21 minuti

Di Giulia Gavagnin. E’ stata accolta tiepidamente la sentenza n. 17435 depositata il 10 maggio 2012 con la quale la terza sezione della Cassazione Penale ha delineato i confini della nozione di “sottoprodotto” di cui all’art. 184 bis del T.U. ambientale come introdotta dal D. Lgs. n. 205/10 (c.d. “quarto correttivo”) e in particolare della controversa espressione di “trattamento diverso dalla normale pratica industriale” che è stata sinora oggetto di acceso dibattito dottrinale in attesa di pronunce giurisprudenziali che prendessero posizione sull’argomento.
In generale, le sentenze di legittimità succedutesi sull’argomento si sono limitate perlopiù a ribadire il carattere di disciplina di favore delle disposizioni riguardanti l’utilizzo del sottoprodotto con la conseguenza che l’onere della prova sulla legittimità dell’utilizzo incombe sull’utilizzatore ; le (poche) pronunce succedutesi dopo l’entrata in vigore del quarto correttivo si sono limitate a qualificare apoditticamente un determinato materiale o residuo di produzione come rifiuto o sottoprodotto a seconda della rispondenza effettiva ai requisiti concomitanti richiesti dalla norma . In un solo caso la Suprema Corte ha tentato un approfondimento (invero più tecnico che giuridico): quando ha rinviato al giudice a quo al fine di accertare se la disidratazione dei fanghi esitati da un impianto di aspirazione delle polveri provocate della smaltitura di piastrelle sia un trattamento “diverso dalla normale pratica industriale”, posto che la consulenza tecnica agli atti aveva evidenziato la compatibilità del composto finale con i limiti di piombo autorizzati nel processo produttivo e, quindi, l’astratta rispondenza alla lettera d) di cui all’art. 184 bis T.U. che concerne la compatibilità ambientale e sanitaria dell’utilizzo della sostanza. Tuttavia, anche in questo caso, non sono stati scomodati i principi cardine della materia, esaminati in sede dottrinale sin dall’entrata in vigore della Direttiva 2008/98/Ce di cui il citato Quarto Correttivo costituisce (una volta tanto) tempestivo recepimento.
Infatti, l’art. 184 bis costituisce riproduzione non pedissequa dell’art. 5 “Sottoprodotti” della Direttiva n. 2008/98/Ce che ha per la prima volta codificato a livello europeo le condizioni da soddisfare perché una sostanza od oggetto derivante da un processo di produzione il cui scopo primario non è la produzione di tale articolo possa non essere considerato rifiuto ma, appunto, sottoprodotto .
La necessità di definire a livello europeo i contorni della definizione di “sottoprodotto” si era fatta pressante a livello europeo già nel 2007, quando la Commissione delle Comunità Europee ha pubblicato la Comunicazione n. 59 relativa all’interpretazione in materia di rifiuti e sottoprodotti . Questo testo, da alcuni considerato “superato” proprio dall’art. 5 della Direttiva , contiene tuttavia indicazioni ancora utili per comprendere la portata da dare alla controversa definizione di “normale pratica industriale”.
La ratio sottesa alla Direttiva 98/2008/ce è la creazione di una “gerarchia dei rifiuti” che mira alla prevenzione dei rifiuti, nel senso che deve essere considerata come una violazione della Direttiva la qualificazione di una sostanza od oggetto come rifiuto, laddove questa, invece, rifiuto non è . E’ evidente che la direzione intrapresa dalla Comunità Europea da tempo é nel senso della massima “conservazione” e del “recupero” dei beni e delle sostanze, intesi anche come ‘ricircolo’ interno delle risorse materiali e finanziarie: l’inutile appesantimento burocratico della gestione di un asserito rifiuto che non sia tale determina un aggravio nella filiera di utilizzo del bene o sostanza sotto il profilo economico, temporale, amministrativo, con ripercussioni negative sull’economia globale.
La definizione di rifiuto, secondo la prospettiva europea, si potrebbe (provocatoriamente) definire ‘residuale’ (più che ‘complementare’) rispetto ai concetti di “residui di produzione” (sottoprodotti) e “residui di consumo” (ex materia prima secondaria – end of waste) che costituiscono il vero ambito di applicazione e di indagine nelle filiere di produzione e utilizzo dei beni e delle sostanze nella moderna società dei commerci.
L’art. 5, comma 1 della Direttiva elenca le condizioni (cumulative) per cui una sostanza o un oggetto possono essere definiti “sottoprodotto”:
1. la sostanza o l’oggetto deriva da un processo di produzione non principalmente destinato a produrla/o
2. vi è certezza che la sostanza o l’oggetto sarà ulteriormente utilizzata/o
3. la sostanza o l’oggetto può essere utilizzata/o senza alcun trattamento diverso dalla normale pratica industriale
4. la sostanza o l’oggetto è prodotta/o come parte integrante di un processo di produzione
5. un ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente e sulla salute umana.
Fin dal suo apparire nella disciplina comunitaria, l’espressione “trattamento diverso dalla normale pratica industriale” ha suscitato forti interrogativi per la sua indeterminatezza e l’auspicio di un pronto intervento della giurisprudenza . Il legislatore europeo ha inteso chiaramente evitare di restringere l’utilizzo della sostanza od oggetto al “tal quale”, ma non ha specificato quali tipologie di trattamento siano ammissibili nell’ambito della disciplina del sottoprodotto. Si è subito ventilata l’ipotesi che tra queste operazioni vi fossero quelle individuate in modo non esaustivo dalla Commissione nella citata Comunicazione 59/2007 (“la catena del valore di un sottoprodotto prevede spesso una serie di operazioni necessarie per poter rendere il materiale riutilizzabile: dopo la produzione, esso può essere lavato, seccato, raffinato o omogeneizzato, lo si può dotare di caratteristiche particolari o aggiungervi altre sostanze necessarie al riutilizzo, può essere oggetto di controlli di qualità ecc.”) e si è anche sostenuto che, comunque, queste operazioni dovessero essere individuate volta per volta, a seconda del settore industriale coinvolto. Di conseguenza, operazioni non meramente conservative, come frantumazione e vagliatura, rientrerebbero comunque nell’ambito di applicazione del sottoprodotto se la sostanza o il prodotto possiedono già le caratteristiche merceologiche che ne rendono certo l’utilizzo all’esito del processo di produzione . In uno dei primi commenti alla direttiva si è così sostenuto che per normale pratica industriale si debba intendere “quei trattamenti cui è sottoposta anche la materia prima in funzione del processo produttivo seguito per la realizzazione di un determinato prodotto” . Si dovrebbero perciò escludere tutti i trattamenti finalizzati all’eliminazione di una sostanza pericolosa dalla materia principale qualificandosi come operazioni di recupero in senso stretto, ma non è detto che un intervento di recupero sia a priori da essere escluso dalla “normale pratica industriale”.
Questi problemi si sono ripresentati dopo il recepimento dell’art. 5 della Direttiva nella normativa nazionale ad opera del D. Lgs. n. 205/10 , dal momento che questo, con l’introduzione dell’art. 184 bis , ha riproposto il problema oggetto di questo commento più o meno negli stessi termini di cui alla Direttiva: ”la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale” (art. 184 bis, comma 1, lett. b). La ‘patata bollente’ è stata, di fatto, rimessa alla buona volontà del Ministero dell’Ambiente che con specifici decreti avrebbe dovuto (e consta che non abbia ancora provveduto) “adottare misure per stabilire criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerate sottoprodotti e non rifiuti” (art. 184 bis, comma 2).
Nonostante l’inerzia del Ministero, i primi commenti sulla norma non si sono fatti attendere e hanno dato luogo a due orientamenti: l’uno restrittivo, l’altro estensivo.
Un autore , fautore del primo orientamento, presuppone che l’espressione “utilizzato direttamente” significhi “utilizzato tal quale” e, conseguentemente, ritiene che il trattamento consentito debba essere meno ampio di un “recupero” che per sua natura può riguardare soltanto un rifiuto e che, una volta effettuato, fa perdere al rifiuto tale qualità. Si tratta di una interpretazione all’insegna della cautela, ma non rispondente alle linee guida adottate dalla Comunità Europea dalla metà degli anni 2000 ad oggi. E’ ben vero che l’autore ritiene di dover adottare detta interpretazione restrittiva “in attesa di lumi” (e su questo si fa fatica a dargli torto), ma è anche vero che ritenere che il prodotto indesiderato debba essere utilizzato “tal quale” vanifica l’introduzione della nuova norma e riporta direttamente alla formulazione precedente, introdotta dal D. Lgs. n. 4/08, che escludeva “trattamenti preventivi” e “trasformazioni preliminari” cui sottoporre i materiali o le sostanze per raggiungere le qualità merceologiche richieste.
I fautori dell’indirizzo meno restrittivo (e più allineato al pensiero del legislatore europeo) , invece, ravvisano la necessità di non circoscrivere eccessivamente la portata dell’espressione “normale pratica industriale” e, al tempo stesso, di non abbracciare qualsiasi operazione comunemente inserita in un ciclo produttivo per evitare di equiparare ogni operazioni di recupero R1-R 13 in un trattamento preliminare all’utilizzo di un sottoprodotto. Anche questa tesi, così espressa, non appare decisiva, ma fa leva sull’autorevole sentenza Niselli , dove si è sostenuto che l’operazione cui viene sottoposto un materiale, che si tratti o meno di un’operazione di trattamento dei rifiuti di cui agli allegati della direttiva quadro sui rifiuti, non consente di pronunciarsi sulla natura dello stesso, in quanto molti dei metodi di trattamento indicati negli allegati possono applicarsi perfettamente anche a un prodotto. Perciò, ritiene il principale esponente di questo indirizzo: “..dovrebbe potersi affermare che certamente rientrano nella “normale pratica industriale” tutte quelle attività industriali che possono essere indifferentemente condotte con un sottoprodotto piuttosto che con una materia prima, un intermedio od un prodotto senza che ciò comporti aggravi sotto il profilo dell’impatto ambientale. Volendo esemplificare, un processo di distillazione o raffinazione di una sostanza, così come la rifusione di uno scarto di produzione metallico, rientrano certamente nella normale pratica industriale finalizzato alla produzione di un diverso bene primario. Si tratta, quindi, di trattamenti identici o comunque assimilabili a quelli cui l’impresa sottopone prodotti, intermedi o materie prime che certamente non costituiscono rifiuti in forza della loro origine. Al contrario, operazioni che nella pratica vengono di regola effettuate esclusivamente su residui e dirette a rendere compatibili sotto il profilo ambientale e merceologico detti scarti con i processi produttivi propri dell’impresa utilizzatrice tenderanno con maggiori probabilità a rimanere nell’alveo delle operazioni di recupero elencate dall’allegato II della direttiva e recepite nel D. Lgs. n. 152/06 ” .
Si tratta di un’impostazione teleologica, che non focalizza esclusivamente l’attenzione sull’operazione di trattamento in senso quantitativo e qualitativo, ma si collega direttamente alla condizione di cui alla lettera d) dell’art. 184 bis che richiede la compatibilità dell’utilizzo con la protezione della salute e dell’ambiente.
Ovviamente, questa lettura normativa ha trovato molti oppositori, non solo per l’asserita genericità dell’argomentazione ma anche perché non terrebbe in debito conto la distinzione fra trattamenti effettuabili usualmente o no sulle materie prime. Infatti, la distillazione o la raffinazione costituirebbero attività riguardanti tanto le materie prime c.d. vergini quanto le sostanze residuali, mentre la rifusione di una sostanza di scarto è attività che troverebbe riscontro solo in una pratica industriale avente ad oggetto una sostanza di scarto. Si tratterebbe, pertanto, di un trattamento diretto a rendere compatibili gli scarti con i processi produttivi in cui devono essere utilizzati, coincidente con il “trattamento preventivo” o la “trasformazione preliminare” di cui alla precedente formulazione . Coloro i quali ritengono che il trattamento diverso dalla normale pratica industriale coincida con il trattamento preventivo o la trasformazione preliminare ritengono che il trattamento tout court (nella lettura applicabile a questa fattispecie) sia “il processo che realizza un mutamento della struttura e della costituzione fisico-chimica della sostanza” , con ciò, non ritenendo plausibile la tesi di chi, invece, distingue all’interno di una più ampia nozione di trattamento, tra gli interventi di trattamento “minimale” (es. cernita, selezione, vagliatura, essicazione, raffinazione) che non fanno perdere al materiale le sue caratteristiche merceologiche e trattamenti che importano un mutamento delle caratteristiche chimico-fisiche della sostanza .
L’intervento della Terza Sezione della Cassazione, pur non aiutando a fare chiarezza su questa controversa e complessa questione, fornisce alcuni spunti di riflessione che ci permettono di dire quale sia la strada da non seguire per addivenire alla soluzione del problema.
La questione portata all’attenzione della Suprema Corte concerne la qualificazione da attribuire a materiali qualificati come fumi di fonderia contenenti ottone che la società ricorrente assume collocarsi nell’ambito dei sottoprodotti. In particolare, detta società aveva acquistato da diverse acciaierie quantitativi di materiali descritti come “rifiuti solidi prodotti dal trattamento a secco dei fumi – cod. CER 100606 (contenuto in zinco 60% min. ) – caratteristiche pericolo H5-H10” dai quali intendeva ottenere un ricavo economico attraverso la separazione delle singole componenti chimiche dei fumi di ottone attraverso una metodologia ancora in fase di sperimentazione (tanto da aver determinato danno ai forni e condizioni di pericolo per gli operai).
La Corte ha ritenuto che il materiale in esame non potesse qualificarsi come sottoprodotto per carenza di due delle quattro condizioni richieste dalla legge. Il ragionamento sotteso alla decisione è però contorto e non convince, soprattutto per i richiami normativi in esso contenuti. Secondo la Corte, il trattamento cui venivano sottoposti i materiali consisteva in una “specifica procedura finalizzata alla separazione delle singole componenti” e, perciò, non poteva ritenersi compreso nel concetto di “normale pratica industriale” dal quale devono escludersi “attività comportanti trasformazioni radicali del materiale trattato che ne stravolgano l’originaria natura”. La nozione di trattamento si ricaverebbe dall’art. 2, comma primo, lett. h) del D. Lgs. n. 36/2003 “Attuazione della direttiva 1999/31/Ce relativa alle discariche di rifiuti” che si riferisce ai “processi fisici, termici, chimici o biologici, incluse le operazioni di cernita, che modificano le caratteristiche dei rifiuti, allo scopo di ridurne il volume o la natura pericolosa, di facilitarne il trasporto di agevolare il recupero o di favorirne lo smaltimento in condizioni di sicurezza”. Da ciò, ne discende che devono essere esclusi dal concetto di normale pratica industriale “tutti gli interventi manipolativi del residuo diversi da quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel quale esso viene utilizzato”.
Sorvolando sulla conclusione, che significa tutto e niente e si riduce a mera tautologia, non si può che prendere atto che la Cassazione ha abbracciato integralmente la tesi più restrittiva che riconduce l’utilizzo diretto della sostanza o del bene senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale alla pregressa normativa che escludeva trattamenti preventivi e/o trasformazioni radicali.
Tuttavia, a destare perplessità non è la soluzione finale scelta dalla Corte, ma il percorso cui si è addivenuti per giustificarla, che appare in contrasto non solo con l’orientamento comunitario, ma anche con la stessa espressione “normale pratica industriale”.
Riferirsi alla nozione di “trattamento” contenuta nel D. Lgs. n. 36/2003 che ha ad oggetto il conferimento dei rifiuti in discarica appare del tutto inopportuno , perché il riferimento è ad una normativa specifica, concepita per una (potremmo dire) “particolarissima pratica industriale” (rectius, di servizi) che è appunto la gestione dell’intero ciclo di vita di una discarica con tutte le garanzie sanitarie ed ambientali ad essa connesse.
Inoltre la stessa sezione della Corte non riesce a confermare se stessa, laddove soltanto qualche mese prima, in termini generali, nella già citata sentenza n. 34753/11 aveva affermato: “..nell’art. 184 bis attualmente vigente, relativo al sottoprodotto, il legislatore italiano ha recepito la nozione comunitaria di cui all’art. 5 della Direttiva quadro sui rifiuti n. 2008/98/Ce, in cui il legislatore comunitario mostra un evidente favore per la soluzione di recupero dei rifiuti, come si desume dalla previsione contenuta nell’art. 4 della medesima direttiva recante la gerarchia dei rifiuti, che vede al primo posto la prevenzione e la preparazione per il riutilizzo. Fermo restando il principio dell’interpretazione estensiva della nozione di rifiuto, la direttiva quadro ha tracciato il confine tra ciò che deve considerarsi rifiuto e ciò che ha assunto il valore di autentico prodotto. Inoltre la disciplina comunitaria tra i requisiti indicati nella nozione di sottoprodotto, ha incluso i trattamenti che rientrano nella normale pratica industriale con l’effetto pratico di ampliamento della categoria”.
Non sono certamente criticabili le conclusioni concrete della Corte con riferimento al caso in esame: da quanto appare dalla mera lettura dei fatti così come offerti dalla lettura della sentenza, il ricorso presentato dalla società era infondato. Anche a voler seguire l’interpretazione estensiva della nozione di sottoprodotto, l’intervento sul materiale (il quale, peraltro, essendo già stato qualificato come rifiuto, non avrebbe potuto che essere assoggettato al massimo ad un’operazione di recupero con la conseguente perdita della qualifica di rifiuto una volta soddisfatte le condizioni di cui all’art. 184 ter) era finalizzato alla separazione delle singole componenti chimiche mediante l’utilizzo di sostanze esogene e, pertanto, modificativo delle caratteristiche merceologiche del materiale stesso. Il trattamento era, pertanto, da considerarsi “eccentrico” rispetto alla normale pratica industriale perché non rientrante nell’ordinaria filiera produttiva.
Il fatto è poi da considerarsi aggravato dalle modalità operative, chiaramente condotte in condizioni di pericolosità, come emerso dall’istruttoria dibattimentale: è evidente che il vaglio della Corte non si sarebbe superato per carenza del quarto requisito di cui all’art. 184 bis.
A questo proposito, non si può tacere una riflessione.
Vista la comprovata e oggettiva difficoltà di definire esaustivamente gli interventi rientranti nella “normale pratica industriale” (taluni invocano un elenco, ma chiaramente non si tratta di un’opzione praticabile), sarebbe opportuno adottare una riflessione ragionata, caso per caso, delle singole operazioni di trattamento in relazione all’effettivo impatto di queste nei confronti della salute e dell’ambiente.
Come sopra illustrato, la politica ambientale comunitaria è sempre più orientata alla conservazione delle risorse e al minor aggravio possibile delle incombenze burocratiche per favorire l’attività imprenditoriale nel rispetto della tutela della salute umana e degli ecosistemi.
In attesa dell’emanazione dei decreti ministeriali, sarebbe opportuno adottare una lettura sistematicamente ragionata dell’art. 184 bis comma 1, lett. c) e d) in interconnessione sistematica.
Non sembra, infatti, di grande giovamento né all’economia né alla salvaguardia dell’ambiente un’interpretazione ostinatamente intransigente del termine “trattamento” (beninteso, non ricadente nell’alveo del D. Lgs. n. 36/2003) che impedisca qualsiasi modificazione del bene o della sostanza, anche soltanto minimamente quantitativa, in vista del riutilizzo come sottoprodotto: in tal senso, sarebbe auspicabile l’espunzione del termine dalla lettera c) dell’art. 184 bis, comma 1) del T.U., apparendo, piuttosto, necessario meglio definire l’impiego diretto nell’ambito dei normali procedimenti industriali, intesi come procedimenti certi, consolidati e non sperimentali.
La tutela della salute e dell’ambiente sono perseguibili anche prestando attenzione alle esigenze del mercato e dell’impresa, che non debbono venire gravati da inutili cavilli burocratici, ma essere incentivati nel loro naturale dinamismo.

(la presente nota sarà pubblicata in edizione completa sul n. 6 di Rivista Giuridica dell’Ambiente)

Lascia un commento