di Daniela Di Paola. Con la sentenza n. 4150 del 16 luglio 2012, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato si è soffermata sulla disciplina propria del ricorso gerarchico, affermando che, in sede di decisione, l’amministrazione non può operare una reformatio in pejus della posizione del ricorrente, dovendo attenersi all’esame delle sole questioni da lui proposte.
Nella fattispecie esaminata, il ricorrente si era visto sospendere la patente per tre mesi, in ragione del giudizio della commissione medica, che ne aveva riscontrato una transitoria inabilità alla guida; impugnato il provvedimento in sede gerarchica, la P.A., unitamente al rigetto del ricorso, si era ulteriormente determinata, e, ritenendo che il deficit visivo del ricorrente ne determinasse la permanente inidoneità alla guida, gli aveva revocato la patente, con ciò modificando la propria precedente determinazione in senso deteriore per il ricorrente medesimo.
Di particolare lucidità le conclusioni cui giunge il Consiglio di Stato: “pur non trovando diretta applicazione per il ricorso gerarchico l’art. 112 Cod. proc. civ.” (principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato), devono ritenersi applicabili “regole analoghe, in considerazione della funzione giustiziale, comunque assolta dai ricorsi indirizzati alle autorità amministrative. Questi, infatti, introducono procedimenti di secondo grado che hanno per oggetto un provvedimento già emesso, sul quale gli interessati possono attivare una nuova valutazione della stessa autorità emanante o dell’organo sovraordinato ad essa, senza che la relativa pronuncia possa intendersi sostitutiva del rimedio giurisdizionale o limitativa dello stesso. A differenza di quanto previsto per l’esercizio della potestà di autotutela – autonomamente attivabile dall’Amministrazione, ma con le garanzie procedimentali prescritte, soprattutto quando si tratti di operare una reformatio in peius della posizione del soggetto interessato – i poteri da esercitare in sede di decisione di ricorso gerarchico vanno ricondotti all’esame delle sole questioni proposte dal ricorrente: esame in esito al quale – ove le misure adottate non risultino per lo stesso satisfattive – deve restare possibile il vaglio giurisdizionale in rapporto al provvedimento originario (cfr. art. 6 d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199).
La ricordata funzione giustiziale del ricorso amministrativo, e le garanzie che tale funzione comporta, implicano inoltre che la decisione, assunta ai sensi dell’art. 5 del medesimo d.P.R. n. 1199 del 1971, non sia soggetta a revoca o annullamento d’ufficio da parte dell’Amministrazione”, ciò “a tutela delle ragioni del ricorrente, ove accolte, e senza pregiudizio di tali ragioni, ove respinte, per la richiamata possibilità di agire in sede giurisdizionale avverso il medesimo atto in caso di decisione negativa sul ricorso (come non avverrebbe se il rigetto potesse implicare l’emanazione di un nuovo provvedimento, ancor più lesivo dell’interesse del ricorrente).”
Un commento su “Ricorso gerarchico: divieto di reformatio in pejus.”
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è importante che il principio del divieto della reformatio in peius sia chiaramente esteso dall’ambito penale a quello amministrativo. Difatti, va da se come proprio nell’ambito amministrativo, dati gli ampi poteri discrezionali riconosciuti alla P.A., debba essere pregnante il riconoscimento ed il rispetto del ‘principio di legalità’, secondo il quale l’esercizio del potere pubblico deve essere fondato sulla legge, e ciò per preservare i cittadini da arbitri.