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di Massimo Greco. Per quanto criticato, avversato e, quasi quotidianamente, denigrato, lo Stato democratico è il modello di governance delle decisione pubbliche che più degli altri riesce a garantire legalità e giustizia. E, in questo contesto ordinamentale, in cui gli alfieri dello Stato moderno hanno danno il loro contributo (da Hobbes a Rousseau, da Marx a Locke, da Voltaire a Montesquieu, da Kant a Hegel) la presenza di un organo terzo, autonomo, imparziale e indipendente a cui affidare la funzione di custode della Costituzione e di vegliare sul vitale principio della separazione dei poteri è fondamentale.

Tale importante attribuzione è stata individuata da quasi tutte le democrazie moderne nella Corte Costituzionale, ovvero in quel Giudice delle leggi al quale spetta l’ultima ed inappellabile parola ed al quale il tumultuoso e repentino cambiamento sociale, economico, politico ed istituzionale affida la responsabilità di interpretare in chiave poliarchica i quotidiani rapporti tra Stato-Nazione e cittadini.

Nel nostro Paese, in cui la crisi finanziaria contribuisce non poco ad esaltare il deficit politico ed istituzionale, sempre più bisognoso di essere colmato secondo un approccio work in progress, la Corte Costituzionale rappresenta il vero, e verosimilmente unico, punto di riferimento certo sia per la società civile che per quella politica.

Basta avvicinarsi al suo sito istituzionale presente nella rete al link www.cortecostituzionale.it per respirare l’autorevolezza delle tante decisioni assunte da una squadra di quindici Giudici tutti rigorosamente vaccinati con dosi massicce di competenza, etica, senso di appartenenza allo Stato, principio di legalità, sacralità del diritto e della giustizia.

Tra le tante sentenze depositate ed immediatamente leggibili sul citato portale, le ultime due contribuiscono ad irrobustire il nostro convincimento. Trattasi delle sentenze n. 198  e n. 199 entrambe del 17 luglio 2012.

Con la sent. n. 198, per ciò che concerne le questioni che più ci hanno incuriosito in questi mesi, la Corte Costituzionale afferma un principio di diritto la cui immanenza nei rapporti tra Stato e Regioni a statuto speciale non viene messa in discussione neanche in tempi di crisi finanziaria. Viene infatti affermato che “La disciplina relativa agli organi delle Regioni a statuto speciale e ai loro componenti è contenuta nei rispettivi statuti. Questi, adottati con legge costituzionale, ne garantiscono le particolari condizioni di autonomia, secondo quanto disposto dall’art. 116 Cost. L’adeguamento da parte delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome ai parametri di cui all’art. 14, comma 1, del decreto-legge n. 138 del 2011 richiede, quindi, la modifica di fonti di rango costituzionale. A tali fonti una legge ordinaria non può porre limiti e condizioni…”.

E’ la migliore risposta che poteva arrivare a chi continua a domandarsi se le norme della spending review relative alla riduzione del numero delle Province, con particolare riferimento ai sei mesi concessi dall’art. 17, comma 5, del d.l. n. 95/2012 per l’adeguamento ai principi ivi contenuti, sono immediatamente applicabili ad una Regione a statuto speciale come la Sicilia.

L’ordinamento siciliano, com’è noto, gode di potestà esclusiva nelle materie espressamente previste nello Statuto. L’art. 15 dello Statuto, in particolare, al 1° comma così recita: “le circoscrizioni provinciali e gli organi ed enti pubblici che ne derivano sono soppressi nell’ambito della Regione siciliana”. Il 2° comma del medesimo articolo così dispone: “L’ordinamento degli enti locali si basa nella Regione stessa sui Comuni e sui liberi Consorzi comunali, dotati della più ampia autonomia amministrativa e finanziaria”. Peraltro, la medesima Corte Costituzionale si è già pronunciata sulla specifica questione agitata intorno all’ente intermedio siciliano così statuendo: “quest’ultima Regione, infatti, secondo l’art. 15, terzo comma, del suo statuto, è titolare della potestà legislativa esclusiva <<in materia di circoscrizione, ordinamento (e controllo) degli enti locali>> e in tale potestà è pacificamente compresa quella di istituire, con proprie leggi (v. art. 6 della legge regionale 6 marzo 1986, n. 9, e art. 1 della legge regionale 12 agosto 1989, n. 17), i <<liberi consorzi comunali>> che, nella Regione siciliana, sotto la denominazione <<province regionali>> (art. 3 della medesima legge regionale n. 9 del 1986), hanno preso il posto delle province (art. 15, primo e secondo comma, dello statuto siciliano)”[1].

Corollario di queste argomentazioni è che le disposizioni contenute nel citato art. 17 del d.l. n. 95 del 6 luglio 2012, comprensive dei criteri (popolazione e territorio) individuati dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 20 luglio, sia per quanto concerne le Province che per le Città Metropolitane, non sono operanti per la Regione Sicilia, il cui campo normativo in materia di Enti locali è stato puntualmente “occupato” dal legislatore siciliano. Proprio in riferimento all’ente intermedio il legislatore siciliano ha prima legiferato con la famosa l.r. n. 9/86 che all’art. 3, comma 1, così recita: “L’amministrazione locale territoriale nella Regione siciliana è articolata, ai sensi dell’art. 15 dello Statuto regionale, in comuni ed in liberi consorzi di comuni denominati <<province regionali>>”. I restanti articoli individuano le modalità di istituzione della provincia regionale (art. 5)[2], le funzioni fondamentali (artt. 4, 8, 9, 10, 12, 13 e 14), l’assetto organizzativo (artt. 22 e seguenti), gli assetti finanziari e patrimoniali (artt. 48, 51, 52 e 53). E, più recentemente, ne ha avviato il riordino con la L.r. n. 14 del 8 marzo 2012.

Né, sulla questione possono pesare più di tanto le più volte invocate dallo stesso legislatore statale ragioni di coordinamento della finanza pubblica, atteso che per il Giudice delle leggi, “Le norme costituzionali… non attribuiscono allo Stato il potere di derogare al riparto delle competenze fissato dal Titolo V della Parte II della Costituzione, neppure in situazioni eccezionali. In particolare, il principio salus rei publicae suprema lex esto non può essere invocato al fine di sospendere le garanzie costituzionali di autonomia degli enti territoriali stabilite dalla Costituzione. Lo Stato, pertanto, deve affrontare l’emergenza finanziaria predisponendo rimedi che siano consentiti dall’ordinamento costituzionale”[3].

L’altra sentenza della Corte Costituzionale che merita un brevissimo commento è la n. 199 che rende giustizia ai tantissimi italiani che si sono recati alle urne per abrogare le normative oggetto dei quesiti referendari del giugno 2011 in materia di servizi pubblici locali. In sostanza il Giudice delle leggi partendo dal presupposto, opportunamente eccepito in dottrina, che uno dei quattro quesiti referendari veniva impropriamente circoscritto alla sola questione della privatizzazione della gestione del servizio idrico, ha ritenuto di annullare le previsioni legislative contenute nell’art. 4 del d.l. n. 138/2011, come convertito in legge, che miravano a riproporre quasi integralmente una corsia preferenziale pro-mercato concorrenziale per la gestione dei restanti servizi pubblici locali.

La Corte Costituzionale ha così garantito il principio di partecipazione democratica diretta del cittadino sancito dalla Costituzione, che non può essere vanificato dal legislatore a soli pochi mesi dal risultato referendario. In questo senso la Corte, pur essendone perfettamente a conoscenza, non poteva scrutinare la questione in considerazione del fatto che notoriamente il quesito referendario era stato proposto solo per evitare la “privatizzazione dell’acqua” atteso che la disciplina oggetto del quesito (il famoso art. 23-bis del d.l. n. 112/2008) non discriminava i settori di gestione del servizio pubblico locale ma, al contrario, li annoverava implicitamente attraverso le medesime disposizioni normative.

Il risultato di questo annullamento è quello che già avevamo avuto modo di commentare all’indomani della sentenza della Corte Costituzionale n. 62 del 07/03/2012 emessa per il caso dell’acquedotto pugliese[4]. In sostanza nel nostro ordinamento, che in materia si ss.pp.ll. risente non poco di quello comunitario, il legislatore sia statale, che regionale, per la gestione dei servizi pubblici locali (non solo quindi per quelli relativi alle risorse idriche) non può stabilire a priori una preferenza per il modello pro-mercato né per quello pubblico, ma deve lasciare alla valutazione degli enti locali e delle relative autorità d’ambito la valutazione, in base alle proprie peculiarità territoriali, del modello di volta in volta da preferire.

Sic stantibus rebus, in attesa di un prevedibile, quanto urgente, intervento legislativo che tenga conto del nuovo scenario delineato dalla Corte Costituzionale non possiamo che auspicare l’introduzione di un Testo Unico in materia che ponga fine alla cronica instabilità dei servizi pubblici locali.
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[1] Corte Cost., sent. n. 230/2001.
[2] La prima costituzione è intervenuta con la L.r. n. 17 del 12/08/89.
[3] Corte Cost., sent. 14/06/2012 n. 151.
[4] Si consenta il rinvio a Massimo Greco “Per la gestione delle risorse idriche né con Marx né contro di Marx”, su “Amministrazione In cammino”, rivista elettronica di diritto pubblico, pubblicata sul web all’indirizzo www.amministrazioneincammino.luiss.it, 02/05/2012.

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