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di Stefano Nespor. Padron Cipolla, nei Malavoglia di Giovanni Verga, sa bene perché il tempo è cambiato e perché non piove più: «Non piove più perché hanno messo quel maledetto filo del telegrafo che si tira tutta la pioggia e se la porta via».
Ovunque, fin dall’antichità, si è pensato di comprendere le ragioni dei cambiamenti del tempo e si è tentato di modificarne l’andamento: si è danzato, pregato, si sono perfino
fatti sacrifici umani per avere più o meno pioggia, più caldo o più fresco.
Nessuno però è riuscito ad ottenere i risultati voluti. Il mito di Fetonte e quello di Icaro hanno insegnano che nessuno può controllare le radiazioni solari.
Il tempo, cioè le condizioni in cui si trovano l’atmosfera in una determinata area geografica in un certo momento o comunque in un breve periodo, resta, oggi come migliaia di anni fa, difficilmente modificabile e difficilmente prevedibile anche a poche settimane di distanza.
Invece, nel corso della storia dell’uomo è stato spesso – per lo più involontariamente – modificato il clima, cioè l’insieme delle condizioni atmosferiche (temperatura, umidità, pressione, venti) che caratterizzano una regione geografica per lunghi periodi di tempo e ne determinano il tipo di vegetazione, la flora e la fauna, le attività economiche ed anche il carattere e le abitudini delle popolazioni che vi abitano. Molte di queste modifiche, seppur territorialmente circoscritte, hanno influito sull’evoluzione dell’umanità e di altri esseri viventi, determinando adattamenti e migrazioni, catastrofi e successi: il libro di Jared Diamond Collassi. Come le società scelgono di morire o di vivere (Einaudi 2007) racconta episodi di involontaria modifica del clima.
Oggi si continua a modificare il clima su scala globale e da alcuni decenni lo si fa con la coscienza di farlo, anche se si tratta di un effetto collaterale e non voluto di un modello di sviluppo basato su un sistema energetico che influisce sul clima.
Molti sono i progetti e i tentativi di contenere il cambiamento climatico riducendo le immissioni che lo provocano messi in atto dalla comunità internazionale, a partire dalla Convenzione quadro sul cambiamento climatico del 1992. Tutti sono stati finora senza apprezzabili esiti positivi.
Per questo, sta acquistando terreno la geoingegneria, o ingegneria climatica: la ricerca di tecnologie che realizzino modifiche intenzionali dell’ambiente globale in modo da attenuare gli effetti del cambiamento climatico. In sostanza, se non si riescono a contenere le emissioni, si possono cercare soluzioni tecnologiche che ne compensino o ne riducano gli effetti.
Il carattere della intenzionalità pone in evidenza la differenza di queste nuove tecniche dalle attività umane che hanno prodotto mutamenti climatici non voluti, il carattere della globalità segna la loro differenza da progetti e interventi localizzati o comunque territorialmente limitati.
La geoingegneria comprende due gruppi di tecniche diversi tra loro.
Le tecniche del primo gruppo operano direttamente sulle cause del cambiamento climatico; si propongono quindi di rimuovere l’anidride carbonica e i gas serra immessi nell’atmosfera; le tecniche del secondo gruppo tendono a compensare l’aumento di gas serra nell’atmosfera riducendo la quantità di radiazioni solari che penetrano in essa.
In realtà i progetti di controllo del clima o del tempo sono ben più risalenti nel tempo. Anzi, come vedremo, l’attuale geoingegneria climatica si riallaccia a progetti e tentativi che da due secoli si intrecciano tra entusiasmi e delusioni, tra scienza e ciarlataneria.
Il miglioramento del clima si profila come specifico oggetto di ricerca scientifica e tecnologica nel XIX secolo (dei primi decenni del secolo è la scoperta dell’effetto serra da parte di Jean Baptiste Fourier).
La ricerca è particolarmente intensa negli Stati Uniti: coloro che vi partecipano – scienziati e imprenditori ma anche, spesso, sognatori e avventurieri – sono denominati “pluviculturalisti”. Le tecniche proposte sono le più varie: dalle bombe alle cannonate, dagli incendi di boschi su vasta scala al rilascio di palloni riempiti di gas nell’atmosfera fino alla creazione di vulcani artificiali.
Il controllo del tempo resta però sempre al di là delle possibilità della scienza dell’epoca, restando confinato alla letteratura utopistica. Si immaginavano così società ove radicali modifiche dell’assetto delle istituzioni e dei rapporti sociali avrebbero dovuto procedere di pari passo con interventi di “environmental engineering”, consistenti nel rimodellamento del pianeta e di sottoposizione a controllo delle forze naturali. L’obiettivo era di modificare la natura per renderla idonea a soddisfare i bisogni dell’uomo: una delle tappe era il controllo del clima, in modo da rendere fresche le regioni più torride e più temperate le regioni fredde. Tra i più noti “utopisti del clima” c’è anche il noto scrittore William Dean Howell che dedica alla fine del secolo XIX tre romanzi a Altruria, un paese situato nell’emisfero meridionale dove sono realizzate riformi sociali nel senso dell’uguaglianza, della tolleranza e della razionalizzazione dei consumi e dove il clima è stato profondamente modificato.
Anche in Unione Sovietica fioriscono sin dalla fine degli anni Venti progetti di intervento tecnologico sull’assetto climatico: il miglioramento delle condizioni naturali e l’attenuazione delle avversità climatiche attraverso l’uso della scienza e della tecnologia costituiscono i presupposti per la creazione di una nuova società. Proprio la capacità del comunismo di rimodellare la natura con interventi di quella che oggi viene chiamata geoingegneria avrebbe dovuto rappresentare la sua superiorità sul sistema capitalistico. Nel 1932 è istituito a Leningrado un apposito istituto per gli studi climatici.
Dobbiamo però arrivare al secondo dopoguerra per assistere a una vera e propria esplosione degli studi e degli esperimenti sul clima. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica si rendono conto delle importanti implicazioni in termini di sicurezza, di difesa e, in genere, di utilizzazione bellica sia delle modificazioni involontariamente prodotte, sia degli effetti potenzialmente dannosi di modificazioni intenzionali.
Negli Stati Uniti l’attenzione si polarizza per molti anni sul c.d. Cloud seeding, l’insieme delle tecniche per cambiare la quantità ed il tipo di precipitazioni attraverso la dispersione nell’atmosfera di sostanze chimiche che agiscono sulla formazione delle nuvole. Queste tecniche sono oggetto di sperimentazione e di applicazione da parte di imprese private che offrono i propri servizi climatici agli agricoltori, scatenando numerose controversie giudiziarie originate sia dall’inadempimento agli impegni assunti, sia, in ipotesi di casuale riuscita, da parte di coloro che dalla pioggia sono danneggiati (ci sono varie decisioni giudiziarie in merito alla responsabilità per le conseguenze di operazioni volte a produrre variazioni atmosferiche).
Il Cloud Seeding, anche per le possibilità di impiego bellico, riceve consistenti finanziamenti governativi: del 1953 è la costituzione da parte del Congresso di un Comitato consultivo per il controllo del tempo.
Il clima è al centro delle attenzioni nell’Unione sovietica: nel 1948 Stalin annuncia il “Grande Piano per la trasformazione della natura” che indica il controllo del clima come obiettivo prioritario e nel 1961 il XX Congresso del Partito comunista individua nell’ingegneria climatica e specificatamente nella rimozione della calotta di ghiaccio polare per ridurre il rigore delle temperature nel nord del paese tra i più urgenti problemi che la scienza sovietica doveva risolvere.
Queste iniziative condotte dalle due maggiori potenze dell’epoca e, soprattutto, l’impiego di tecniche di Cloud seeding da parte degli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam tra il 1967 e il 1972, hanno indotto le Nazioni Unite a mettere a punto nel 1976 una apposita Convenzione per proibire progetti concernenti l’uso di tecniche per la modificazione dell’ambiente a scopo militare o comunque per finalità belliche, c.d. Convenzione Ensod.
Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale si afferma prepotentemente anche l’ingegneria nucleare, che sembra offrire la possibilità di riplasmare il pianeta per soddisfare i bisogni dell’umanità e incidere sul clima del pianeta.
Così, in un’epoca in cui era diffusa la convinzione che in pochi anni l’energia estratta dalla fusione o dalla fissione dell’atomo avrebbe soddisfatto il bisogno dell’intera umanità, molti pensano che un uso mirato delle esplosioni nucleari avrebbe permesso di realizzare canali e barriere naturali, creare, distruggere o spostare montagne, riprogettare interi territori (soprattutto le zone polari); anche l’occlusione dello stretto di Gibilterra era tra i progetti presi in considerazione.
Il sogno della geoingegneria nucleare applicata al clima, frutto dell’eccesso di ottimismo tecnologico del dopoguerra, è durato meno di venti anni e, fortunatamente, non si è mai realizzato, risparmiando così all’umanità conseguenze e disastri dei quali i promotori e i governi che li finanziavano non si rendevano conto (pur avendo provocato in quegli anni non poche vittime e consistenti distruzioni ambientali). Ma, accantonate le sue più cruente e distruttive applicazioni, l’insorgere della necessità di contenere il cambiamento climatico con modalità diverse da quelle sinora poste in essere ha offerto nuove basi e nuove prospettive ai progetti di controllo del clima

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