11 minuti

di Giulia Gavagnin. E’ attesa per oggi la decisione della Cassazione sulla vicenda Sallusti, che sta facendo discutere tutti i principali quotidiani italiani. Il direttore de “Il Giornale”, infatti, qualora la sentenza di secondo grado dovesse essere confermata dalla Suprema Corte, verrebbe condannato in via definitiva a quattordici mesi di reclusione per violazione degli articoli 57 e 595 del Codice Penale e art. 13 L. 47/1948. Ad aver colpito l’opinione pubblica non è tanto l’attribuzione di una qualche forma di responsabilità al direttore di un quotidiano, ma la durezza della pena che il giornalista si vedrebbe comminata per non essere nemmeno l’autore dell’articolo. Molti, infatti, riterrebbero sufficiente la previsione normativa della sola responsabilità civile, sì da sanzionare il giornalista e/o il direttore con il pagamento di una salata somma di denaro da versare al soggetto offeso.
La sentenza di appello non è stata resa disponibile on-line, pertanto, le congetture che seguono sono tutte state desunte dai commenti pubblicati sui giornali.
I fatti sono i seguenti: nel febbraio 2007 su Libero uscirono un articolo e un commento in cui si parlava indirettamente – nel senso che non veniva neppure nominato – del giudice tutelare Giuseppe Cocilovo; la vicenda, rivelata da La Stampa e commentata il giorno dopo da molti giornali, riguardava una 13enne che il tribunale di Torino aveva autorizzato ad abortire ma che poi era finita in una clinica psichiatrica per le conseguenze della vicenda. L’articolo di Libero era firmato da Andrea Monticone mentre il commento era firmato dallo pseudonimo «Dreyfus», il quale concludeva scrivendo che «se ci fosse la pena di morte e se mai fosse applicabile in una circostanza, questo sarebbe il caso. Per i genitori, il ginecologo, il giudice» (fonte: http://www.ilpost.it/filippofacci/2012/09/22/il-caso-sallusti/). Il giudice tutelare, individuato soltanto con le iniziali ma, perciò, astrattamente riconoscibile, ha immediatamente querelato “Libero” e il suo direttore per diffamazione a mezzo stampa, costituendosi anche come parte civile. Davanti al competente tribunale, in primo grado, il giornalista è stato condannato ad una multa di 4.000 euro (più 30.000 euro di risarcimento) e il direttore responsabile a una multa di 5.000 euro. Nella motivazione della sentenza, depositata successivamente, il giudice ha rilevato che il direttore aveva già dei precedenti per omesso controllo nel contenuto dell’articolo e di aver perciò comminato una sanzione troppo lieve alla quale si sarebbe dovuta accompagnare anche la pena della reclusione.
La sentenza è stata appellata sia dall’imputato che dal pubblico ministero, e la Corte d’Appello ha seguito alla lettera le doglianze del giudice di primo grado, comminando a Sallusti un anno e due mesi di reclusione senza la sospensione condizionale della pena, visti i precedenti specifici del direttore. La sentenza è stata impugnata con ricorso per Cassazione, la quale può confermare la pronuncia ovvero rinviare la decisione alla Corte d’Appello affinchè si pronunci seguendo i principi e criteri direttivi indicati dalla Suprema Corte.
Il non giurista si chiederà: com’è possibile che in un paese civile il direttore responsabile di un giornale finisca in galera per un articolo che non ha nemmeno scritto? Si tratta di accanimento giudiziario o il giudice ha applicato diligentemente le norme? E soprattutto: Sallusti finirà davvero in carcere?
A tutte queste domande c’è risposta.
La legge sulla stampa tuttora vigente è la L. n. 47 dell’8 febbraio 1948, approvata dall’Assemblea Costituente. Ai tempi era stata considerata grandemente innovativa e portatrice di istanze libertarie, in aperto contrasto con le gravi limitazioni della libertà d’espressione proprie dell’epoca fascista. Tra le sue innovazioni rispetto al regime previgente vi sono l’abrogazione dell’obbligo di autorizzazione per l’esercizio del diritto di stampa al quale ha sostituito la semplice registrazione, l’aggravamento delle pene per il reato di diffamazione a mezzo stampa a rafforzamento della tutela dei diritti della personalità e l’introduzione obbligatoria del direttore responsabile come figura di garanzia. Ai sensi dell’art. 7 di questa legge il direttore responsabile è considerato “autore” del giornale inteso come opera collettiva di cui concepisce il piano generale, stabilisce le direttive cui si devono uniformare le singole opere e svolge attività di selezione e coordinamento finalizzata a ottenere un risultato unitario. Questa legge è chiaramente degna figlia della propria epoca e frutto di un lavoro encomiabile da parte dei Padri Costituenti, i cui contributi restano tra i più illustri e preziosi nella storia del diritto italiano, purtuttavia è da ritenersi, per troppi aspetti, superata, soprattutto se letta congiuntamente alla norma che sanziona penalmente il direttore responsabile in caso di omesso controllo.
L’attuale versione dell’art. 57 del Codice Penale è stata introdotta dall’art. 1 della L. 4 marzo 1958 n. 127 a seguito di una pronuncia della Corte Costituzionale che affermava la sussistenza dell’obbligo di controllo da parte del responsabile per prevenire la commissione di reati (Corte Cost. 23 giugno 1956, n. 3). L’art. 57 c.p. nella formulazione tuttora vigente così recita: “Salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione e fuori dei casi di concorso, il direttore o il vice-direttore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario a impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati, è punito, a titolo di colpa, se un reato è commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuito in misura non eccedente un terzo” . Il legislatore di allora, pertanto, ha ritenuto opportuno punire il direttore responsabile che per negligenza ometteva di controllare gli scritti che venivano pubblicati sul suo giornale. Anche questa norma è obsoleta. Come si possa pretendere oggi che il direttore di una testata nazionale controlli tutte le fonti dei numerosi articoli che vengono pubblicati resta quasi un mistero. Va detto che a favore di questa tesi si sono espresse alcuni corti di merito che hanno ritenuto responsabile penalmente solo “il giornalista professionalmente accreditato in virtù della specifica esperienza in una determinata materia” (così, ad es. Trib. Roma 10 marzo 1989), ma si tratta (purtroppo) di un indirizzo a tutt’oggi minoritario.
Il classico reato che si commette col mezzo della stampa è il delitto di diffamazione, previsto dall’art. 595, comma 3, del Cod. Pen. che prevede la pena della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516. Tuttavia, se la diffamazione a mezzo stampa consiste “nell’attribuzione di un fatto determinato” si deve far luogo ancora alla L. 48 del 1947 che all’art. 13 prevede “la pena della reclusione da uno a sei anni e della multa non inferiore a Lire 500.000 (…)”.
E’ chiaro che se il direttore responsabile di una grande testata abbia già in passato “omesso di impedire che col mezzo della stampa venissero commessi reati” non è illogico che –astrattamente- si veda comminare una pena così elevata, dal momento che la pena della reclusione irrogabile andrebbe dai quattro mesi a quattro anni (grazie alla diminuzione di cui all’art. 57 Cod. Pen.).
E non è nemmeno illogico né che la pena si sia così aggravata tra il primo e il secondo grado, visto lo spunto fornito dal giudice “sbadato” che ha permesso comunque la reformatio in pejus di un combinato disposto di norme che prevedono l’irrogazione di una pena congiunta (i.e. della reclusione e della multa), né che la sospensione condizionale della pena non sia stata più concessa, giacchè – a quanto pare- il beneficio è stato già concesso in passato e, evidentemente, per una pena che sommata a quella attuale, avrebbe superato i due anni di reclusione (così, ai sensi degli artt. 163 e ss. Cod. Pen. che accorda il beneficio su valutazione discrezionale del giudice nei confronti di chi non ne abbia mai goduto o nei confronti di chi ne abbia già goduto ma se le due pene sommate non siano superiori nel complesso a due anni di reclusione, e sempre se il giudice presume che il colpevole si asterrà dal commettere altri reati).
Però, si sa, molto spesso la logica stride col buon senso, principio che era certamente noto ai Padri Costituenti ma che di questi tempi non sarebbe male che venisse codificato (anche se è ovvio che quantificare e qualificare il buon senso è un’impresa impossibile..) onde evitare storture giudiziarie frutto di una legislazione obsoleta e fuori dal tempo.
Molti ora si chiedono se Sallusti finirà in carcere. La risposta è “certamente no”. Anche qualora la sentenza venga confermata dalla Cassazione e, conseguentemente, esecutiva, al condannato verrebbe concessa la possibilità di richiedere al Tribunale di Sorveglianza l’affidamento in prova ai servizi sociali. Si tratta di una misura alternativa alla detenzione prevista dall’art. 47 dell’Ordinamento Penitenziario (L. 354/75) della quale possono beneficiare coloro i quali debbono scontare una pena detentiva non superiore ai tre anni e che consiste di solito in una serie di prescrizioni non particolarmente restrittive e non ostative alla prosecuzione della normale attività lavorativa. Poiché non è noto se Sallusti sia stato dichiarato recidivo, non è chiaro se a Sallusti verrà inibita la facoltà di ricorrere al Tribunale di Sorveglianza (la legge Cirielli, infatti, ha aggravato la posizione del recidivo “aggravato” che non ha più la facoltà di avvalersi della misura alternativa, ). Chi scrive, però, ne dubita.
Questa vicenda insegna che sarebbe opportuno riformare velocemente i reati d’opinione, atteso che il mondo negli ultimi cinquant’anni è molto cambiato: un’applicazione della norma fondata sul buon senso non è sufficientemente garantista e grava di imbarazzo molti giudici, molti dei quali sarebbero molto più a proprio agio con una legge chiara, precisa e, soprattutto, adeguata ad un’epoca in cui, in tutto il mondo, i giornali sono grandi aziende che debbono essere regolamentate come tali.

Lascia un commento