ACQUA BENE COMUNE.
Cesare Massa
- Acqua bene comune naturale
L’Italia ha sete. Di salute, lavoro, giustizia sociale. Di acqua. Di acqua e di giustizia sociale.
Tuttavia, parallelamente alla nascita di esigenze nuove manifestate da parte della comunità -sia uti singulis che uti civis– legate alla tutela della salute ed al diritto di vivere in un ambiente salubre, ed alla garanzia del libero, paritario accesso al godimento di beni o risorse fondamentali, gli schemi giuridici esistenti hanno cominciato a manifestare tutta la loro inadeguatezza.
Può essere utile, nella prospettiva che precede, porre attenzione alla categoria dei beni comuni e, cioè, dei beni naturalmente funzionali al soddisfacimento di bisogni primari della vita; beni rispetto ai quali sempre si evidenzia la necessità della elaborazione di un sistema giuridico idoneo a garantire forme di controllo e gestione sociale che riguardano beni che non sono di nessuno o semplicemente pubblici, né di qualcuno e liberamente commerciabili, ma comuni. Cioè di una comunità di riferimento, dell’intera collettività, talvolta entrambe le cose insieme.
Nel caso dell’acqua, ad esempio, l’uso necessario della risorsa da parte della comunità insediata in un determinato contesto territoriale deve essere garantito a ciascun componente della comunità medesima; ma le modalità di programmazione e gestione della risorsa devono comunque rispondere al vincolo generale di mantenere livelli di consumo, e standard di depurazione a valle del consumo nel momento della restituzione nell’ambiente, tali da preservare una risorsa non illimitata, anzi tendenzialmente scarsa, rispetto alla quale sempre più, su scala planetaria, emergono profili di allarmante criticità.
- Il referendum del 2011
Le considerazioni che precedono, nella loro sostanza, sono diffusamente avvertite nel corpo sociale; e ciò, a mio parere, spiega l’eccezionale partecipazione e l’eclatante risultato del referendum del 2011, allora praticato e poi da tutti ricordato come il referendum “per l’acqua pubblica”.
Si trattava in realtà di un referendum che riguardava una normativa diretta ad affermare la esclusività della gestione pubblica di una serie di servizi pubblici locali; di una normativa cui restava assolutamente estranea anche solo l’idea di una privatizzazione dell’acqua, da sempre bene appartenente al demanio indisponibile dello Stato.
Eppure, la circostanza che si volesse privatizzare la gestione del “servizio idrico integrato”, per la immediata identificazione di quest’ultimo con l’acqua, generò una eccezionale mobilitazione e si tradusse in un movimento politico-culturale che, a partire dall’acqua, e sia pure implicitamente, cominciava a porre la questione dello “statuto giuridico dei beni comuni”.
L’attuale disciplina normativa, a valle di una progressiva e positiva evoluzione figlia anche del referendum sull’acqua pubblica del 2011, definisce già oggi, nel codice dell’ambiente, un sistema che afferma in maniera chiara la natura pubblica del servizio idrico integrato.
In particolare, il combinato disposto del primo e del secondo quesito di quello “storico” referendum abrogativo proponevano, da un lato, l’abrogazione della norma che consentiva di affidare la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica solo a soggetti privati o a società di diritto pubblico con partecipazione azionaria di privati, consentendo la gestione in house solo in casi eccezionali (art 23-bis del d.l 25 giugno 2008, n.112, così come risultante a seguito della sentenza n. 325 del 2010 della Corte costituzionale). Dall’altro, l’abrogazione parziale della norma che stabiliva la determinazione della tariffa per l’erogazione dell’acqua, nella parte in cui includeva, nella determinazione della stessa, anche la remunerazione del capitale investita dal gestore (comma 1 art. 154, D.lgs. 152/2006).
La maggioranza di oltre venticinque milioni di elettori, votando su di una scheda rossa per il primo quesito e gialla per il secondo, ha determinato l’abrogazione delle suddette disposizioni e, per l’effetto, la normativa vigente, afferma esplicitamente:
1) la natura “pubblica” di “tutte le acque superficiali e sotterranee” che “appartengono al demanio dello Stato” (art. 144 del Codice dell’ambiente);
2) la natura pubblica del servizio idrico integrato che è costituito “dall’insieme dei servizi pubblici di captazione, adduzione e distribuzione di acqua ad usi civici di fognatura e di depurazione delle acque reflue…”;
3) la necessità che il servizio, con riguardo alla necessaria tutela dell’ambiente e della concorrenza, venga comunque “gestito secondo principi di efficienza, efficacia ed economicità, nel rispetto delle norme nazionali e comunitarie” (art. 141 del Codice).
Coerente con l’esito referendario sono anche, per quanto accennato in precedenza, la esplicita previsione, nel testo dell’art 149-bis, della possibilità di affidamento diretto in house e, con riguardo alle componenti della tariffa, , l’attuale versione dell’art. 154 del codice, che è il risultato della eliminazione dai costi considerati in tariffa della componente relativa alla “adeguatezza della remunerazione del capitale investito).
- L’attuale disciplina normativa e il ruolo delle regioni
Ovviamente, la coerenza formale con gli esiti referendari della disciplina vigente non risolve di per sé il problema della adeguatezza sostanziale rispetto al contenuto politico di quell’esito che, per l’ampiezza dell’affermazione del sì, ha costituito una chiara indicazione di come la materia imponesse una regolazione particolare, giustificata proprio dalla natura di bene comune naturale della risorsa idrica, di cui si è dato conto in apertura.
Cioè: se è vero, come è vero, che il referendum investiva formalmente solo norme che in via generale escludevano la possibilità della gestione pubblica dei servizi pubblici locali, lo è altrettanto: che la suggestione del coinvolgimento del “bene acqua” ha generato una straordinaria mobilitazione che ha posto, a partire dall’acqua, la questione della categoria e della disciplina dei beni comuni.
Una vicenda che ha trovato immediata corrispondenza, prima ed a prescindere da una definizione legislativa generale, nell’autonoma iniziativa legislativa di molte regioni in materia di tutela, governo e gestione delle acque; così che, anche in questo caso soprattutto a seguito del referendum del 2011, la legislazione regionale ha iniziato a riempirsi di riferimenti alla categoria dei beni comuni.
Tanto che oggi non si può più dubitare della sua considerazione nel diritto positivo.
In particolare, nell’esercizio della propria competenza “residuale” (così espressamente definita dalla Corte costituzionale) in materia di organizzazione del sistema idrico integrato, la Regione Lazio afferma ( l.r. n.5/2014) che “l’acqua è un bene comune e un diritto umano universale”, la legge regionale n.15 del 2015 della regione Campania prevede che “l’acqua è un bene collettivo di origine naturale, che va tutelato ed utilizzato prioritariamente per le occorrenze della vita umana, nel rispetto degli altri bisogni della flora e della fauna presenti nel territorio regionale e dei diritti inviolabili spettanti alle generazioni future per la fruizione di un integro patrimonio ambientale”; così, lungo le medesime direttrici, anche Umbria ( l.r. n.11/2013), Sicilia ( l.r. n.19/2015), Liguria ( l.r. m. 1/2014), Puglia ( l.r. n.11/2011), Friuli Venezia Giulia ( l.r. n.5/2016) e, già a partire dal 1999, Emilia-Romagna.
Va quindi dato un giusto riconoscimento al ruolo propulsivo svolto dalle regioni.
Tuttavia, la materia, anche in esito al definitivo consolidarsi dell’orientamento della corte costituzionale cui si è fatto riferimento in precedenza ( sent. 65/2019, con ampi richiami ai precedenti conformi), è riconducibile, sia con riguardo alla “tutela dell’ambiente” che con riguardo alla “tutela della concorrenza”, alla competenza esclusiva dello Stato.
- Proposte di riforma in discussione e prospettive del servizio idrico integrato
La giusta ambizione di una legge nazionale che detti disposizioni in materia di pianificazione e gestione del ciclo integrato delle acque dovrebbe essere quella di delineare una disciplina che consenta di garantire, in relazione all’uso e consumo dell’acqua, un benessere di qualità in tutti gli ambiti territoriali per tutti i cittadini, ed una loro piena partecipazione al governo delle risorse idriche.
Tant’è vero che, nella legislazione in corso, ben prima della nascita del governo giallo-rosso, erano stati presentati, da parte rispettivamente di Cinque stelle e Pd, due disegni di legge, uno a prima firma Daga -n. 52- e uno a prima firma Braga -n.773-.
I testi in questione, pur partendo, almeno nella impostazione iniziale, da una volontà condivisa di procedere nel senso innanzi delineato, differiscono nella scelta delle soluzioni più idonee.
La nascita del “governo giallo-rosso” ha prodotto la necessità, logica prima ancora che politica, dell’elaborazione di un nuovo testo comune sulla gestione delle acque, che sia il frutto di una mediazione tra i due già presentati e che, pur non ambendo alla cancellazione omologante di ogni differenza, possa disegnare i confini di una nozione positiva, non astratta e/o ideologica, del bene comune “acqua”, con riferimento al “servizio idrico integrato”, valida su tutto il territorio nazionale.
La tentazione da evitare, secondo il parere di chi scrive, è quella di cercare di farlo traendo conclusioni sbagliate da giuste premesse: è vero, lo abbiamo detto, che il sistema dicotomico pubblico-privato è risultato inidoneo a tale nobile scopo tra gli altri, ma non è altrettanto vero -è falso- che la riposta sta nel vietare tout court la possibilità che il servizio idrico integrato sia eventualmente gestito da soggetti privati, ponendo alla base di tale errato convincimento la natura pubblica della proprietà dell’acqua.
Certamente l’acqua non è un bene privato. E l’attuale normativa, come abbiamo visto, già dà conto della natura intrinsecamente pubblica delle risorse idriche, riconducendola alla categoria dei beni del demanio indisponibile dello Stato.
Una nuova legge, coerente con il corpus normativo esistente, che può essere migliorato ma non deve essere stravolto, dovrebbe invece porsi l’obiettivo di delineare un complesso di norme dal quale si possa ricavare una chiara definizione e declinazione di bene comune con riguardo al settore idrico.
Definizione che, secondo un criterio di distinzione oggettivo-funzionale della destinazione del bene all’uso comune, prescinda dalla natura pubblica o privata del soggetto proprietario.
Salvo voler giungere alla illogica conclusione che, qualora invece l’acqua fosse privata -e ovviamente, per intrinseca connotazione, non lo è- e qualora, in via meramente teorica, il suo sfruttamento da parte dei privati fosse incompatibile con il diritto della comunità, tale sfruttamento non dovrebbe comunque essere controllato e legittimato da un’adeguata partecipazione della comunità impoverita.
Il problema della proprietà in senso stretto, quindi, è irrelato da quello di una gestione partecipativa, trasparente, efficiente dell’acqua. Che sia orientata al ripristino ed alla riqualificazione della rete idrica; al potenziamento del ruolo dell’autorità pubblica e delle associazioni rappresentative degli interessi in relazione al controllo sul raggiungimento degli obiettivi, sugli eventuali conflitti tra gestione comune ed usi da parte della collettività, sul rispetto della normativa ambientale e sull’efficienza del servizio reso; all’indirizzo verso il risparmio di una risorsa scarsa; al riconoscimento della natura anche globale del bene acqua ed all’adozione di prime misure conseguenti -ad es. istituzione di un fondo nazionale di solidarietà internazionale-; alla valorizzazione della partecipazione della comunità alla attività di pianificazione, programmazione e gestione.
L’attribuzione della gestione del servizio a soggetti terzi, anche privati, da parte dell’ente di governo -ente esponenziale costituito sul perimetro dell’ambito territoriale ottimale al fine di scongiurare il rischio di un eccessivo frazionamento delle competenze-, fatto salvo il necessario controllo da parte del MATTM, dell’ente stesso, della collettività, non è affatto in contrasto con il raggiungimento di tali obiettivi generali.
Bisogna però tenere ben presente che la garanzia della partecipazione al governo ed alla gestione dell’acqua, per non dare risultati addirittura opposti rispetto a quelli auspicati, non può e non deve tradursi in una deresponsabilizzazione de facto dei soggetti, pubblici o privati, decisori finali. Che sono e devono rimanere gli unici responsabili, nei confronti degli stessi utenti/cittadini, dell’efficienza o meno del servizio erogato.
Rispetto a questo punto, una disposizione “operativa” possibile sarebbe quella dell’introduzione di una forma di azionariato da parte degli utenti (alla ovvia condizione della titolarità di un contratto di fornitura), anche tramite prelievo effettuato direttamente in bolletta; in tal modo, oltre a prevedere una forma di finanziamento del servizio ulteriore, si verrebbe a creare una concreta posizione soggettiva idonea a consentire la rivendicazione del contenuto del diritto inalienabile all’accesso alle risorse idriche.
Naturalmente, condizione necessaria è che l’uso del bene rimanga assoggettato a regolazione pubblicistica.
Anche nella prospettiva, per qualificarne il profilo rispetto alla materia, di prevedere non già l’esclusione di margini di profitto –che rischierebbe di scoraggiare gli investimenti privati di cui c’è bisogno-, ma piuttosto di prevedere significative quote di utili da reinvestire e condizionare comunque distribuzione degli utili medesimi al raggiungimento di elevati standard di qualità e del progressivo innalzamento degli stessi. Per la realizzazione di quelle opere di ammodernamento delle reti fognarie che possano consentire il massimo risparmio della capacità dell’acqua possibile, soprattutto quella superficiale, al fine di conservare la parte strategica della risorsa idrica, quella faldifera. Ma anche di un sistema meccanico di distribuzione che sia in grado di modulare l’offerta di acqua sulla domanda, in una prospettiva ambientale che è anche il segno di un cambiamento di paradigma dovuto alla progressiva diminuzione della risorsa idrica.
Con una acquisizione fondamentale, allo stato diversamente trattata nei due disegni di legge, ma che merita di essere definita in termini assoluti e immediatamente cogenti, così da dare il segno evidente che l’acqua è un bene comune da garantire, almeno nel quantitativo minimo vitale, indistintamente a tutti: erogazione gratuita e incondizionata, a tutti, di un quantitativo minimo di acqua per gli usi umani, il cui costo deve essere considerato in tariffa, ma prevedendo tariffe differenziate per gli usi che, per persona, eccedano una determinata quantità.
Certo, stiamo parlando di un settore parziale e definito della gestione dell’acqua, quello che riguarda, a valle della sua captazione e accumulo, la distribuzione dell’acqua per usi civili, potabili e per l’igiene, di cui si assume la priorità. Nessuno dei due disegni di legge attualmente fermi alla Camera, d’altronde, mettono a fuoco il punto della necessità di interrogarsi sull’uso della risorsa idrica alla luce dei cambiamenti climatici in atto, per fare scelte normative conseguenti le più idonee possibili a governare le complessità che ne derivano, anche integrando aspetti collegati come quello del dissesto idrogeologico, della forestazione, dell’agricoltura.
La migliore disciplina possibile di tale profilo mai varrebbe a surrogare l’inefficienza, a monte, della tutela della qualità della risorsa nel contesto naturale e il mancato apprestamento di soluzioni per ridurne drasticamente il consumo per le altre destinazioni possibili; ma organizzare un servizio idrico integrale efficiente e giusto nell’uso e nella distribuzione della risorsa non è questione indifferente rispetto al contesto generale. Lo condiziona e ne è condizionata.
Non è facile, ma è meno complicato di quanto possa apparire, perché non si parte dall’anno zero.
Verso questi obbiettivi dovrebbero essere concentrati tutti gli sforzi di una maggioranza di governo variopinta, ma forse capace di unirsi, mescolare i colori, disegnare i contorni di una gestione collettiva delle risorse idriche orientata al rispetto della sostenibilità ambientale e sociale; tramite l’utilizzo di modelli efficienti che abbiano dapprima l’ambizione di delineare una disciplina chiara che tenga conto della necessità non solo di tutelare la situazione esistente, ma anche di contribuire ad un, almeno tendenziale, miglioramento della stessa. E, poi, la convinzione ed il coraggio di attuarla.
Per saziare un po’ di quella sete.
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