di Fulvio Conti Guglia. Parte in una notte calda d’estate lo scontro-confronto istituzionale nascente dall’esito delle indagini dei pm siciliani sulla trattativa tra Stato e mafia (avvenuta tra il 1992 e il 1993). L’inchiesta coinvolge l’ex ministro dell’Interno, all’epoca in carica, Nicola Mancino, che si sarebbe rivolto al Quirinale (parlando al telefono con il consigliere giuridico del Presidente Loris D’Ambrosio e con lo stesso Napolitano) per sollecitare attenzione al suo caso. Il Capo dello Stato, di fronte all’intenzione della Procura palermitana di mantenere agli atti del procedimento anche le intercettazioni che interessano le utenze del Quirinale, ha sollevato davanti la Corte Costituzionale il conflitto di attribuzione perché le intercettazioni telefoniche che coinvolgono, anche indirettamente, il Capo dello Stato sono ”assolutamente vietate”, comportano ”lesione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica” e comunque non possono rimanere in atti processuali.
Decisa la posizione del ministro della Giustizia Paola Severino, dalla Russia, dove è in missione. Il Guardasigilli non ha dubbi: “il Capo dello Stato ha utilizzato il mezzo più corretto tra quelli previsti dal nostro ordinamento per risolvere i problemi interpretativi della legge sulle intercettazioni quando queste abbiano ad oggetto conversazioni telefoniche che hanno come interlocutore anche il Capo dello Stato”.
Nella polemica si era inserito il procuratore Francesco Messineo. ”Nell’ordinamento attuale nessuna norma prescrive o anche soltanto autorizza l’immediata cessazione dell’ascolto e della registrazione quando, nel corso di una intercettazione telefonica legittimamente autorizzata, venga casualmente ascoltata una conversazione fra il soggetto sottoposto a intercettazione ed altra persona nei cui confronti non poteva essere disposta alcuna intercettazione”.
Un inciso è d’obbligo, stiamo parlando di mafia, di stragi, di trattative tra delinquenti spietati, di servizi segreti deviati, di tutto quello che ha sporcato e probabilmente continua a sporcare l’Italia, la sua storia, la memoria, gli uomini. Ci si aspettava una collaborazione tra istituzioni per ricercare a qualsiasi costo la verità che ha sconvolto la gente per bene e il mondo intero, che ha gettato il paese nel sangue e nel terrore. Ci si aspettava che Napolitano incitasse (da Presidente della Repubblica) i magistrati che con grandi difficoltà ed impedimenti fanno il proprio lavoro, si schierasse con i cittadini che da vent’anni ricercano la verità; invece, sembra che non si parli di servitori dello Stato morti ammazzati, ma di un problema asfittico di forma tra istituzioni. Le stesse istituzioni, che non potranno sopravvivere nel dubbio, nella mancanza di lealtà o ancora peggio nell’ingiustizia. Le stesse, istituzioni, che dovrebbero dare sempre il buon esempio in questo caso rinunciando (a prescindere dall’eventuale antigiuridicità dell’atto) ai loro, opinabili privilegi, soprattutto in quei casi dov’è necessario dimostrare, che comunque vada, si sta sempre dalla parte dello Stato. Se Napolitano, avesse sollevato il medesimo conflitto per fatti meno gravi o semplicemente per principi giuridici generali, nessuno avrebbe obiettato, ci saremmo seduti ad aspettare con pazienza la decisione della Corte Costituzionale, ma in questo caso no. Le forme, le procedure, i privilegi, le prerogative, dovevano e devono essere messi da parte per una “Ragion di Stato” che chiede di far luce su un periodo cupo, e chi più degli altri, se non il primo cittadino per antonomasia (il presidente della Repubblica) dovrebbe chiedere, a voce alta e perentoria, che si faccia luce, che si scopra definitivamente la verità, rinunciando, ove fossero presenti, anche alle prerogative istituzionali.
Le prime reazioni.
Per il Capo della Procura Francesco Messineo quella nei confronti di Napolitano e’ stata una intercettazione “occasionale, un fatto imprevedibile che sfugge alla normativa in esame”.
Il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, parla di “intercettazione utilizzabile”. Anche se aggiunge che lo e’ se “non e’ rilevante per la persona sottoposta a immunità”, cioè’ il Presidente della Repubblica.
Salvatore Borsellino fratello del magistrato assassinato dalla mafia, chiede l’impeachment per il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. “E’ sconvolgente – dice Salvatore Borsellino – che al Quirinale si dia ascolto a chi come Mancino cerca di frenare quei magistrati coraggiosi che indagano sulla trattativa tra Stato e mafia. Parlare addirittura di avocazione o di accorpamento delle indagini significa una cosa sola: si vuole fermare il lavoro della Procura di Palermo, che più di altri è andata avanti sulla linea della trattativa. Che questo avvenga dalla più alta carica dello Stato è una cosa estremamente grave e non può che portare a una sola conseguenza: l’ipotesi di impeachment per il Presidente della Repubblica”. “Fino a quando non sarà cancellato il peccato originale di una Seconda Repubblica fondata sulle stragi del ’92 e ’93 – aggiunge – l’Italia non potrà mai dirsi un paese democratico e civile”.
Per Borsellino, la decisione di Giorgio Napolitano “si tratta di una reazione di un uomo disperato che sa, che se venissero rese pubbliche quelle intercettazioni, non avrebbe che una possibilità: dimettersi”.