienda.
La situazione è, quindi, complessa per la moltitudine dei soggetti coinvolti e dagli interessi da loro manifestati. L’aspetto ambientale, come accertato dalla citata sentenza della CEDU, risulta critico se si va ad analizzare la salute della popolazione tarantina. Ma un altro aspetto critico, contrastante con il precedente, è quello della condizione lavorativa dei dipendenti dell’azienda e, di riflesso, delle loro famiglie. Il caso Ilva ha quindi le caratteristiche di “una inevitabile malattia socio culturale” e ci si chiede se si può difendere un lavoro che uccide.
Potrebbe risultare difficile trovare un collegamento al caso Ilva e ai temi dell’inclusione, cioè di una società basata sul rispetto reciproco e sulla solidarietà e che garantisce pari opportunità e un tenore di vita dignitoso per tutti.
Nella vicenda tarantina, infatti, hanno prevalso negli anni gli interessi soggettivi di alcuni attori istituzionali, sociali ed economici e spesso l’interesse collettivo è stato sottovalutato. In particolare, gli interessi dei lavoratori e della popolazione residente nei pressi dello stabilimento, sono stati poco ascoltati.
Sebbene sin dal 2012 l’impianto di Taranto risulti sequestrato dalla magistratura penale, le opere di bonifica si susseguono lentamente, con interventi parziali e non pianificati, soprattutto sul piano della sicurezza degli operai; inoltre, l’Ilva è sommersa dal problema dei debiti accumulati.
In questo contesto, potrebbero convivere situazioni ed elementi di coesione socio culturali ed ambientali, quali ad esempio, l’uso sapiente della cultura locale, la valorizzazione delle risorse, dei beni culturali e del paesaggio.
Per quanto riguarda il tema del lavoro, a proposito della chiusura degli impianti dell’area caldo, è frequente ascoltare la frase: “meglio morire di tumore che di fame”. Analoga affermazione, tra poco, si ripeterà per l’emergenza derivante dal coronavirus.
Venendo all’esame delle conseguenze sull’economia italiana, un ulteriore vulnus alla crisi aziendale, è stato dato dall’epidemia del citato morbo, che ha determinato una pesante recessione, dalle dimensioni ancora incerte.
All’inizio del mese di marzo 2020, l’OCSE ha pubblicato una valutazione degli impatti del covid-19 sull’economia, con una diffusione a livello pandemico, prevedendo che il Pil mondiale si ridurrà dell’1.5 % rispetto alle previsioni di fine anno 2019. La maggior parte del calo deriverebbe dagli effetti diretti della riduzione della domanda, dell’accresciuta incertezza dalla contrazione del commercio di circa il 3% nel 2020, colpendo le esportazioni in tutte le economia, senza considerare la domanda globale.
Tale analisi è suscettibile di essere rivista al ribasso ed avrà effetti inesorabili anche sull’azienda Arcelor Mittal.
A complicare ulteriormente la vicenda, è in intervenuta l’ordinanza del sindaco di Taranto del 27 febbraio 2020 con la quale è stato intimato alla azienda Arcelor Mittal e ad Ilva in amministrazione straordinaria di risolvere il problema delle emissioni entro trenta giorni. Non avendo i citati soggetti provveduto, in data 29 marzo 2020 il citato amministratore ha disposto la fermata degli impianti dell’area a caldo, nonostante il ricorso al TAR di Lecce presentato in limine dei termini di scadenza.
In conclusione, nonostante le opinioni fortemente contrastanti della popolazione tarantina nella definizione delle complesse problematiche, non potrà non tenersi conto della circostanza che l’azienda eroga servizi essenziali e strategici per l’economia nazionale e che consente la sopravvivenza di circa cinquantamila cittadini, considerate le famiglie dei dipendenti diretti e dell’indotto. Pertanto, non si può sottacere la necessità di prevenire le gravissime situazioni per l’ordine e la sicurezza pubblica che inevitabilmente si verificheranno in caso di chiusura dell’azienda, come sta avvenendo in questi giorni a seguito dei necessari provvedimenti per la prevenzione del diffondersi del contagio da covid-19.